LA PAZZA

LA PAZZA (uno dei miei racconti migliori: in tre puntate, tutte e tre presentate oggi)
di Mauro Antonio Miglieruolo

– E’ pazza! – esclama Mario in tono enfatico, un po’ divertito, un poco indifferente. – Non gli date retta…
Apre tossendo il suo secondo pacchetto di sigarette. Sospira. Quelle sigarette sono una rovina. Non dovrebbe fumarle, ma le fuma, gli è impossibile farne a meno. Come gli è impossibile fare a meno del peggio di se stesso, del vizio, della brutalità e dell’indifferenza. E’ fatto così Mario, e non può fare a meno di esserlo. Neppure vuole. Non è che non capisca: se ne infischia proprio! E’ un rappresentante esemplare di questo povero, disastrato mondo: il peggiore dei mondi possibili.


Accende una sigaretta e l’aspira, con espressione nauseata, come se stesse facendo qualcosa di ripugnante. Il disgusto non è originato dalla sigaretta: è rivolto alla realtà, alle cose che lo circondano. Alla casa, al disordine che vi regna, alla povertà che ne traspira. E’ RIVOLTO ALLA MOGLIE. Cosa diavolo può farsene di una squinternata simile?
Gli amici posano le carte sul tavolo.
– Mannò! – fa Mario allarmato. – Non le badate. Si sfoga un po’ e poi le passa.
Gli strepiti di Marta salgono di tono. E’ improbo ignorarla.
Il disagio degli amici aumenta.
Marta afferra un pentolino e comincia a pestarlo sul tavolo. Fa un gran fracasso.
– Cristo! – mormora piano Toni, osservandola. Il tono non è abbastanza piano da sfuggire all’attenzione di Mario. Mario si altera e mordicchia feroce il filtro della sigaretta.
La moglie lo ignora. Continua a pestare finché il manico non le resta in mano. Guarda confusa il manico inerme del pentolino e non sa cosa fare. Lo scopre subito dopo. Si piazza davanti ai fornelli e, con gesti automatici, li accende tutti insieme.
Li spegne.
Li riaccende.
Li spegne, li riaccende.
Dà fuoco a pezzi di carta appallottolati e li getta in giro per la stanza.
– Piantala! – urla il marito.
La donna non l’ascolta. Gli occhi gli si accendono di gioia. Il marito si inalbera e lei si diverte. Questo è il suo gioco, la sua rivalsa nei confronti di ciò che la stringe d’assedio. Esasperare tutto affinché tutti possano rendersi conto della sua esistenza, e la morsa si allenti. Getta in giro altri pezzi di giornale accesi.
L’uomo si alza e l’afferra per i capelli. Marta strepita, grida di essere lasciata. L’uomo allora la colpisce al volto, seccamente, un paio di volte. Marta reagisce e lui peggio, altre botte. Si picchiano. Mario riesce a immobilizzarla contro il muro e ci dà dentro con passione.
Fortuna che i ragazzi sono fuori, pensano Gianni e Toni e Guglielmo. Il loro disagio aumenta.
Marta smette di gridare e Mario di colpire. La lascia e lei scivola in terra gemendo.
Quando si rialza non ha più voglia di dare fuoco alla casa. Si chiude nel cesso sbattendo forte la porta. Si sente un colpo tremendo e il rumore di qualcosa che va in pezzi. Una voce piagnucolante impreca.
Mario torna a sedersi.
– E’ la terza volta in un mese che ci prova col suo giochetto, – afferma, tirando la sedia verso il tavolo, dopo aver inserito un braccio in mezzo alle coscie. – Sta diventando un chiodo fisso per lei, una mania, e peggiora di giorno in giorno. Temo proprio che dovrò farla rinchiudere.
Uno degli amici, Toni, si alza.
– Ci vediamo, – fa un po’ scuro in volto.
Anche Gianni e Guglielmo si alzano.
Mario impreca, assume un’espressione esasperata.
– Che cazzo! Per le smanie di una isterica, voi… – inizia a protestare. Si interrompe. Decide di lasciar perdere. Non servirebbe a niente insistere. Il pokerino ormai non sarebbe più procedre tranquillo e sfizioso come era iniziato.
Affanculo! capace di rovinargli ogni genere di divertimento, la stronza di là! CHE LA TIENE A FARE? Non gli stira neppure le camicie. Le brucia, invece di stirarle. Brucia di tutto, rompe tutto, non è capace di combinare niente. Sembra una impedita, a volte. Cosa farsene di un carretto simile?
– Hai visto cosa hai combinato? – grida non appena gli amici sono usciti. – Sei contenta ora?
Marta risponde con un verso di minaccia, lo stesso che usano i gatti, drizzando il pelo, quando vogliono significarti: amico, stattene alla larga, è meglio per tutti! Mario ridacchia, divertito. Ha un caratterino la moglie! Tutto pepe! Gli tiene testa, gli tiene! Quando non rompe le balle risulta persino divertente.
Bussano.
– Va ad aprire, Marta!
Marta spalanca la porta del bagno, si piazza con le mani sui fianchi e sbraita:
– E tu, non ce le hai le mani?
– Esci da quel fottutissimo buco di culo e vai ad aprire. Non fartelo dire una seconda volta!
Marta fa la faccia feroce, ma va ad aprire. Ha un labbro spaccato e i capelli in disordine. Anche nel vestire è trasandata. Sporca e trasandata. Sembra una strega. Guarda fisso il mondo e sembra sempre lì in procinto di mandarlo al diavolo.
Il labbro si è gonfiato in modo vistoso. La ferita, mal rimarginata, riprende a sanguinare non appena la si sfiora.
Apre. Gli uomini fuori la fissano spaventati.
– Che volete, – chiede in tono sgarbato.
– Gorini? – chiedono a loro volta i tipi, un poco circospetti.
– Non compriamo niente, – replica Marta dura, in modo automatico.
– Abbiamo un pacco da consegnare, – spiegano loro.
– C’è da pagare? – interviene Mario avvicinandosi. Tiene gli occhi socchiusi, la fronte corrugata, per proteggersi dal fumo da lui stesso emanato, mentre tira nervoso a più riprese da una sigaretta appena accesa.
– No, Signore, – rispondono. – La fattura risulta saldata…
– Allora portate dentro…
I facchini si scambiano occhiate perplesse. Chi avrà mai potuto fare un regalo tanto costoso a una famiglia tanto disastrata? a dei pitocchi che neppure sapranno cosa farsene? Soldi buttati dalla finestra, ecco.
Salutano, dicono di aspettare, torneranno da lì a un paio di minuti, e se ne vanno.
Ricompaiono dopo un po, sbuffando e sudando, incitandosi reciprocamente, e spingi! solleva! attenzione! mannaggia quanto pesa questo accidenti! tutti imbracati attorno a una cassa di notevoli dimensioni.
– Dove la mettiamo? – chiedono.
Marta indica dove col mento. Un gesto scostante con cui manifesta la sua insofferenza. Non gli piacciono quei tipi, i corpi massicci, le espressioni stolide, da sconfitti. Si fida poco di chi le somiglia e, dopo averne subite tante, non è capace d’altro che di concepirsi nelle mortificazioni che subisce. Non puoi mai prevedere cosa siano in grado di combinare costoro (non può prevedere neppure cosa sia in grado di combinare lei stessa). Possono esplodere d’improvviso, senza alcuna ragione apparente; e, saltandogliene il ticchio, decidere di infliggerti qualcosa di spiacevole: minimo tentare di rosicarti il cranio fino alla cervice. Per la verità non ama nessuno che cammini su due zampe. Mai ha avuto alcunché di buono dagli uomini. Non si aspetta di averne nel prossimo futuro. Per cui, meno ha a che fare con loro, meglio si sente.
Gli uomini sistemano la cassa.
– Firmi qui, – invitano tendendo una carta.
Marta firma senza guardare. Con un nuovo gesto del mento li sollecita ad andarsene. Via, sciò, toglietevi dalle palle! fuori di casa mia! Gli uomini ottemperano, se ne vanno. Borbottando, però. Non hanno avuto la mancia! In che manica di pezzenti sono incocciati! Mario intercetta il significato di quei borbottii e, da dietro la porta, rivolge loro un gesto osceno.
– Cristo, se pesa! – dice saggiando la resistenza della cassa. – Che ci sarà dentro?
– Non è roba che hai ordinato tu?
– Chi, io? Son mica Morgan, io! Con quello che ho in tasca non potrei pagarmi neppure il trasporto di questa roba, figuriamoci comprarla!
Ambedue fissano speranzosi la cassa. Cominciano a realizzare che può avere un valore.
– Aprila, – propone Marta in tono urgente. – Non vogliamo vedere cosa c’è dentro?
Mario prende un martello e comincia a schiodare le assi. Il contenuto non appare. E’ tutto avvoltolato nell’argilla espansa. Mario spazza via il materiale protettivo e impreca. Poggia il martello sul tavolo. Si concede un’espressione esageratamente schifata. Sputa di lato, storcendo la bocca. Cristo! ha perduto tempo e fatica!
– E’ solo un manichino, – afferma. – Un fottutissimo manichino.
Marta però non l’ascolta. Non bada alla cassa. Guarda affascinata il martello. Si avvicina quatta quatta al tavolo. Il marito finge di non accorgersene. Non appena però la donna allunga la mano per afferrare il martello, la colpisce al polso. La donna grida di dolore. Poi grida di rabbia. E ancora di esasperazione. Si stropiccia il polso.
La faccenda non finisce lì. Marta non è tipo da prenderle senza reagire. Afferra delle suppellettili e le fa volare per la stanza, insieme a valanghe di insulti.
Al riparo d’una sedia, acquattato in terra, il marito, se la ride. Quella stupida non vuole proprio capire chi è il più forte, e il più furbo, e il più svelto, in casa. Ci penserà lui ad insegnarglielo.
Marte smette di lanciargli roba addosso. Mario si solleva da dietro la sedia e infila la giacca.
– Che schifo di vita, – commenta. Ma è soddisfatto. Gli piace dimostrare a se stesso che è in grado di farsi rispettare. Se non è proprio necessario, evita di mettersi al livello delle meschinerie della moglie.
– Non verrò per l’ora di pranzo, – avvisa, mentre tira a sé il battente.
Marta risponde fottiti! e gli volta la schiena. Vedi di non tornare per niente, pensa. Cosa potrà mai farsene di un vagabondo suo pari?
Non lo pensa sul serio, naturalmente. Le donne non sono mai serie quando discettano di questi argomenti, anche quando lo ripetono in continuazione. Anzi, tanto meno lo pensano quanto più lo ripetono. Il peggio della vita è il niente. E qualsiasi pena non potrà mai uguagliare il niente. In realtà esprimono solo ciò che sarebbe bello fosse, non quello che effettivamente vogliono che sia.
Be’, ognuno si difende come può dalla vita.

* * * * *

Marta è sola. Staziona davanti al manichino. Rapidamente la curiosità si esaurisce. Non c’è molto di cui essere curiose. Un coso lucido dalla bella faccia e nient’altro, nulla che valga la pena di osservare.
– Chissà che non possa servire a quelli del negozio di confezioni all’incrocio? – mormora.
Potrebbe riuscire a scucirgli qualche migliaio di lire. E’ un bel manichino. Robusto. Espressivo. Varrebbe la pena venirselo a prendere. Sì, perché lei non sarebbe certo in grado di portarlo a destinazione, con quello che pesa.
Non deve essere fatto col solito materiale plastico che si usa per i manichini. E’ grigio, satinato. Sembra di metallo. Forse può rendere davvero qualcosa!
Allunga una mano per toccarlo. Sussulta. Altro che plastica! quell’aggeggio è di metallo. Meglio trattare col ferrivecchi, riflette. Comprano a peso, loro. Può ricavarne molto di più. Magari un diecimila.
Torna a sfiorare il manichino. Strano, sembra caldo. Incuriosita da quel tepore inaspettato, riprende a palparlo con ambedue le mani. La sensazione è piacevole. Sembra quasi di toccare pelle viva, pelle umana.
Improvvisamente ode un clik in pianissimo, al limite dell’udibilità. Il manichino apre gli occhi. Marta urla.
– Robot di Servizio e Intrattenimento matricola 12 in funzione, – annuncia.
Nuovo urlo di Marta. Non più di sorpresa, questa volta, ma di paura. C’è un uomo lì dentro, dentro il coso, IL MANICHINO. Si allontana veloce dalla cassa.
– Che razza di trucco è questo?
– Non è un trucco, – replica il manichino alzandosi e iniziando a passeggiare. Muove le braccia, flette il corpo, come se stesse cercando di sgranchire i muscoli. – Manifesto la più importante delle mie facoltà di serie, quella di conversare. Possiedo anche l’optional della sensibilità e buoni sentimenti…
– Cosa vuoi? Perché ti sei introdotto qui? Ti avverto, vattene, Mario sarà qui a momenti, e allora te la vedrai brutta. Tu non conosci il mio Mario!
– E’ evidente! Non conosco nessuno al mondo! Sarò lieto pertanto di stringergli la mano, quando me lo presenterai.
Il robot si inchina.
– Tu che? Stringere la mano? Macchedici! Mario ti schiaccerà come una pulce!
Il robot risponde con un cenno cortese del capo. Sarà quel che deve essere, sembra voler dire.
Marta, come farà a muoversi tanto agilmente, sotto quel peso? pensa, con tutta quella latta addosso? Deve essere forte quel tipo.
– Esci fuori di lì, amico, finiscila di fare il pagliaccio. Fatti vedere in faccia.
Chissà se è altrettanto bello della maschera che porta sul viso?
Il robot l’ignora. Sorride. Osserva incuriosito l’ambiente. Lo trova veramente notevole. Sporcizia, disordine, squallore. E’ decisamente nuovo per lui. Nonostante stia frugando da parecchio nelle memorie di massa, non trova norme sufficienti a qualificarlo. E’ costretto allora a definirlo sul momento, lavorando sulle poche istruzioni che possiede. Marta lo osserva con acrimonia. Si aspetta un commento poco lusinghiero, tipo: ve la passate proprio male da queste parti, eh? Invece niente, il Robot continua a guardarsi intorno e a sorridere.
Forse non ha cattive intenzioni. Forse non è una canaglia come tanti. O forse è di buona, non gli va di scalmanarsi. Comunque sia, non le è saltato addosso, per immobilizzarla e violentarla, quando gli ha detto di Mario, che è fuori, e non può difenderla. Forse però è un veramente un farabutto, uno di quei sadici a cui piace tenere la vittima sulle spine, per poi manifestare all’improvviso le sue vere intenzioni. D’altronde in casa c’è ben poco che possa valere la pena di portar via. Dunque, non può che essere a lei che mira. Marta non ha un grande aspetto ma è pur sempre una donna, no?
Il Robot indica, con un gesto largo del braccio, tutto ciò che ha visto.
– Se permetti, do una pulitina, – dice.
Marta è troppo sorpresa per commentare, o anche solo per rispondere con un cenno. Sbatte gli occhi e osserva il robot che inizia a darsi da fare. E’ efficientissimo, rapido, bene organizzato. Si impadronisce di una scopa e tempo un paio di minuti, la stanza è spazzata a puntino. Un altro paio di minuti per la stanza accanto, poi entra in gabinetto e completa le pulizie (la casa è tutta lì).
Quando ritorna trova Marta stravaccata su una sedia che si scompiscia dal ridere. Il manichino ha in mano una grossa scatola di cartone piena di detriti.
– Peccato non ci sia Mario a vederti, – commenta la donna con voce agonizzante, e spruzzando saliva, tra una crisi di riso e l’altra.
Il Robot si sbarazza dei detriti. Si volta verso Marta. La fissa a lungo, imperturbabile. Bastano pochi secondi di quel suo sguardo attento e profondo a costringere Marta a non ridere più.
– Che hai da guardare? – chiede battagliera, pensando nel frattempo: ecco, è arrivato il momento. Ora le taglierà la gola. Oppure la picchierà e glielo farà per bene. Una sistematina svelta, senza troppo accanimento. Così, tanto per poter sostenere di averlo fatto e non farsi ridere dietro dagli amici.
Ma lei strillerà, cazzarola! Oh, se strillerà! Strillerà tanto da far accorrere l’intera città! Lui il servizio però glielo farà ugualmente. Le metterà una mano sulla bocca e via!
Dopo, se non è troppo carogna, dirà: non sei male, sai, per una di cinquantanni proprio niente male! Certo che no! A parte che di anni ne ha quaranta (be’, sì, quarantaquattro), vale ancora qualcosa, lei, non è mica da buttare via. Insomma, gli uomini le ronzavano parecchio intorno, ancora non molto tempo fa. E qualcuno, a volte, ci prova anche oggi, allunga la manina, e se non sta attenta, si prendono dei bei passaggi! Ma Marta ci sta attenta, altroché. Ha imparato a difendersi. E’ capace di dare certe ginocchiate sui coglioni!
Chissà che anche questo non riesca a colpirlo nel punto giusto e lo faccia finire in terra, le mani tra le coscie, a imprecare e gemere, e invocare faticosamente “Gesù!” e “Madonna mia!”
Il Manichino non allunga le mani, come teme. Scrolla il capo.
– Penso che dovresti darti una pettinata, – risponde. Il tono è amichevole, quasi confidenziale.
Marta “eh?” fa, e apre la bocca. E così rimane, con la bocca aperta.
Che cavolo! deve trattarsi di un principiante, o di un timido, uno che non sa destreggiarsi con le donne. Forse ha qualche speranza, può riuscire a cavarsela.
Il Robot continua a guardarla. Anche Marta guarda il Robot. Se ne stanno quieti per un pezzo, in silenzio. Ognuno rimugina pensieri propri, che crede esclusivi. In realtà ambedue si pongono il problema di spezzare il silenzio, che temono, che li inquieta, che allude a una solitudine che potrebbe diventare permanente. Non conoscono però il modo giusto per capire l’altro. Non esiste in realtà un modo ragionevole per farlo. Ne esiste uno irragionevole, che nasce dal cuore. La possibilità di conoscersi tramite la parola è pura illusione. La parola è solo un pretesto, al massimo un mezzo. Quando si parla ci si è già capiti e il silenzio comunque non fa più paura.
Se ne stanno lì, muti, a lambiccarsi il cervello, accerchiati dal disagio, finché il televisore vicino, nel corso di una delle innumerevoli dissolvenze, non emette un disturbo che risuona molto simile a un rumore scurrile.
Il Robot si volta. L’immagine sullo schermo appare disturbata. Altri grrr! beffardi si susseguono. Allunga la mano verso i pulsanti di sintonizzazione.
– LASCIA STARE IL MIO TELEVISORE! – urla Marta alzandosi con atteggiamento minaccioso. – Via di lì!
Non vorrà attaccarsi proprio alla TV, spera! Ah, questo proprio non lo sopporterebbe! E’ l’unico oggetto che abbia un qualche valore, e ci tiene moltissimo, ci tengono tutti quanti in casa. Senza il televisore la vita in comune sarebbe un mortorio, più litigi e privazioni.
– Intendevo dargli un’occhiatina, – si giustifica il Robot. – Lo vedi anche tu che non funziona bene, no? Vorrei tentare di aggiustarlo.
Marta si rimette quieta.
– Beh, cosa aspetti, allora? Fallo, se ne sei capace.
Il Robot si china sul televisore. Marta afferra un piatto e glielo rompe sulla nuca. Il gesto è violento, inferto con tutta la forza. Si tratta di piatti infrangibili, occorre dare una bella botta per romperli al primo colpo, e devono fare un male d’inferno a prenderli sulla cuticagna. Il piatto si sbriciola e Marta ride sguaiatamente.
– Ah! Ah! Ah! Ci sono riuscita, ti ho colpito!
Il Robot si raddrizza lentamente. Pare sconcertato. Si muove verso Marta, e Marta va a rifugiarsi dietro il tavolo. Ode il vetro sbriciolarsi ulteriormente sotto le scarpe metalliche del manichino e rabbrividisce. Ora lui si vendicherà, le farà molto male. Forse le spezzerà un braccio, come una volta è riuscito a Mario. Oppure la riempirà di lividi. Spera solo che non gliene dia troppe in faccia, le spiace andare in giro con vistosi segni bluastri sul volto.
Il Robot però non va verso Marta. Si dirige verso il ripostiglio alla ricerca della scopa e una paletta. Poi si dà da fare per raccogliere i cocci. Mentre è chinato la donna ne approfitta per dargli una spinta. Il Robot cade rovinosamente. L’appartamento ne rimbomba.
Un pioggia di suppellettili si riversa sul corpo disteso. La donna lancia con precisione e senza risparmiarsi. Scoppi di risate agghiaccianti accompagnano i lanci.
Gli oggetti a portata di mano si esauriscono e Marta rimane disarmata ansimante in attesa degli eventi. Non succede niente. Non ode né una parola, né vede alcun gesto. Improvvisamente torna a sedere. Guarda fisso davanti a sé, lo sguardo vuoto e biascica sommessa alcune parole indecifrabili.
Non ha veri pensieri. E’ solo in attesa delle percosse.
La cosa in terra non ha emesso un lamento. Continua a starsene zitta, immobile. Ha gli occhi aperti, l’espressione calma, tranquilla. Strano. L’ha colpito più volte, è sicura, dovrebbe almeno aver provato dolore.
Il tempo passa, e la cosa si muove. Si solleva. E’ alta, massiccia, fosca. Si avvicina.
– Non mi picchiare in testa, – implora Marta. – In testa no.
Spera proprio di non essere colpita in testa. Lo sa solo lei quanto è delicata in quel punto! Lei sola lo sa!
La massa di metallo si avvicina. Alza una mano. Marta continua a guardare fisso davanti a sé. Meglio non tirarla a lungo con quelle faccende. Se ne prendono di meno. Tanto, evitarle non si può. Però ha paura (lo dimostra il lieve tic sulla guancia). Questo è più grosso di Mario, picchierà più forte.
La mano si avvicina, ma piano, senza furia alcuna. Sfiora il labbro di Marta.
– Dovresti disinfettarti, – afferma placido il Robot. – Non c’è nulla di adatto in casa?

* * * * *

MAURO ANTONIO MIGLIERUOLO

(vedi il seguito alle ore 11.20)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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