La peste e noi: sessant’anni senza Camus

di Gianluca Ricciato

“Il sonno degli uomini è più sacro che la vita per gli appestati; non si deve impedire alla brava gente di dormire” (Albert Camus)

 

Si è parlato molto in questi mesi, inevitabilmente, del romanzo La peste di Albert Camus, uscito nel 1947 in Francia per le edizioni Gallimard ed ambientato in un imprecisato momento degli anni Quaranta del Novecento in una cittadina algerina, Orano. Proprio insieme a Michel Gallimard, Camus trovò la morte esattamente sessanta anni fa, il 4 gennaio 1960.

Sulla sua morte, dovuta ad un’inspiegabile rottura dei comandi dell’automobile guidata da Gallimard, si è scritto molto soprattutto negli ultimi dieci anni, da quando cioè sono emerse nuove rivelazioni che indicherebbero il coinvolgimento del KGB e dei servizi segreti francesi. [1]

Dice in un’intervista di qualche anno fa la figlia di Albert, Catherine Camus: «Per la politica? È molto semplice, Camus non esiste. E con la sinistra è quasi peggio che con la destra. Questo è chiaro e netto. Nel 2013 i francesi, che pure adorano le commemorazioni – sono noiosissime, ma a loro piacciono – non hanno fatto proprio nulla. L’unico è stato Nicolas Sarkozy che voleva mettere papà nel Panthéon, e meno male che mio fratello ha detto di no perché io avevo detto sì. Ma avevo ricevuto tantissime lettere che mi avevano chiesto di dire sì. E si capiva che erano della stessa estrazione sociale di papà, erano dei poveri. Racconto quest’episodio: uscivo dall’Eliseo per andare al Panthéon, e col tassista non so come è venuta fuori la cosa della commemorazione, perché lui mi dice: “Le commemorazioni ci fanno campare alla grande, ci fanno comodo e a loro piacciono”, e io: “Ah, no, non mi parli di commemorazioni, che rottura”. E lui: “Perché, lei è nel settore delle commemorazioni?”, e io: “Dio me ne scampi, non c’entro nulla, ma è il cinquantenario della morte di mio padre, che era una persona nota, e lo vogliono commemorare e questo mi scoccia”. Dice: “Cinquant’anni dalla morte? È morto nel Sessanta?”. E io: “Beh, sì”. “Ma non sarà mica Albert Camus?”. E io: “Eh, sì”. “Signora, lei non può immaginare quanto io sia commosso, non può, perché per me Camus è… lo leggo continuamente, e come parlava di sua madre! Lei non sa quanto sia commosso! E poi voglio dirle una cosa, che suo padre è famoso e importante, perché di famosi ne abbiamo parecchi, ma d’importanti ben pochi”. E va avanti: “Io sono d’origine polacca, mio padre è arrivato a Parigi, ha fatto il carrettiere ed era analfabeta e Camus m’accompagna sempre”. Allora gli ho detto: “Mi è stato appena detto che si vuol mettere Camus al Panthéon, lei che ne pensa?”. Uscendo dall’Eliseo ero sconvolta, avevo preso degli ansiolitici per evitare una colica. Detesto i luoghi di potere, sono atroci, ne trasuda qualcosa di poco pulito. Dunque gli dico questo e lui: “Signora, oh sì, dica di sì, perché per le persone come noi sarebbe una speranza”. Ecco, a causa di quest’uomo – e di altri che mi hanno scritto – ho detto di sì. In seguito gli ho scritto per informarlo che io avevo detto di sì, ma mio fratello di no, e che volevo metterlo al corrente perché l’incontro con lui mi aveva davvero toccato. Un anno dopo mi ha riscritto lui per dirmi che era passato da Lourmarin, che era stato sulla tomba di papà e che era molto felice che fosse rimasto dov’era. Pazzesco, no? Un tassista. “Dica di sì perché per noi sarebbe un simbolo e una speranza”» [2].

Non mi dilungherò sul perché La peste in questi mesi abbia ritrovato un interesse di massa e le sue vendite si siano impennate. Del resto anche io, forse colpevolmente ma in un certo senso fortunatamente, ho aspettato il 2020 per leggere questo romanzo, e sono state molte le emozioni e le riflessioni che mi ha suscitato. Ma non mi sono approcciato al testo con l’idea di trovare lì il senso di quello che stavo vivendo. La peste, lo sapevo già, è una sorta di allegoria camusiana del male che incombe sugli esseri umani, è stato scritto dopo la Seconda Guerra Mondiale con il fantasma del nazifascismo ancora presente, racconta una storia, immaginaria ma verosimile, di una città di 80 anni fa, colonia francese, alle prese con un’epidemia, che però interessa una sola città, la quale viene isolata dal resto del mondo (da un giorno all’altro nessuno può più entrare né uscire, cittadini o ospiti di passaggio che siano). Racconta l’epidemia di un morbo legato ad un bacillo, la cui diffusione pandemica storicamente ha avuto una mortalità di circa il 30% sul numero di contagiati ed in generale effetti devastanti sui loro corpi [3], difficilmente capaci di rimettersi a fare attività fisica agonistica professionistica dopo pochi giorni, ad esempio. [4]

Ma per sentire, prima ancora che pensare, le analogie, le differenze, gli insegnamenti più o meno particolari o generali sulla vita e sul mondo, la cosa migliore è leggere questo romanzo, e non credo potrei aggiungere molto di più, se non indicare e riportare qui le frasi del romanzo che mi sono sembrate più significative, in questo senso. E che più mi hanno emozionato.

I passi sono ripresi dalla XIV edizione nei tascabili Bompiani del febbraio 1990 (non so nemmeno io perché abbia questa edizione, probabilmente proviene dagli acquisti massivi di libri usati che facevo un tempo al mercatino dei libri di Piazza XX Settembre a Bologna, quando abitavo a pochi passi da lì).

Il titolo di ogni citazione è arbitrariamente aggiunto da me. Buona lettura.

UNA CITTA’

Una maniera facile per conoscere una città è quella di cercare come vi si lavora, come vi si ama e come vi si muore. (…) Non è necessario, quindi precisare il modo in cui ci si ama, da noi. Gli uomini e le donne si divorano rapidamente in quello che si chiama l’atto d’amore o s’impegnano in una lunga abitudine a due. Questo non è nemmeno originale; a Orano, come altrove, in mancanza di tempo e di riflessione, si è costretti ad amarsi senza saperlo – (pp.5-6).

CONFINI INTERIORI

Provavano quindi la sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla. Quello stesso passato in cui riflettevano senza tregua non aveva che un sapore di rammarico. Avrebbero voluto, infatti, potervi aggiungere tutto quello che deploravano di non aver fatto quando potevano acora farlo con colui o colei che aspettavano; allo stesso modo, a tutte le circostanze, anche relativamente felici, delle loro vite, essi univano l’assente, e quello che erano allora non li poteva soddisfare. Impazienti del proprio presente, nemici del proprio passato e privi di futuro, somigliavano a coloro che la giustizia o l’odio degli uomini fa vivere dietro le sbarre. Insomma, il solo mezzo per sfuggire a una tale improbabile vacanza era quello di far correre i treni con la fantasia e di colmare le ore coi ripetuti rintocchi d’un campanello sebbene ostinatamente silenzioso – (pag. 56).

ASSEMBRAMENTI ALCOLICI

Quanto ai caffè, grazie ai ragguardevoli depositi accumulati in una città dove il commercio dei vini e degli alcolici tiene il primo posto, poterono egualmente soddisfare i loro clienti. A dir la verità si beveva molto. Un caffè aveva inalberato la scritta “il vino probo uccide il morbo”;  l’idea, di per sé naturale nel pubblico, che l’alcool preservava dalle malattie infettive, si rafforzò nell’opinione generale. Tutte le notti, verso le due, un numero piuttosto elevato di ubriachi espulsi dai caffè riempivano le strade e vi si prodigavano in discorsi ottimisti – (pag. 61).

DESTINO DIVINO

“Guardatelo l’angelo della peste, bello come Lucifero e radioso come il male stesso, dritto al di sopra dei vostri tetti, con la mano destra che solleva la rossa lancia a livello della sua testa e con la sinistra che indica le vostre case. In quest’attimo, forse, il suo dito si tende verso la vostra porta, la lancia risuona sul legno; in quest’attimo, ancora, la peste entra da voi, si siede nella vostra camera e aspetta il vostro ritorno. Essa è là, paziente e pensosa, ceerta come l’ordine stesso del mondo. La mano che vi tenderà, nessuna potenza terrestre e nemmeno, sappiatelo bene, la vana scienza degli uomini, potrà farvela evitare. (…) Non è più il tempo in cui i consigli, una mano fraterna erano i mezzi per spingervi al bene. Oggi la verità è un ordine. E la via della salvezza, una lancia rossa ve la mostra e vi ci spinge. E qui, fratelli miei, si manifesta la divina misericordia che ha messo in ogni cosa il bene e il male, la collera e la pietà. La peste e la salvezza. Lo stesso flagello che vi tormenta vi eleva e vi mostra la via” – (discorso di Padre Paneloux, nota mia, pagg. 74-76).

PROFESSIONISTI DELL’INFORMAZIONE

Nonostante la crisi della carta, che diventa sempre più acuta e ha costretto certi periodici a ridurre il numero delle pagine, è stato fondato un altro giornale, il Corriere dell’epidemia, che si propone “d’informare i nostri concittadini, con una preoccupazione di scrupolosa obiettività, sui pregressi o regressi della malattia; di fornirgli le testimonianze più autorevoli sul futuro dell’epidemia; di offrire l’appoggio delle sue colonne a tutti coloro, noti o ignoti, che sono disposti a lottare contro il flagello; di sostenere il morale delle popolazioni, di trasmettere le disposizione delle autorità, e, in una parola, di raccogliere ogni buona volontà contro il male che ci colpisce”. In realtà, questo giornale si è limitato a pubblicare in gran fretta gli annunci di nuovi prodotti, infallibile per prevenire la peste – (pp. 91-92).

ALIENAZIONE

I nostri concittadini, coloro almeno che avevano più sofferto per la separazione, si abituavano al loro stato? Non sarebbe del tutto esatto affermarlo; sarebbe più giusto dire che, nel morale come nel fisico, essi soffrivano di consunzione. Al principio della peste essi ricordavano molto bene la creatura che avevano perduto e la rimpiangevano; ma se ricordavano nettamente il volto amato, il suo riso, in tal giorno che troppo tardi riconoscevano felice, difficilmente immaginavano quello che l’altro potesse fare nell’ora stessa in cui lo evocavano e in luoghi ormai sì lontani. Insomma, in quel momento avevano la memoria, ma una fantasia insofferente. (…) Da questo punto di vista, erano entrati nell’ordine stesso della peste, tanto più efficace quanto più era mediocre. Nessuno, tra noi, aveva più grandi sentimenti; ma tutti provavano sentimenti monotoni. (…) Al grande e selvaggio slancio della prima settimana era succeduto un abbattimento che si avrebbe avuto torto di prendere per rassegnazione, ma che tuttavia era una sorta di provvisorio consenso – (P. 140).

TEATRO IN PRESENZA

Ci volle il gran duetto di Orfeo e Euridice nel terzo atto (era il momento in cui Euridice lasciava il suo sposo) per diffondere una certa sorpresa nella sala. E come se il cantante non avesse aspettato che quel moto del pubblico o, ancora più certamente, come se il rumore venuto dalla platea l’avesse confermato in quanto sentiva, egli scelse quel momento per farsi avanti, verso la scalinata, in maniera grottesca, con le braccia e le gambe aperte nel suo costume all’antica, e per stramazzare in mezzo alle pastorellerie della messinscena, che non avevano mai cessato di essere anacronistiche, ma che, agli occhi degli spettatori, lo diventarono per la prima volta, e in modo terribile – (p. 154).

DISPOSITIVI DI PROTEZIONE

Prima di arrivare a una doppia portiera a vetri, dietro la quale si vedeva un curioso movimento di ombre, Tarrou fece entrare Rambert in una stanza piccolissima, tutta piena d’armadi. Egli ne aprì uno, trasse da uno sterilizzatore due maschere di garza idrofila, ne porse una a Rambert invitandolo a coprirsene. Il giornalista domandò se servisse a qualcosa, e Tarrou rispose di no, ma che dava sicurezza agli altri – (p. 159).

AGONIA

Quanto al ragazzo, fu trasportato all’ospedale ausiliario, in un’ex-aula scolastica,  dov’erano stati messi dieci letti. Dopo una ventina di ore, Rieux giudicò disperato il caso. Il piccolo corpo si lasciava divorare dall’infezione senza reagire per nulla. Minutissimi bubboni, dolorosi, ma appena formati, bloccavano le articolazioni delle gracili membra. Era un vinto, sin dal principio. Per questo Rieux pensò di sperimentare su di lui il siero di Castel. La sera stessa, dopo cena, praticarono la lunga inoculazione, senza ottenere la minima reazione dal ragazzo. All’alba del giorno dopo, tutti si recarono presso il piccolo malato per giudicare di questa decisiva esperienza. Il ragazzo, uscito dal torpore, si rotolava convulsamente nelle lenzuola. (…) Di bambini ne avevano veduti morire ormai: il terrore, da mesi, non sceglieva affatto; ma non avevano ancora seguito le loro sofferenze minuto per minuto, come stavano facendo dalla mattina. E. beninteso, il dolore inflitto a qugli innocenti non aveva mai finito di sembrargli quello che in verità era, ossia uno scandalo. Ma fino ad allora si erano scandalizzati astrattamente, in qualche modo mai avevano guardato in faccia, così a lungo, l’agonia di un innocente – (pp. 164-165).

AUT AUT

Nemmeno bisognava pensar di emulare quegli appestati persiani che buttarono i loro stracci sulle pattuglie sanitarie cristiane, invocando ad alta voce dal cielo di mandar la peste agli infedeli che volevano combattere il male inviato da Dio. Ma, all’incontrario, nemmeno bisognava imitare i monaci del Cairo che nelle epidemie del secolo passato davano la comunione prendendo la particola con le pinze, per evitare il contatto delle bocche umide e calde in cui poteva dormire l’infezione. Gli appestati persiani e i monaci peccavano egualmente. Per i primi, infatti, la sofferenza d’un bambino non contava, e per i secondi, invece, la paura ben umana del dolore aveva tutto travolto – (p. 175).

RIMOZIONE

Alla fine di ogni cosa ci si accorge che nessuno è realmente capace di pensare a un altro, foss’anche nella peggiore delle sventure. Infatti, pensare realmente a qualcuno, è pensarci minuto per minuto, senza essere distratto da nulla, né dalle faccende domestiche, né dal volo d’una mosca, né dalla cena, né  da un prurito – (pag. 186).

AMARE LA PAURA

“Io soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia. Basti dire che io sono come tutti quanti, ma ci sono persone che non lo sanno, o si trovano bene in tale stato, e persone che lo sanno ma vorrebbero uscirne. Io, ho sempre voluto uscirne” – (discorso di Tarrou, nota mia, pag. 190).

GIORNI DI FESTA

Il Natale di quell’anno fu la festa dell’Inferno piuttosto che del Vangelo. Le botteghe vuote e prive di luce, la cioccolata finta o le scatole vuote nelle vetrine, i tram carichi di facce scure, nulla ricordava i Natali trascorsi. Nella festa in cui tutti, ricchi e poveri, una volta si riunivano, non c’era posto se non per alcuni godimenti solitari e vergognosi che certi privilegiati si procuravano a peso d’oro, in fondo a un sudicio retrobottega. Le chiese erano piene di lamenti piuttosto che d’atti di grazia. Nella città tetra e gelata alcuni ragazzi correvano, ancora ignari di quanto li minacciava. Ma nessuno osava annunciargli il Dio d’una volta, carico d’offerte, vecchio come il dolore umano, ma nuovo come la giovane speranza. Non c’era posto nel cuore di tutti che per una vecchissima e tristissima speranza, la stessa che impedisce agli uomini di lasciarsi andare alla morte e che non è se non una semplice ostinazione a vivere – (pp. 200-201).

TEMPO PERDUTO

Gli innamorati, infatti, erano in preda alla loro idea fissa. Per loro una sola cosa era mutata; il tempo, che durante i mesi dell’esilio avrebbero voluto spingere per affrettarlo, che ancora si accanivano a precipitare, quando ormai si trovavano in vista della nostra città, si augurarono invece di rallentarlo, di tenerlo sospeso, non appena il treso cominciò a franare per fermarsi. Il senso, vago e insieme acuto in loro, di tanti mesi perduti per l’amore, gli faceva confusamente esigere una sorta di ricompensa, sì che il tempo della gioia avrebbe dovuto trascorrere due volte meno in fretta del tempo dell’attesa – (p. 224).

PATRIA NOSTRA E’ LA LIBERTA’

Per tutti loro la vera patria si trovava oltre i muri della città soffocata; era nei cespugli odorosi sulle colline, nel mare, nei paesi liberi e nelle catene dell’amore; e verso di lei, verso la felicità essi volevano tornare, distogliendosi con disgusto dal rimanente – (p. 228).

NOTE

[1] https://www.cronacheletterarie.com/2019/05/07/la-scomparsa-di-camus/

[2] http://www.unacitta.it/it/intervista/2729-sei-triste-papa-sono-solo

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Peste, https://www.epicentro.iss.it/peste/

[4] https://www.eurosport.it/calcio/serie-a/2020-2021/coronavirus-serie-a-elenco-giocatori-positivi-al-covid_sto7939250/story.shtml

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

 

 

 

 

Gianluca Ricciato

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