La più bella scena di John Ford

di Fabio Troncarelli

La più bella scena di John Ford1

Il primo febbraio 1894 a Cape Elizabeth, poco lontano da Portland (Maine), nacque John Martin Feeney, che diverrà celebre col nome di John Ford. Nulla può ricordare meglio la sua figura del racconto della sua più bella scena.

La più bella scena di John Ford non è stata mai girata. Ma è stata recitata lo stesso. Con enorme successo. Era il 1950, negli Stati Uniti infuriava la caccia alle streghe. La House Committee on Un-American Activities, fiancheggiata dall’F.B.I., si accaniva contro chiunque professasse idee politiche progressiste, bollate come «antiamericane» o «comuniste». Molte vittime dell’offensiva antidemocratica furono registi, attori, sceneggiatori di Hollywood, come Dalton Trumbo, Dashiell Hammett, Joseph Losey, Edward Dmytryk e perfino un personaggio illustre come Charles Chaplin. Vi furono delazioni, critiche violente, licenziamenti, arresti, ricatti che travolsero il mondo dello spettacolo.

Una delle pagine penose di questi anni fu il tentativo di rovinare la carriera e l’esistenza di un regista scomodo e anriconformista, Joseph L. Mankiewicz, che aveva rivolto un atto d’accusa contro lo spirito del paleocapitalismo nello splendido House of strangers (Amaro destino) del 1949 e contro gli aspetti più odiosi e sinistri della società dello spettacolo nel celebre Eva contro Eva (All about Eve) del 1950. Il linciaggio di Mankiewicz era un ammonimento per tutti. Nel clima avvelenato di quegli anni schierarsi per l’accusato significava esporsi a una denuncia di complicità. Nel migliore dei casi, come avvenne agli intellettuali che difesero invano i cosiddetti «Dieci di Hollywood» (che si rifiutavano di rispondere alle accuse invocando la Costituzione), si correva il rischio di vincere una battaglia di principio e perdere clamorosamente la battaglia giuridica (i «Dieci» finirono in prigione).

Joseph Mankiewicz

Fu in quest’occasione che Ford realizzò il suo capolavoro interpretando meravigliosamente la parte di se stesso. Per rievocare la vicenda nulla è più opportuno della testimonianza diretta di Mankiewicz: «Ero presidente dell’Associazione dei Registi negli anni ’50, durante l’epoca di McCarthy, e una parte dell’Associazione guidata da De Mille voleva rendere obbligatorio, per ogni membro, un giuramento di fedeltà. Io ero in Europa quando la cosa cominciò ma, non appena mi comunicarono cosa stava succedendo, avvertii che, come presidente, ero del tutto contrario a un’iniziativa del genere. Beh, quasi subito cominciarono ad apparire dei brevi accenni a me nelle rubriche delle cronache mondane: “Non è un peccato per Joe Mankiewicz? Non sapevamo che fosse un rosso”. In quei giorni un’insinuazione del genere equivaleva in pratica a un fatto reale e provato. Beh, la faccenda si fece seria: cominciai a rendermi conto che la mia carriera era davvero in pericolo. Infine fu indetta una riunione dell’intera Associazione e io tornai in volo per prendervi parte. Tutti i membri vi parteciparono. Fu tremendo. Il gruppo di De Mille fece diversi interventi. Andarono avanti per quattro ore. E durante questo tempo io mi chiedevo, e sapevo che anche altri se lo stavano chiedendo, cosa ne pensasse John Ford. Lui era un po’ il “Grande Vecchio” dell’Associazione e la gente poteva essere influenzata dalle sue parole. Ma lui sedette lì, vicino al corridoio; portava un berretto da baseball e delle scarpe da ginnastica e non disse nulla. Poi, dopo che De Mille ebbe tenuto il suo roboante discorso, ci fu un attimo di silenzio e Ford alzò la mano. C’era uno stenografo là che trascriveva tutto e ognuno doveva identificarsi, per il verbale. Allora Ford si alzò in piedi: “Mi chiamo John Ford” disse, “Faccio western”. Elogiò i film di De Mille e De Mille come regista. “Penso che non ci sia nessuno in questa stanza” disse “che sappia meglio di Cecil B. De Mille ciò che il pubblico americano vuole, e certamente lui sa come darglielo”. Poi fissò de Mille che era all’altro capo della sala, proprio di fronte a lui. “Ma tu non mi piaci, Cecil De Mille” disse. “E non mi piace quello che hai detto qui questa sera. Adesso suggerisco di dare a Joe un voto di fiducia e poi ce ne andiamo tutti a casa a dormire”. E questo è ciò che fecero»1.

La testimonianza di Mankiewicz concorda quasi del tutto con quella di altri personaggi che parteciparono alla riunione e col verbale dello stenografo. Vale la pena, comunque, sottolineare qualche dettaglio in più che possiamo conoscere da altre fonti. Alla riunione, che si tenne il 22 ottobre 1950 nel Beverly Hills Hotel di Los Angeles, erano presenti molti registi famosi che non erano certo d’accordo con De Mille, ma che non riuscirono a contrastarlo, come Fritz Lang, Billy Wilder, Lewis Milestone, Frank Capra, Elia Kazan e George Stevens. Quest’ultimo attaccò frontalmente De Mille, ma fu messo a tacere dallo stesso De Mille, anche se il suo intervento venne applaudito da molti.

Cecil B. De Mille

Ford non si limitò solo a dire quello che Mankiewicz ricorda: aggiunse anche che Mankiewicz era stato offeso, che De Mille e i suoi amici dovevano dimettersi. E che bisognava andare a letto presto perché il giorno dopo ognuno doveva fare dei film. Inoltre, come si poteva immaginare, l’intervento fordiano fu una prova di consumata recitazione: Ford si alzò e si piantò davanti allo stenografo, faccia a faccia. Fece una lunga pausa dopo aver pronunciato la battuta provocatoria «Faccio western». Fece un’altra pausa dopo aver elogiato De Mille squadrandolo da capo a piedi come un verme. E fece altre pause, studiate ed efficaci, che sottolineavano i punti salienti del suo discorso. Poi si sedette e si accese la pipa2.

John Ford

Se il regista avesse potuto filmare la scena, avrebbe senza dubbio fatto coincidere ogni pausa con uno «stacco» ed un cambiamento di inquadratura. All’inizio c’è l’immagine di Ford che alza la mano. Poi c’è il faccia a faccia con l’attonito stenografo. Il primo piano sulla battuta «Mi chiamo John Ford. Faccio western». Il controcampo sulla faccia sempre più sbigottita dello stenografo. Il primo piano di Ford che elogia De Mille. Lo stacco e il primo piano della faccia compiaciuta e tronfia del regista che non ha ancora capito il veleno dell’argomento. Un’altra immagine di Ford in piedi, nel silenzio assoluto, che fissa il suo nemico e gli dice brutalmente, col tono di John Wayne davanti al cattivo di turno: «Tu non mi piaci». La faccia di De Mille che incomincia a capire e a sudare. L’immagine dell’assemblea che freme. La fine del discorso e il primo piano della boccata piena di soddisfazione di chi non si preoccupa che della propria pipa.

Sottolineare la dimensione «teatrale» dell’intervento di Ford e le sue implicite potenzialità cinematografiche non vuol dire, com’è ovvio, che si è trattato solo di una recita per strappare l’applauso. La posta in gioco era alta ed il rischio notevole. Nonostante la stima e il rispetto che godeva, Ford avrebbe potuto egualmente essere attaccato e accusato di sovversione. Questo regista che agli occhi di molti intellettuali europei passa per militarista e conservatore aveva l’anima di un ribelle e un anarchico: aveva aiutato i Repubblicani nella guerra di Spagna e appoggiato le lotte sindacali anticapitaliste contro lo strapotere delle produzioni negli anni Trenta. Negli stessi anni in cui difese Mankiewicz si schierò pubblicamente contro il maccartismo e prese le difese anche di Frank Capra, sospettato di comunismo. Ce n’era abbastanza per suscitare ostilità nei suoi confronti, anche se nessuno poteva dimenticare che il regista era stato un coraggioso combattente nella seconda Guerra Mondiale, decorato per il valore dimostrato3. Ford fu senza dubbio onesto e coraggioso opponendosi a De Mille. Ma il coraggio da solo non sarebbe bastato, come non bastò a George Stevens nella riunione al Beverly Hills Hotel. È invece proprio la capacità «teatrale» di parlare nel modo giusto, al momento giusto, sfruttando i varchi offerti dall’avversario (a cominciare dalla stanchezza dopo ore di «roboanti discorsi») che assicurò a Ford il successo. Vale la pena dunque soffermarsi sull’abilità del regista di stare in scena e mettere in scena sentimenti ed idee. Questo lato del carattere di Ford ha colpito alcuni dei suoi interlocutori più attenti, ma è stato invece spesso dimenticato o trascurato dalla grande maggio­ranza dei suoi critici ed estimatori. Come ha detto Orson Welles, egli era «un commediante». Questa definizione è stata ripresa da Peter Bogdanovich, che ha scritto: «Tutti i grandi registi sono prima di tutto grandi attori. E nessuno lo fu più di John Ford»4.

È vero. Ford è stato un grande commediante. Da giovane aveva recitato a teatro e, come si è già detto, aveva subito l’influsso del fratello Francis, attore di teatro prima che di cinema. Molte delle opere di Ford sono tratte da testi teatrali come Viaggio senza fine da Eugene O’Neill; Maria di Scozia (Mary of Scotland, 1936) o Uomini alla ventura (What price glory, 1952) da opere di Maxwell Anderson; L’aratro e le stelle (The plough and the stars, 1936) da Sean O’Casey; Mr. Roberts (id., 1955) dall’omonima commedia di Joshua Logan e Thomas Heggen. Nonostante ciò la dimensione teatrale di Ford viene spesso sottovalutata. Lindsay Anderson, sostiene ad esempio che «non aveva avuto nessun rapporto col teatro»5. Gli fa eco Henry Fonda che lo definisce «un uomo senza background teatrale»6. Se si trascura il Ford commediante si finisce col trascurare la grande Commedia Umana dei suoi film. E non si comprende più il significato profondo di molte delle sue invenzioni. A cominciare dalla magnifica rappresentazione allestita al Beverly Hills Hotel, a beneficio di un gruppo di uomini di spettacolo, ma idealmente rivolta a tutti gli uomini, al grande pubblico del Theatrum mundi dove ognuno recita bene o male la parte che gli è stata assegnata.

Da dove nasce il gusto per la scena, il senso del dramma, l’ispirazione di Ford? Io credo che la grande scena madre recitata a Los Angeles possa costituire il punto di partenza per un’indagine su molte altre scene madri delle opere fordiane: esse hanno dei modelli, degli archetipi che sorreggono l’istintivo istrionismo dell’autore indirizzandolo nel migliore dei modi. Il discorso di Ford contro De Mille ha infatti un illustre precedente: l’orazione di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare, un testo che lo stesso Mankiewicz portarà sullo schermo nel 1953. Come ricorderà chi conosce il famoso dramma, Antonio si trova in una posizione molto difficile: l’assassinio di Cesare viene presentato al popolo come una dolorosa necessità compiuta da rispettabili cittadini in nome della giustizia e nessuno ha il coraggio di protestare. Antonio gode di un prestigio minore di quello di Bruto e Cassio, per le sue origini plebee e per il suo carattere intemperante. Inoltre, può tenere la sua orazione funebre solo grazie al permesso degli assassini di Cesare, che gli proibiscono di parlare liberamente e criticare il delitto commesso. Antonio deve stringere le mani degli assassini, se vuole sopravvivere e questo gesto è per lui una fonte di grave conflitto. In simili condizioni egli pronuncia il suo discorso.

Messo con le spalle al muro, egli trasforma, con un colpo di genio, la sua debolezza in forza. Non attacca frontalmente i suoi nemici. Fa esattamente quello che gli chiedono. Si piega come una canna. Ma come una canna che si piega e non si spezza scatta all’improvviso in avanti sfruttando l’effetto della tensione. Infatti Antonio elogia di continuo i suoi avversari: ripete ossessivamen­te «Bruto è un uomo d’onore…». Ma accompagna queste parole con continue insinuazioni che, a poco a poco, vanificano l’elogio. Chi ascolta, comincia a mettere un punto interrogativo, inconsapevolmente, dopo la parola «onore», come se Antonio dicesse: «Bruto è un uomo d’onore?». Antonio ripete anche di non essere all’altezza dei suoi nemici: di essere un uomo alla buona, che non sa parlare bene come loro e non è neppure un modello di virtù come loro. Così facendo, sminuendosi, ottiene l’effetto di suscitare un’inconsapevole simpatia e una simmetrica antipatia per i «virtuosi» assassini che si fanno gloria del loro delitto in nome della loro fama di cittadini integerrimi. E tutti cominciano a chiedersi: «Ma saranno davvero così integerrimi degli assassini? Era necessario un simile delitto? Era proprio così cattivo Cesare?». L’astuto Antonio soffia sul fuoco: ricorda nobili azioni di Cesare che tutti ricordano e ogni volta i cittadini sentono più forte la fitta del rimorso. Poi, da ultimo, fa balenare davanti agli occhi della plebe il miraggio del testamento di Cesare. Tutti sono eccitati. Ma Antonio non soddisfa immediatamente la loro curiosità. Dice che non deve leggere il testamento, fedele al patto coi congiurati che prevede una lode moderata del tiranno ucciso. La folla impazzisce. E a questo punto, prima di comunicare ai romani che Cesare li ha beneficiati con il suo denaro, prima di dire quello che tutti si aspettano, Antonio sferra il suo colpo mortale ai congiurati: mostra il mantello insanguinato di Cesare e con una metonimia visiva fa balzare sulla scena attraverso il mantello trafitto il corpo trafitto di Cesare. E solo dopo questo grande effetto scenico, quando gli animi sono ormai infiammati, che viene letto il testamento: così, con perfetta scelta di tempo, si fondono insieme il piacere di avere un benefi­cio e il rimpianto per chi lo ha concesso. Ritardando fino all’ultimo la lettura, Antonio ha scatenato aspettative, desideri, sogni, immaginazione. Ha potenziato al massimo la soddisfazione egoistica per il dono ricevuto, che diventa molto più del denaro: il dono si carica del valore simbolico di un atto d’amore. Il risultato è che nessuno più crede a Bruto e Cassio e con un grido tutti si scagliano contro di loro, contro quelli che ormai sono solo gli assassini del grande Cesare.

Marlon Brando nei panni di Antonio nel “Giulio Cesare” di Mankiewicz.

Se si analizza con attenzione il discorso di Ford in difesa di Mankiewicz non si può fare a meno di notare che è costruito con la stessa struttura psicologica e retorica di quello di Shakespeare. Ford, che è nella condizione psicologica di Antonio, inizia presentandosi senza mezzi termini come un «plebeo». Affermando di essere un regista di western, egli si presenta implicitamente come un modesto artigiano di opere commerciali. Come ha scritto a questo riguardo il regista Douglas Sirk: «Fino a quel momento nessuno si era occupato di stabilire quale posto avesse il western nel cinema americano… L’osservazione di Ford provocò accese discussioni. Ci si stupiva del fatto che il grande John Ford si fosse autodefinito in quei termini… Semmai ci si sarebbe aspettato che si presentasse come l’autore di un film impegnato politicamente e anticapitalista come Furore…»7 . Se Ford si fosse presentato come l’autore del grande film tratto dal romanzo di Steinbeck, tutti avrebbero sbuffato e pensato: «Ecco il solito regista di sinistra che ci fa la predica…». Invece Ford fa il finto tonto, come Marc’Antonio: vestito con la «tuta di lavoro», il berretto da baseball e le scarpe da ginnastica che portava sempre durante la lavorazione dei film come si vede in tante foto, Ford dichiara umilmente di essere un regista «alla buona», un uomo del popolo. E quest’uomo del popolo non può competere con chi è «uomo d’onore»: con un regista come De Mille. Come Antonio che elogia Bruto, Ford elogia De Mille per denigrarlo. Facciamo attenzio­ne alle parole: «Io credo che nessuno come De Mille conosca ciò che il pubblico americano vuole. E da questo punto di vista l’ammiro…». De Mille suscita l’ammirazione. Come un fenomeno da baraccone. Non il rispetto. Sa solo ciò che il pubblico vuole. E obbedisce ossequiente al volere del pubblico. In sostanza è un guitto. Ma riceve lodi ed onori, come sempre accade ai demagoghi e agli istrioni. Come dire: «Se vi piace tanto la retorica roboante dei film come Via col vento state pure a sentire questo trombone! Ma se avete capito il valore di film come Ombre rosse (girato nello stesso anno di Via col vento), allora state a sentire me!». Indirettamente, Ford dice quello che dice Antonio: «Non sono un oratore come Bruto; bensì… un uomo semplice e franco… Ma se io fossi Bruto e Bruto Antonio, allora vi sarebbe un Antonio che sommoverebbe gli animi vostri e porrebbe una lingua in ogni ferita di Cesare…» (atto III, sc. 2, vv. 221-222, 229-230).

A questo punto Ford può sferrare il suo attacco:«Tu non mi piaci, Cecil B. De Mille. E non mi piace quello che ho sentito stasera…». Il discorso è ormai al suo vertice e potrebbe concludersi con una nobile frase ad effetto. Ma c’è ancora «il testamento di Cesare» da leggere che garantisce un beneficio a tutti i presenti. E Ford si riserva questa «lettura» alla fine. Dice infatti concludendo: «Andiamocene tutti a casa a dormire. Domani dobbiamo girare dei film». Come dire: «Il diritto alla libertà non è solo una questione di principio: è anche la base del nostro lavoro. Se rinunciamo alla libertà rinunceremo anche a lavorare e ad essere quello che siamo». In questo modo la battaglia ideale si collegava alla battaglia per la sopravvivenza. Ed era più facile avere il consenso di tutti coloro che si sentivano minacciati. Il discorso di Ford per impedire il linciaggio di Mankiewicz somiglia al discorso di Lincoln nel film dello stesso Ford Alba di gloria, per evitare il linciaggio dei fratelli Clay. E Ford, con la sua pipa e la sua sferzante ironia somiglia al giudice Priest, il protagonista di un altro suo film, Il giudice (Judge Priest, 1934), che con la sua pipa e il suo astuto buonsenso mette nel sacco un «roboante» uomo politico che vorrebbe farsi una fama facendo condannare un malcapitato.

Ford è stato sempre fedele a se stesso. Aveva imparato sui banchi di scuola l’amore per la democrazia e per la libertà attraverso l’infiammato insegnamento di un professore, che resterà sempre un modello, che si chiamava William Jack (in nome del quale si farà sempre chiamare da tutti Jack Ford e non John Ford). Ed aveva imparato l’amore per il teatro lavorando come maschera e come comparsa, di sera, dopo la scuola, al teatro di Portland, meta obbligata dei più grandi attori dell’epoca. E per questa combinazione di passione per la libertà e per la recitazione, di ardore e di esibizionismo che era divenuto un leader dei compagni al liceo. Ma lo era anche prima, al ginnasio, quando, come ricorda nella sua biografia il nipote Dan Ford, suscitava l’entusiasmo della classe recitando le più famose orazioni della letteratura, soprattutto recitando la orazione di Marco Antonio nel Giulio Cesare8.

Il testo di questo articolo riprende in gran parte il terzo capitolo del mio libro Le maschere della malinconia. John Ford tra Shakespeare e Hollywood, Bari, Dedalo, 1994.

N O T E

1 Citata in P. Bogdanovich, Il cinema Il cinema secondo John Ford, Parma 1990, pp. 28-29.

2 T. Gallagher, John Ford, the man and his films, Berkeley – Los Angeles – London 1986, pp. 340-341;L. Anderson, John Ford, Milano 1985, pp. 166-167.

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3 Gallagher, John Ford cit., pp. 340-341.

4 Bogdanovich, Il cinema cit., pp. 39-40 e 106.

5 Anderson, John Ford cit., p. 247.

6 Ibidem.

7 Citato in Ferrini, John Ford, Firenze 1975, p. 79.

8 D. Ford, The life of John Ford, Englewood Cliffs 1979,., p. 8. Ricordiamo che il discorso di Antonio viene «citato» parodisticamente ne L’uomo che uccise Liberty Valan­ce. Un politicante che si chiama significativamente Cassius (John Carradine) attacca il protagonista Stoddard (James Stewart) con un discorso retorico basato sul principio dell’«affermare negando», nel corso del quale si evocano le «mani sporche di sangue», di Stoddard.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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3 commenti

  • Andrea Ettore Bernagozzi

    Bellissima scor-data, grazie!

  • Piacevolissima lettura e bellissima analisi.

    • Bellissimo pezzo di storia del cinema. Ho appena visto al cinema lo straordinario ultimo di S.Spilberg, e il finale mostra un incredibile incontro con un residuo del grande John Ford. Non credevo fosse Lui!
      Cosi’ ho indagato. Avrei voluto di piu’. Ma gia’ cosi’ e’ intrigante…e credibile.
      A.C.

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