La riconquista dell’America latina
Nell’ultimo “mininotiziario” di ALDO ZANCHETTA (“America latina dal basso”) un’analisi delle elezioni presidenziali brasiliane – il 7 ottobre- e di quelle più o meno recenti tenutesi in Colombia, Cile e Messico, con riferimenti alla gravissima crisi finanziaria argentina… e molto altro.
“Oggi l’America latina è nostra come non è mai avvenuto da decadi: questo malgrado si sia perduto il Messico”. Questa la frase che il politologo statunitense Mark Weisbrot -da sempre critico della politica estere del suo paese e in particolare di quella praticata in America Latina- immagina scritta da Thomas Shannon in una lettera fiction di questi all’attuale segretario di Stato Mike Pompeo.
Thomas Shannondurante il governo di Bush jr ricoprì l’incarico di sottosegretario aggiunto per gli Affari dell’Emisfero Occidentale, ovvero fu il funzionario di più alto grado del Dipartimento di stato per l’America latina e il Caribe. Nominato ambasciatore in Brasile da Barack Obama, nel 2016 venne nominato sottosegretario di Stato per gli Affari Politici, occupando il n.3 della scala gerarchica in politica estera del suo paese. Dopo 35 anni di carriera durante i quali si è dimostrato abile e efficace negoziatore, nel giugno scorso Shannon ha presentato le sue dimissioni per contrasti con la politica estera dell’amministrazione Trump. Mark Weibrot, economista di formazione, è condirettore del Center for Economic and Policy Research in Washington DC e presidente di Just Foreign Policy. La lettera fiction alla quale ci riferiamo, pubblicata su The Real News Network, è titolata come un “ripasso” della politica estera statunitense in America Latina nell’ultima decade (in realtà nelle ultime), di cui Shannon è stato autore preminente. (Repaso a las políticas de EE.UU. en latinoamérica durante la última década. Anotaciones sobre “nuestro patio trasero” http://ctxt.es/es/20180905/Politica/21481/politica-EE-UU-Latinoamerica-Thomas-Shannon-Honduras-Venezuela-Argentina.htm).
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La lettera in questione, sebbene immaginaria, illustra con realismo fatti e avvenimenti della politica latinoamericana dei due predecessori di Trump e termina facendo notare la differenza con quella meno raffinata e spesso improvvisata di quest’ultimo. La sua lettura è un interessante “ripasso” da molti punti di vista, ricordando anche aspetti comunemente meno noti, quelli diplomatici, che hanno caratterizzato la politica di Washington in A.L. nelle ultime decadi. Essa ci serve da spunto per queste note sull’attuale situazione latinoamericana all’antivigilia delle elezioni in Brasile, paese riportato “all’ordine” forse ancor più di quanto lo fu durante la dittatura militare (1964-1984) e dove la vigilia elettorale è caotica.
Iniziamo pertanto con una nota specifica su questo paese dove si voterà il 7 ottobre.
Il capitano in pensione Jair Bolsonaro, quotato candidato ultraconservatore alla presidenza, il 6 settembre scorso, è stato accoltellato da uno squilibrato e versa tuttora in condizioni critiche. La sua campagna elettorale è pertanto passata nelle mani del suo vice, il generale in pensione Hamilton Mourau. Il candidato più quotato, l’ex-presidente Lula (2003/2006 e 2007/2011) è in carcere dal 7 aprile scorso per presunto reato di corruzione, dopo un processo farsa col quale appunto si è voluto eliminare il rischio di un suo ritorno alla Presidenza. Dopo innumerevoli tentativi frustrati di poter essere rimesso in corsa pur essendo carcerato, l’11 settembre finalmente Lula, dopo la decisiva sentenza negativa del Supremo Tribunale Elettorale, ha rinunciato alla candidatura dando il via libera alla candidatura di colui che aveva scelto come suo vice, Fernando Haddad, già sindaco assai contestato della città di san Paolo. Fra i molti candidati in corsa per la presidenza citiamo Ciro Gomes, uomo di centro-sinistra e Gerardo Alckmin, uomo leader del partito conservatore PSDB. Non entriamo volutamente nell’analisi dei candidati né della situazione del paese perché, come detto, vogliamo fare una panoramica regionale complessiva e non soffermarci su un singolo paese[1].
Torniamo alla panoramica.
Dopo la decade “progressista” che ha visto molti dei paesi governati da coalizioni di “centro-sinistra” o addirittura qualificati “progressisti” (Venezuela, Ecuador, Bolivia), i due principali che la hanno caratterizzata, ovvero Brasile e Argentina, sono finiti in mano a discutibili e opachi presidenti di destra, Temer e Macrí, precipitando entrambi in una crisi economica preoccupante per il Brasile e profondissima per l’Argentina. In Brasile il reais che durante la presidenza Roussef veniva scambiato ufficialmente a poco meno di 2 contro 1 %, oggi viene scambiato a 4 per 1 $ mentre il peso argentino, che alla fine della presidenza di Cristina Fernandez de Kirchner veniva scambiato a 9,6 pesos per 1 $, al momento in cui scriviamo è cambiato a 40 per 1 $!
Dei paesi guida dell’epoca progressista restano ancora con governi di sinistra Venezuela e Bolivia e volendo l’Ecuador (con riserva). Il Venezuela in situazione di gravi difficoltà economiche e finanziarie e una guida politica ben diversa da quella di Hugo Chávez, il quale era dotato di un eccezionale carisma e di una suggestiva visione “bolivariana” che Maduro non possiede; la Bolivia di Evo Morales, anche lui non nel momento più luminoso della sua stella. Come noto Morales perse lo scorso anno il referendum popolare che avrebbe dovuto consentirgli di presentarsi candidato per la terza volta, emendando così la Costituzione, ed è stato riammesso a competere nel 2019 da un decreto della Suprema Corte. In situazione ambigua l’Ecuador dove Correa avrebbe pure lui voluto presentarsi una terza volta grazie emendando la Costituzione con un referendum popolare cui invece dovette rinunciare data la forte opposizione popolare. Qui il suo vice, Lenin Moreno, la cui vittoria venne auspicata come la Stalingrado elettorale delle sinistre latinoamericane contro la salente marea di destra (Atilio Boron dixit), dopo essere stato eletto di misura sembra star girando verso destra attuando politiche per molti versi di stampo neoliberista.
A questo punto ci sembra opportuna un’osservazione sulla povertà di figure significative di ricambio in tutti questi paesi “progressisti”, dall’Argentina al Venezuela, dal Brasile all’Ecuador e alla Bolivia. Povertà che non può essere casuale e che forse ha avuto origine in politiche “cesariste” dei leader al potere (vedi ad es. M.Modonesi, Caudillismos y cesarismos en la coyuntura latinoamericana y mexicana, https://massimomodonesi.net/…/caudillismos-y-cesarismos-en-la… ). Così nel caso del Brasile dove, secondo alcuni suoi critici, la politica di Lula è stata chiaramente quella di non favorire l’ascesa di possibili figure alternative all’interno del suo partito. La Roussef, eletta per il peso elettorale di Lula, era figura sbiadita che teneva il posto caldo per un ritorno di Lula alla Presidenza. E nella critica situazione della sua destituzione non ha certo brillato.
Oggi lo schieramento latinoamericano dei paesi rientrati nel cosiddetto patio trasero statunitense è rappresentato dal cosiddetto “gruppo di Lima” dal nome della capitale peruviana in cui questi si riunirono per la prima volta nell’agosto 2017 per dare corpo a un’opposizione accanita al Venezuela, accusato di non rispettare la carta dei principi dell’Organizzazione degli Stati Americani. Essi sono: Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemalasi sono aggiunti Guyana e Santa Lucía e, come osservatori, Barbados, Grenada e Giamaica. Questo schieramento, osservante delle direttive statunitensi, avalla di fatto l’affermazione di Shennon (Weisbrot) riportata nel titolo: Oggi l’America latina è nostra come non è mai avvenuto da decadi. Da registrare però che il 16 settembre, cioè avant’ieri, in una riunione del gruppo tenutasi a Brasilia, ben 11 paesi su 14 hanno respinto la minaccia espressa in un tweet del coordinatore dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro, uruguayano, di una operazione militare contro il Venezuela, adombrata pochi giorni prima dallo stesso Financial Times. Ma difficilmente il cambiamento di posizione è avvenuto senza consenso USA, forse per una manovra tattica. Questo intervento contraddirebbe la politica degli ultimi anni tessuta da Shannon con risultati positivi, quella che Weisbrot nel concludere la lettera fiction ricorda aver prodotto i risultati desiderati, di cui il supposto scrivente Shannon rivendica il merito: <<La pazienza diplomatica, l’esercizio più soffice del potere e la coltivazione delle alleanze sono state le nostre armi più poderose per ridurre la “marea rosa” che si era estesa a buona parte dell’America latina nel corso della prima decade del secolo XXI>> e chiude lanciando una frecciatina alle più truculente politiche trumpiane che hanno infatti minacciato questo intervento militare con risultati controproducenti: <<Sinceramente spero che possano essere mantenute e ( si continui a) costruire sopra i nostri successi>>.
Nel corpo centrale della lettera viene sottolineata questa forma dell’esercizio del potere più ‘soffice’ rispetto alle più violente politiche dei golpe militari in auge nel XX° secolo. Essa si è articolata in vari modi: i golpes parlamentari (contro Zelaya in Honduras, Lugo in Paraguay, Dilma Roussef in Brasile) e quelli giudiziari, applicati in particolare come prevenzione a eventuali ritorni al potere di personaggi che potrebbero godere di nuovo successo, specie dopo i flop in corso delle destre nel loro attuale esercizio di governo, ovvero Lula in Brasile, Correa in Ecuador (ora in Belgio, e accusato nel suo paese di essere corresponsabile dell’assassinio di un deputato), Cristina Fernandez in Argentina, le cui due residenze sono state recentemente fatte perquisire dalla magistratura alla ricerca di documenti di eventuali pratiche corruttive. Perquisizione cui non è stato concesso di presenziare né a Cristina né al suo avvocato ma a cui sembrano essere stati presenti funzionari della CIA e del Mossad (sic!). Situazione ideale per depositare nelle due abitazioni false documentazioni su cui imbastire un processo anche contro di lei! Avevamo appena scritto questa illazione che un noto giudice conservatore argentino ha richiesto l’arresto preventivo di Cristina con l’accusa di corruzione.
Come si vede, oggi la guerra contro i rappresentanti di forze di sinistra si avvale di strumenti più sofisticati pur non dimenticandosi di rafforzare il lato militare con il potenziamento basi statunitensi in Colombia (ben 5 già esistenti) e in altri paesi o l’istituzione di nuove come in Argentina, nelle vicinanze della “triplice frontiera” (Argentina, Brasile, Paraguay) nelle vicinanze del vastissimo ”acuifero Guaraní”. Della presenza di militari israeliani n Argentina abbiamo già detto in un Mini precedente. Piccolo Israele, eh?, ma ficcanaso!!
Naturalmente Weisbrot fa ricordare a Shannon un altro strumento efficace ampiamente usato: i finanziamenti pro-democrazia o a fini umanitari: <<Siamo anche ricorsi al nostro potere finanziario. E abbiamo speso decine di milioni di dollari annualmente attraverso il nostro Dipartimento di Stato e la Fondazione Nazionale per la Democrazia per appoggiare organizzazioni politiche favorevoli agli Stati uniti (Potrei spiegarle altre cose che abbiamo fatto in un documento confidenziale). Tuttavia questi non possono essere i nostri principali meccanismi di influenza sugli aspetti politici della regione. La diplomazia, includendo la diplomazia pubblica, deve essere sempre la risorsa principale>>.
Un’opinione corrente nella sinistra è che la “fine” o il “temporaneo riposizionamento” del ciclo progressista -a seconda delle due interpretazioni in polemica fra loro- sia dovuto essenzialmente alle aggressive politiche statunitensi, appoggiate naturalmente dalle forze conservatrici locali. L’idea che si siano potuti commettere errori non fa parte delle analisi maggioritarie. In realtà gli Stati Uniti hanno ben sfruttato limiti ed errori delle sinistre al potere. Ma questo aspetto, importante per evitare la coazione a ripetere, è tema del prossimo mininotiziario.