La riduzione del danno, per ricominciare

Un intervento nel dibattito «C’è vita a sinistra»

di Barbara Bonomi Romagnoli (*)

Altan-donne

Fine agosto. A Vienna sfilano in migliaia per dire che questa vita non è vita, se donne e uomini, bambine e bambini sono costretti dalla disperazione e dalla guerra ad affrontare esodi disumani. E pochi giorni dopo, nella remota Islanda decine di migliaia di cittadine e cittadini sono pronti ad accogliere i migranti in fuga. Sono pronti ad aprire le braccia; sarà un caso che il loro Paese è considerato addirittura un Paese femminista?
Nelle stesse ore a Roma, in Vaticano, una discreta folla di religiosi e fedeli accompagna le esequie di un prete accusato di pedofilia e 24 ore dopo il papa pensa bene di annunciare che le donne, se si pentono, saranno perdonate per aver abortito. Mossa indubbiamente vincente in vista del Giubileo, e che ancora una volta nulla dice agli uomini che magari hanno deciso quel preciso aborto o che prima mettono incinta la moglie e poi vanno a cercarsi il tanto vituperato sesso a pagamento. Ma si sa, sono le donne a essere sante o puttane, gli uomini invece hanno altro a cui pensare, massimi sistemi — più o meno — per conservare il potere di cui, anche nel piccolo mondo a sinistra, dispongono.

E ancora: le donne che muoiono sotto il sole della Puglia e quelle stuprate sotto i cieli di Ragusa, pochi euro l’ora e accordi che nessun Jobs Act ha intenzione di sradicare e per i quali nessun sindacato si prende la briga di mobilitare piazze.

E poi ancora: la sentenza di un tribunale indaga sui gusti sessuali di una ragazza ventenne stuprata da un branco di giovani maschi «perbene» e ci riporta indietro di decenni, senza che nessuna opinione pubblica venga scossa, se non sul mordi e fuggi dei social network. A scendere in piazza quasi solo le femministe, tanto si sa che queste sono «robe da femmine», che in fondo in fondo se la sono cercata; donne di tutte le età e provenienza sociale continuano a essere ammazzate, ma la parola femminicidio resta poco elegante, scomoda, esagerata e nessuna ministra del governo si interroga sulla necessità di un cambio di passo urgente che investa prima di tutto la politica per modificare la cultura che sta dietro la violenza maschile sulle donne, disattendendo anche accordi internazionali sottoscritti dall’Italia, come la Convenzione di Istanbul.

E cosa dire del fastidio di fronte alla pratica di un linguaggio sessuato e non sessista che nomini le cose per quello che sono? La filosofia dai greci in poi ci insegna che le cose (e i corpi in relazione) esistono se vengono nominati. Un punto fondamentale che hanno capito benissimo gli altri, tutti quelli che diffondono volantini e organizzano convegni su presunte «teorie gender» o campagne leghiste che chiedono di «denunciare il clandestino» da Orzinuovi a chissà dove. Le parole sono importanti e i nostri avversari politici sembrano conoscerne l’uso molto più di noi (noi sinistra intendo).

Se tutto questo è vita possiamo discuterne, di certo alla domanda se «c’è vita a sinistra» rispondo senza esitare: no, non c’è vita se accade tutto questo senza che ci sia un sussulto vero, un agire collettivo pronto a dire «non è questa la vita che vogliamo». Le voci «autorevoli» della sinistra, anziché ammiccare a un Papa che fa solamente il suo mestiere, potrebbero occuparsi di indagare sul vuoto — di relazioni, valori, pratiche — che stiamo lasciando dopo memorabili storie di memorabili anni Settanta.

Non c’è vita a sinistra se continuiamo a fantasticare di presunte nuove alleanze, coalizioni sociali & cartelli elettorali, movimenti sociali misti e maschilisti, dove l’unica unità è data dal tenere fuori le pratiche politiche delle donne, le elaborazioni femministe, le migliaia di donne native e migranti che in questo Paese si ostinano a modificare un mondo che non ci piace.

Donne che, volenti o nolenti, riproducono la vita che abbiamo e quella che vorremmo, anche quando scelgono — sia chiaro una volta per tutte — di non essere madri, perché sono ugualmente loro/noi ad agire le relazioni di cura che riproducono il mondo.

Che poi ci sia una vita di resistenza non c’è dubbio, a voler essere minoritari lo spazio c’è sempre, e anche non ci fosse, noi femministe abbiamo imparato a prendercelo senza chiedere il permesso.

Ma vogliamo continuare a raccontarcela fra noi o vogliamo provare a ricostruire un reale e sostanziale dialogo con il resto del mondo?

In questi decenni la sinistra ha perso terreno su tutto, su troppo. Sul piano dei diritti e su quello dei doveri, dall’incapacità di parlare fuori dai propri circuiti alla volontà di rimuovere al proprio interno il conflitto fra i sessi e anche quello intergenerazionale, se alla fine della fiera — lungi da qualunque rottamazione Renzi style — il passaggio di consegne avviene solo all’interno di una logica leaderistica e di spartizione delle poltrone e dove l’età media si perde parecchie generazioni che hanno dinanzi il futuro, tranne quando viene messo dentro un/una giovane per magnanimità. Rosangela Pesenti, neopresidente nazionale dell’associazione degli archivi Udi (il più grande patrimonio archivistico di storia politica delle donne in Italia) sostiene, a ragione, che in politica abbiamo tutte la stessa età: verissimo, e proprio per questo interroghiamoci sul perché nei luoghi non dico di decisione ma anche solo di discussione la media non scende sotto i 35/40 anni.

E se chiedete perché, in molte non possiamo non rispondere che questi dibattiti e luoghi sono profondamente noiosi e autoreferenziali. Siamo stanche, disincantate, la precarietà ci attanaglia e le modalità che vengono continuamente riproposte smorzano qualunque passione e desiderio.

La questione a questo punto credo che possa essere posta solo in termini di «riduzione del danno»: c’è spazio, desiderio e tempo per iniziare a ridurre i danni provocati dalla Sinistra dalla guerra del Kosovo in poi? C’è soprattutto la convinzione che la riduzione è possibile solo a partire da una radicale modifica delle relazioni fra sessi e generi? Se ricominciamo da qui forse la potenza della vita, nelle sue molteplici e conflittuali forme, potrà avere la meglio sul potere che annienta i nostri corpi.

(*) All’anagrafe è Barbara Romagnoli ma visto che in Italia non si riesce neppure a fare una leggina per riconoscere il diritto a conservare il cognome materno lei se l’è aggiunto da sola, senza chiedere il permesso. Barbara è spesso qui in “bottega” dove è stato segnalato anche l’ottimo «Irriverenti e libere: femminismi nel nuovo millennio» (Editori Internazionali Riuniti: 224 pagine per 16 euri), il suo ultimo libro. Questo intervento è stato pubblicato sul quotidiano «il manifesto» all’interno del dibattito «c’è vita a sinistra»: uno dei pochi scritti, secondo me, degno di rilievo dentro una cascata di interventi autoreferenziali e astratti nonché inattendibili visto che gli autori (quasi tutti maschi, neanche a dirlo) sono quei dinosauri, mai capaci di autocritica, che ora – dopo aver combinato a sinistra disastri a pioggia – vorrebbero pontificare su come uscirne ma visibilmente continuano a vivere sulla Luna; o peggio, cioè nei Palazzi del potere. LA VIGNETTA E’ STATA “RUBATA” AD ALTAN. (db)

 

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