La rivoluzione scende in strada

«La Settimana Rossa nella storia d’Italia: 1914-2014»: convegno di studi organizzato dall’Archivio storico della Fai (Federazione anarchica italiana)

Imola, sabato 27 settembre 2014: sala dell’Annunziata, via Fratelli Bandiera 17.

Ecco il programma, sotto gli abstract.

Il convegno è presieduto da Luigi Lotti (università di Firenze)

Sessione mattutina, ore 9.30-13

coordina Maurizio Antonioli

Massimo Ortalli (Archivio storico della FAI) presenta il convegno

Roberto Giulianelli (Università Politecnica delle Marche): «L’anarchismo anconitano alla prova della Settimana Rossa»

Davide Turcato (curatore dell’opera omnia di Malatesta): «Una insurrezione spontanea preparata a lungo: Malatesta e la Settimana Rossa»

Giorgio Sacchetti (università di Padova): «Antimilitarismo nell’età giolittiana. L’ anarchismo italiano dopo la Settimana Rossa»

Massimo Papini (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche): «Ancona e il mito della Settimana Rossa»

Antonio Senta (università di Trieste): «La Settimana Rossa nei grandi manuali e nella storiografia italiana».

Sessione pomeridiana, ore 14.30-18

coordina Giorgio Sacchetti

Maurizio Antonioli (università di Milano): «Il sindacalismo italiano di fronte alla Settimana Rossa»

Alessandro Luparini (Fondazione Casa di Oriani-Ravenna): «Quale repubblica? Il Pri romagnolo dal blocco rosso all’interventismo»

Gianpiero Landi (Biblioteca libertaria Armando Borghi di Castelbolognese): «Borghi, l’anarcosindacalismo a Bologna e la Settimana Rossa»

Luigi Balsamini e Federico Sora (Archivio-biblioteca Enrico Travaglini di Fano): «L’ anticlericalismo. Dai moti pro Ferrer alla Settimana Rossa»

Laura Orlandini (Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea in Ravenna e provincia): «“Per la Chiesa e per la Patria!” Come cattolici e nazionalisti affrontano i moti insurrezionali della Settimana Rossa»

Roberto Zani (Archivio storico Fai): «La figura di Augusto Masetti».

abstract Luigi Balsamini e Federico Sora

L’ANTICLERICALISMO. DAI MOTI PRO-FERRER ALLA SETTIMANA ROSSA (con approfondimento sulle vicende della provincia di Pesaro e Urbino)

L’anticlericalismo è un fenomeno complesso e multiforme che, con i suoi diversi accenti, ha svolto un ruolo significativo nel processo di laicizzazione della società italiana a cavallo tra Otto e Novecento. Diverse anime ne fanno parte a pieno titolo: gruppi egemonici della borghesia italiana nel periodo di affermazione dello Stato unitario, massoni, liberi pensatori, repubblicani, socialisti, anarchici.

In età giolittiana, con il rafforzarsi delle alleanze tra cattolici e liberali in funzione conservatrice, si accentua la critica da sinistra al clericalismo, tanto che uno dei momenti di più elevata conflittualità sociale del periodo è caratterizzato proprio dalle mobilitazioni anticlericali in sostegno del pedagogista libertario Francisco Ferrer y Guardia, condannato a morte in Spagna. A partire da quei moti di piazza del 1909, l’anticlericalismo rivoluzionario conosce le sue battaglie più intense, che culminano negli assalti alle chiese durante la Settimana Rossa del 1914.

La Romagna e le Marche centro-settentrionali, sottoposte per lungo tempo al governo pontificio, sono tra le zone d’Italia dove il risentimento verso il clero e l’indifferenza in materia religiosa erano maggiormente radicati. Qui la Settimana Rossa assume caratteri prettamente insurrezionali e a farne le spese sono spesso le chiese, bersaglio privilegiato degli attacchi dei dimostranti.

Anche in provincia di Pesaro e Urbino, la battaglia fra clericali e anticlericali era all’ordine del giorno, sui giornali e nelle piazze, con tutta una serie di piccoli e grandi episodi che finora non erano ancora stati attentamente ricostruiti dalla storiografia.

Luigi Balsamini. Bibliotecario presso l’Università di Urbino e responsabile dei servizi della Biblioteca Travaglini di Fano, si è occupato di storia dell’antifascismo e dell’anarchismo e, in tempi più recenti, di istituti culturali e di conservazione legati al movimento anarchico e libertario. Ha pubblicato diverse monografie (l’ultima: «Fragili carte: il movimento anarchico nelle biblioteche, archivi e centri di documentazione»), contributi in opere collettive, articoli su riviste quali «Storia e Futuro», «Storia e problemi contemporanei», «Culture del testo e del documento» e ha scritto la sceneggiatura per una recente graphic novel sulla Settimana Rossa.

Federico Sora. Direttore dell’Archivio-Biblioteca Enrico Travaglini di Fano. Si occupa di ricerca storica sul movimento operaio e sindacale, con particolare attenzione alla realtà provinciale e regionale. Ha collaborato al «Dizionario biografico degli anarchici italiani», al «Dizionario biografico del movimento sindacale nelle Marche», curato insieme a Luigi Balsamini la raccolta completa dei periodici e numeri unici editi dal movimento anarchico in provincia di Pesaro e Urbino dall’Internazionale al fascismo e pubblicato diversi saggi storici (gli ultimi: le biografie degli internazionalisti fanesi Pompeo Masini, Espartero Bellabarba e Nazzareno Broccoli).

abstract Roberto Giulianelli

L’ANARCHISMO ANCONITANO ALLA PROVADELLA SETTIMANA ROSSA

Nel 1913 Errico Malatesta rientra in Italia al termine del lungo esilio seguito ai moti di fine secolo e va a stabilirsi ad Ancona, così come aveva già fatto nel 1897. Nel capoluogo marchigiano sa di poter contare su un robusto nucleo di militanti, composto da suoi vecchi sodali e una densa schiera di giovani e meno giovani, approdati al movimento libertario nel Novecento. Malatesta conta inoltre sul fatto che Ancona è una città baricentrica, collocata com’è nel bel mezzo dell’Italia, dunque ottima fonte di irraggiamento – almeno in potenza – della fitta opera di propaganda in cui egli intende profondersi una volta arrivato. Ancona è anche una città marinara, con un porto da cui possono arrivare con una certa facilità uomini e mezzi, ma soprattutto dal quale – in caso di emergenza – si può speditamente fuggire. Ne consegue, forse, che quanto avviene nel 1913-1914 costituisce la pedissequa replica, al netto di qualche lucidatura di superficie, dello schema operativo adottato da Malatesta nel 1897-1898? La risposta è no, per due ragioni ovvie. La prima, di ordine generale, è che la storia – con buona pace di Vico – non si ripropone mai identica a se stessa. La seconda, più immediatamente legata ai fatti di cui si tratterà in questa sede, è che quanto era avvenuto all’indomani dei moti del pane e lungo l’intera età giolittiana aveva scompigliato le coordinate economiche, sociali e politiche dell’Italia sollecitando l’anarchismo anconitano, non meno che quello attivo in altre zone del paese, a profondi adattamenti di sostanza e di forma. Il movimento libertario al cospetto del quale Malatesta si trova nel 1913, dunque, è diverso da quello del ’98 anzitutto per la strategia adottata e il posizionamento in seno al caleidoscopio politico che Giolitti, con la sua tattica dell’appeasement sociale, aveva massimamente contribuito a modellare. Nell’ultimo frangente del XIX secolo la violenza rivoluzionaria si era espressa ad Ancona, come e più che altrove, attraverso attentati a istituzioni e a persone presi a simbolo dell’autorità (statale o ecclesiastica), frequenti agitazioni di piazza dal variabile grado di spontaneismo e una stampa spesso sotto processo a causa dei suoi toni tracimanti. Nel Novecento queste prassi lasciano il posto a mezzi inediti, ma anche alla percorrenza di vie tradizionali, ma con scarpe adattate ai nuovi tempi. Nel capoluogo marchigiano l’anarchismo impiega otto anni a sostituire “L’Agitazione”, organo ufficiale dei moti di fine secolo, con una nuova testata (“Vita operaia”); non meno sofferta è la ricomposizione di un reticolo di gruppi sufficientemente solidi da non spegnersi al primo stormir di fronda.

L’uscita dalla crisi che il movimento libertario italiano patisce all’indomani del ’98 transita, ad Ancona, non per i consueti canali della socialità anarchica, bensì attraverso la prospettiva che lo stesso Malatesta aveva contribuito ad aprire alla vigilia di quei moti: l’adesione al sindacato. Le leghe di mestiere che nella città marchigiana erano comparse sin dal 1897, anche grazie all’azione svolta dall’anarchico campano, nel dicembre 1900 fanno sistema, dando vita alla camera del lavoro provinciale. Di questo passaggio, i libertari sono non banali comparse, ma i protagonisti, tanto da esprimere i primi tre segretari del neonato organismo. Non si tratta di un caso unico nell’Italia del tempo – valga per tutti l’esempio di Carrara –, tuttavia costituisce il ponte fondamentale fra le macerie lasciate dai moti del pane e la piena resurrezione del movimento anarchico incarnata dal rientro di Malatesta in Italia. Tra alti e bassi, gli anarchici resteranno parte attiva della camera del lavoro anconitana fino al fascismo, trovando sponde talvolta ideali, talvolta solo strumentali, nei repubblicani e nei sindacalisti rivoluzionari, mentre con i socialisti – quarta componente, e non per ordine di importanza, del movimento operaio e sindacale italiano – i rapporti saranno sempre, o quasi, contraddistinti da tensioni e ostilità.

Quando Malatesta approda ad Ancona nel 1913 trova, quindi, un libertarismo locale fortemente sindacalizzato. Ciò, si badi, nonostante egli stesso, sin dal 1907, avesse preso le distanze dal sindacalismo, denunciandone le possibili derive soreliane e, più in generale, i rischi di sviamento dai genuini obiettivi anarchici. Quello che incontra nel capoluogo marchigiano, dunque, non è un movimento allineato alle sue posizioni, ma una comunità numericamente significativa, nella quale l’antica sintassi politica carbonara e agitatoria ha da tempo lasciato il posto, per lo più, a una attività scandita dagli interessi degli artigiani (molti) e degli operai (pochi) che abitano la città e la sua provincia. Tutto questo aveva comportato la rinuncia alla prospettiva rivoluzionaria? No, in linea teorica, ma – per prendere a prestito le parole usate al primo congresso della Federazione socialista anarchica marchigiana, nel febbraio 1903, da Rodolfo Felicioli, allora segretario della Camera del lavoro –, per oltre un decennio il sindacato era stato ritenuto “il mezzo più efficace per strappare, in questo periodo di evoluzione e transizione, alla borghesia quanto più possibile”. L’anarchismo anconitano alla vigilia della Settimana rossa diverge da quello di fine secolo non solo per la strategia adottata e per gli strumenti tattici impiegati. Differenze ulteriori e spesso marcate si rilevano anche inforcando gli occhiali del demografo e quelli del sociologo. Non occorre ricordare in questa sede che mai come nel caso dell’anarchismo – per la connaturata, irregolare varietà delle posizioni espresse – lo sforzo di incasellare la realtà storica in categorie politologiche si riveli improbo. Lo ha sottolineato Pier Carlo Masini mezzo secolo fa e lo ha confermato, nel 2003-2004, il più grande studio messo a punto nel nostro paese su questo tema, il Dizionario degli anarchici italiani. Nondimeno, proprio nell’Introduzione al Dizionario, i curatori hanno apprezzabilmente isolato alcune variabili ricorrenti nelle oltre duemila schede prosopografiche inserite nei due volumi che danno corpo all’opera, provando a offrire uno spaccato sociale del movimento libertario. Lo stesso sforzo può essere tentato compulsando, come ha fatto chi scrive, il Casellario politico centrale e i due fondi omologhi (“Sorvegliati politici” e “Anarchici”) custoditi presso l’Archivio di Stato di Ancona. La raccolta di centinaia di fascicoli di polizia sui libertari del capoluogo marchigiano e della sua provincia, per il periodo compreso fra gli anni Novanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, ha consentito la compilazione di un database muovendo dal quale è possibile azzardare campionature dagli esiti interessanti, per esempio, sulla collocazione professionale degli schedati, sul loro grado di istruzione, sul peso della componente femminile all’interno del movimento e – aspetto di grande rilievo per un territorio come quello marchigiano a cavallo fra XIX e XX secolo – l’incidenza sul movimento anarchico del fenomeno migratorio.

Roberto Giulianelli. Ricercatore in Storia economica presso l’Università Politecnica delle Marche. Si è a lungo occupato di storia del movimento sindacale e di anarchismo, tema, quest’ultimo, in merito al quale ha pubblicato vari saggi. Fra essi, si segnalano: «Il ritorno di Errico Malatesta in Italia e i moti di fine secolo ad Ancona (1897-1898)», in G. Sacchetti (a cura) «Nel fosco fin del secolo morente: l’anarchismo italiano nella crisi di fine secolo», Biblion, Milano 2013; «Nostra patria è il mondo intero. Pietro Gori nel movimento operaio e libertario italiano e internazionale» (a cura, con M. Antonioli e F. Bertolucci) in “Quaderni della Rivista storica dell’anarchismo”, numero 5, Bfs (Biblioteca Franco Serantini) Pisa, 2012; «Malatesta, il socialismo anarchico, L’Agitazione, i moti del pane», saggio introduttivo a E. Malatesta «Opere complete», a cura di D. Turcato, volume III: “Un lavoro lungo e paziente…”. «Il socialismo anarchico dell’Agitazione, 1897-1898», edito da Zero in condotta/La Fiaccola, Milano/Ragusa 2011; «Un eretico in paradiso. Ottorino Manni: anticlericalismo e anarchismo nella Senigallia del primo Novecento», Bfs, Pisa, 2007; Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, (a cura, con M. Antonioli), Bfs, Pisa, 2006; «Fonti sull’educazionismo libertario. Le lettere di Francisco Ferrer a Luigi Fabbri (1906-1909)» in “Spagna contemporanea”, 2006, n. 29; «L. Fabbri, Epistolario. Ai corrispondenti italiani ed esteri (1900-1935)» (a cura), Bfs, Pisa, 2005; «Luigi Fabbri. Studi e documenti sull’anarchismo fra Otto e Novecento» (a cura) in “Quaderni della Rivista storica dell’anarchismo”, n. 1, Bfs, Pisa, 2005; «Il giovane Santarelli e il socialismo anarchico in Italia», in P. Giannotti, S. Pivato (a cura), “Per Enzo Santarelli. Studi in onore”, Quaderni del Consiglio regionale delle Marche, Ancona, 2005; «Pier Carlo Masini, storico e giornalista, 1945-1957», Amici della Civica Biblioteca “A. Mai”, Bergamo, 2004; «Il giovane Fabbri, 1893-1901» in “Rivista storica dell’anarchismo”, 2003, n. 2. Ha collaborato al «Dizionario biografico degli anarchici italiani» 2 volumi, Bfs, Pisa, 2003-2004.

abstract Gianpiero Landi

BORGHI, IL SINDACALISMO ANARCHICO A BOLOGNA E LA SETTIMANA ROSSA

Nel suo libro autobiografico «Mezzo secolo di anarchia (1898-1945)», pubblicato esattamente quarant’anni dopo gli avvenimenti della Settimana Rossa, Armando Borghi, attribuisce a sé l’idea originaria del “piano” all’origine delle giornate di sciopero generale del giugno 1914, che come è noto assunsero in alcune località forti valenze insurrezionali. Quello che è certo è che Borghi – e con lui l’anarchismo e il sindacalismo anarchico bolognese dell’età giolittiana – ha avuto un ruolo di primo piano, di rilievo nazionale, nella fase di agitazione e propaganda rivoluzionaria e antimilitarista, durata alcuni anni, che ha preceduto e preparato la Settimana Rossa.

A partire dal 1908 Borghi assume l’incarico di segretario del Sindacato Provinciale Edile di Bologna, autonomo dalla Federazione nazionale e dalla Confederazione Generale del Lavoro, organismi entrambi nelle mani della corrente riformista del Partito Socialista. E’ l’inizio della fase sindacalista di Borghi, che si prolungherà poi per più di un quindicennio e si concluderà solo con il suo trasferimento negli Stati Uniti come esule antifascista. Propagandista e dirigente sindacale prima a livello locale e poi – come Segretario generale dell’Unione Sindacale Italiana dal settembre 1914 al 1921 – nazionale e internazionale, egli finirà per assumere di fatto anche il ruolo di teorico del sindacalismo anarchico italiano. Nell’ultimo lustro dell’età giolittiana, la sua attività si colloca in un contesto, quello bolognese, particolarmente ricco di fermenti rivoluzionari e libertari. In quegli anni Bologna rappresenta per l’anarchismo italiano una sorta di laboratorio teorico, oltre che un centro di sperimentazione e di irradiazione di pratiche libertarie. Esiste un gruppo anarchico specifico, di tendenza socialista e organizzatrice, alla cui formazione e attività lo stesso Borghi aveva dato negli anni precedenti, e continua a dare ora, un contributo fondamentale. Ma a Bologna sono presenti anche tutte e tre le nuove tendenze libertarie del primo Novecento: l’antimilitarismo, l’educazionismo e il sindacalismo rivoluzionario. Vi si trasferisce da Roma nel 1909 Luigi Fabbri, e con lui la redazione de “Il Pensiero”, la migliore rivista anarchica dell’età giolittiana, di elevato livello culturale. Su sollecitazione dello stesso Fabbri, verso la fine dello stesso anno arriva Maria Rygier, di recente passata all’anarchismo dal sindacalismo rivoluzionario. Domenico Zavattero dà vita alla tipografia “La Scuola Moderna” e all’omonima rivista, che si ispira all’educatore catalano Francisco Ferrer. Il 1° maggio 1910 esce a Bologna il primo numero del settimanale “L’Agitatore”, uno dei periodici anarchici più importanti del periodo a livello nazionale. Del gruppo redazionale fanno parte, in tempi diversi, Maria Rygier, Luigi Fabbri, Armando Borghi, Domenico Zavattero, Giuseppe Sartini e altri. Il giornale, oltre a sostenere le lotte operaie, conduce una accesa ed efficace campagna antimilitarista ed è in prima fila nel promuovere le agitazioni contro la guerra di Libia. Nel maggio 1912 Aldino Felicani riprende la pubblicazione del “Rompete le file!”. Frequentemente incriminato, il giornale verrà da ultimo soppresso dalle autorità verso la fine del 1913. Forte e radicata è la presenza degli anarchici nel movimento operaio locale, in grado di influenzare spesso le leghe, i sindacati provinciali e la stessa Camera del Lavoro di Mura Lame.

E’ in tale contesto che si verifica un evento clamoroso: Augusto Masetti, un muratore richiamato alle armi, lettore della stampa anarchica e antimilitarista, il 30 ottobre 1911 in una caserma di Bologna spara al colonnello Stroppa che sta arringando le truppe in partenza per la Tripolitania. Dalle sue colonne “L’Agitatore” con notevole coraggio rivendica il gesto, di conseguenza quasi tutta la redazione viene arrestata (Borghi riesce a fuggire e trascorrerà più di un anno a Parigi). Inizia una campagna pro Masetti, dichiarato pazzo per convenienza politica e rinchiuso in manicomio, a cui si affianca presto quella a favore di Antonio Moroni e contro le compagnie di disciplina. Di nuovo i libertari bolognesi sono in prima fila ed esercitano un ruolo di primo piano e di direzione, a livello nazionale e internazionale. Il Comitato nazionale pro Masetti ha sede a Bologna presso la Vecchia Camera del Lavoro di Mura Lame ed è diretto da Maria Rygier, che svolge un’attività frenetica ed efficace, in grado di allarmare seriamente le autorità. Gli anarchici bolognesi sembrano cogliere con grande lucidità e chiarezza le potenzialità offerte dal caso Masetti e dall’antimilitarismo per radicalizzare e unire su una piattaforma comune tutti i partiti e le organizzazioni popolari, dai socialisti ai repubblicani, dagli anarchici ai sindacalisti, per arrivare a uno sbocco rivoluzionario della crisi sociale e politica in cui versa il paese. In perfetta sintonia con l’opera svolta nello stesso periodo da Malatesta, tornato in Italia nell’agosto 1913, che stabilisce la sua residenza ad Ancona dove fonda e dirige il settimanale “Volontà”. Si arriva così al Comizio di Ancona del 7 giugno 1914, all’eccidio compiuto dalle forze dell’ordine e al successivo sciopero generale, nel corso del quale quelle ipotesi rivoluzionarie sono messe alla prova. Durante la Settimana Rossa Borghi svolse un’attività importante, caratterizzata da un frenetico impegno e da una forte tensione rivoluzionaria, ma va subito precisato che egli si trovò a operare in un’area – tra Bologna e Faenza – in cui ci furono scioperi di massa e significative agitazioni popolari ma che tutto sommato restò ai margini di quello che fu il reale epicentro della rivolta. La relazione tenta di ricostruire, giorno dopo giorno, tutti i suoi spostamenti e gli eventi che lo riguardano, utilizzando come fonti privilegiate il libro «Mezzo secolo d’anarchia» e i rapporti dei funzionari di polizia e dei prefetti rintracciabili nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma. Dal confronto delle fonti emergono alcune discrepanze e incongruenze, che si cerca nel limite del possibile di superare arrivando a una ricostruzione cronologica plausibile. Nuovamente di assoluto rilievo fu poi il ruolo di Borghi nella fase successiva alla conclusione delle agitazioni, sia per quanto riguarda l’attività a favore delle vittime politiche e dei ferrovieri colpiti dalla repressione sia per il contributo fornito alla interpretazione e al giudizio politico e storico su quanto era avvenuto. La parte finale della relazione si sofferma soprattutto sulla interpretazione borghiana e malatestiana della Settimana Rossa, che ha finito per imporsi come l’interpretazione anarchica “classica” dei moti del giugno 1914.

Gianpiero Landi. Insegnante di Italiano e Storia in una scuola media superiore. Si occupa da decenni di ricerca storica, in particolare sull’anarchismo e il socialismo libertario, collaborando a vari periodici. E’ stato tra i fondatori della Cooperativa che gestisce la Biblioteca Libertaria “Armando Borghi” di Castel Bolognese, di cui è attualmente il presidente. Ha curato la pubblicazione degli Atti dei convegni su «Andrea Caffi, un socialista libertario» (1996) e su «La fine del socialismo? Francesco Saverio Merlino e l’anarchia possibile» (2010). Ha fatto parte fin dalla fondazione della redazione della “Rivista Storica dell’Anarchismo” (1994-2004) e del comitato di redazione del «Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani» (2003-2004). Attualmente gestisce il Centro Studi Francesco Saverio Merlino e il suo sito web. Tra i saggi più recenti: «Armando Borghi protagonista e critico del sindacalismo anarchico» (2012).

abstract Alessandro Luparini

QUALE REPUBBLICA? IL PRI ROMAGNOLO DAL BLOCCO ROSSO ALL’INTERVENTISMO

Con gli anarchici, i repubblicani furono i veri protagonisti dei moti rivoluzionari del giugno 1914 in Romagna. In un certo senso, le vicende romagnole – e ravennati in particolare – dettero la dimostrazione sul campo della ritrovata collocazione rivoluzionaria del partito allora guidato da Oliviero Zuccarini, quale affermata al congresso nazionale di Bologna del maggio precedente. Una decisa svolta a sinistra che aveva entusiasmato lo stesso Errico Malatesta, persuadendolo che gli eredi di Mazzini potessero essere i principali e più fidati alleati del movimento anarchico nel progetto del “blocco rosso”, l’unione di tutte le forze sovversive in funzione rivoluzionaria. La comunicazione cercherà di ripercorrere questi passaggi, mettendo in evidenza le peculiarità (ma anche le titubanze e le contraddizioni) dell’azione repubblicana durante la Settimana Rossa in Romagna. Tutto sommato una parentesi, destinata a chiudersi di lì a brevissimo tempo con lo scoppio della conflagrazione europea e il riemergere delle tematiche irredentistiche che avrebbero riacceso l’anima mazziniana e garibaldina del repubblicanesimo romagnolo, seppellendo le prospettive della rivoluzione sociale sotto le suggestioni della guerra rivoluzionaria per il compimento dell’unità d’Italia e la libera Europa dei popoli. Non senza che ciò travagliasse la coscienza di molti militanti repubblicani, specie tra la base contadina del partito.

Alessandro Luparini. Responsabile delle attività culturali della Fondazione Casa di Oriani di Ravenna. Si è formato sulla storia dei movimenti e dei partiti politici italiani a cavallo fra Otto e Novecento, con particolare riguardo al movimento anarchico. È autore di diversi studi sulla Settimana Rossa, ultimo in ordine di tempo «La libertà e il sacrilegio. La Settimana rossa del giugno 1914 in provincia di Ravenna», Pozzi 2014 (con Laura Orlandini).

abstract Massimo Papini

ANCONA E IL MITO DELLA SETTIMANA ROSSA

La fama di Ancona città sovversiva nasce già nei decenni dell’Italia liberale, alimentandosi soprattutto dell’anticlericalismo, del mazzinianesimo, dell’anarchismo specie degli artigiani, dei portuali e degli operai della Raffineria. Si manifesta nei moti del 1898, ma già con la presenza di Errico Malatesta si comincia ad alimentare il mito della città sovversiva. Il cappellaccio, il fiocco nero e parole infuocate contro i potenti ne fanno un personaggio amato e temuto. I tutori dell’ordine lo fanno pedinare, ma spesso se ne perdono le tracce, con rabbia e sconcerto del questore e del prefetto. La fama di città sovversiva Ancona se la conquista definitivamente nella primavera del 1914, con il congresso nazionale socialista, con la sede nazionale del sindacato ferrovieri, con la presenza di Malatesta e di Nenni, con la diffusione di giornali di spessore, come “Lucifero” e “Volontà” e, infine, con la Settimana rossa. L’eco di tre giovani vite spezzate, due repubblicani e un anarchico, scatena, com’è noto, la rivolta in buona parte d’Italia. Eppure non è stato un vero pericolo per la nazione. Molti dei protagonisti di quei giorni, come Pietro Nenni, dopo un processo chiuso in breve tempo, diventano interventisti e partono volontari per il fronte a combattere, assieme al re e al governo, l’impero austriaco. Si dividono comunque da chi, come gli anarchici, restano ostili alla guerra. La città sovversiva sembra aver sparato fuochi d’artificio. Molto rumore per nulla? Nell’immediato è questa la sensazione, ma il rumore serve ad alimentare il mito, essenziale per mantenere vive le speranze rivoluzionarie. E il mito non si fa attendere. Cartoline che ricordano la Settimana rossa girano tra i soldati al fronte e le autorità si raccomandano di scovarle e di sequestrarle. Finita le guerra l’anniversario viene sempre ricordato con manifestazioni, finché è possibile, e poi con altre iniziative celebrative tra i fuoriusciti all’estero. Occasioni nelle quali si cementa l’identità non più solo per i repubblicani e gli anarchici, ma anche per i socialisti e i comunisti e i rivoluzionari in genere.

Nel 1920 il noto anarchico Armando Borghi allora in Russia scrive: “Ancona è città che esercita un grande fascino rivoluzionario sulle masse”. Nello stesso anno Malatesta torna ad Ancona, anche se solo per pochi giorni e riaccende grande speranze che troveranno una nuova fiammata nella Rivolta dei bersaglieri. Ma sono gli ultimi giorni del sovversivismo. Ormai il mito, paradossalmente, ma non tanto, fa gola ai fascisti, i quali, ingigantendo il pericolo dei “rossi”, possono accrescere il valore delle proprie imprese antisovversive. Così, dopo che nell’agosto del 1922 le squadre fasciste occupano militarmente Ancona, Mussolini può scrivere: “La fascistizzazione di Ancona ha del prodigioso” e concludere che la nomea di sovversiva era dovuta solo ai “professionisti del sol dell’avvenir”, per di più estranei alla città, come Nenni e Malatesta. Il sovversivismo è definitivamente morto? La città ha ora un’anima nuova, obbediente ai nuovi capi, al clero e ai potenti? “Il tempio di Maria è ora accanto all’altare della patria”, come scrive un giornale cattolico? Sembra di sì. “E’ inutile illudersi – scriveva un contadino a Mario Zingaretti, l’ultimo segretario della camera del lavoro, fuggito in clandestinità – i facchini, che erano ritenuti i più rivoluzionari di Ancona, sono stati presi dai fascisti, incolonnati in Piazza del papa ed è stata fatta ascoltare loro la messa; i facchini si sono inginocchiati; da tanto cattivi che erano, sono diventati niente”. Eppure il mito della settimana rossa non è solo pretesto per l’arroganza dei nuovi vincitori, rimane vivo a lungo. Per un secolo viene celebrato dalle forze popolari, con atteggiamenti contrastanti da parte dei comunisti che ad Ancona hanno un dirigente di primo piano, Enzo Santarelli, che è anche uno storico proprio della Settimana rossa. Critico verso gli anarchici ne recupera comunque il ruolo storico. La città coltiva a lungo il mito e all’inizio degli anni cinquanta una giunta comunale di comunisti e repubblicani, intesta una piazza a Errico Malatesta. Ciò è motivo di scandalo nell’opinione pubblica moderata, ma alla fine viene accettata unanimemente. Rimane dopo la guerra il forte contrasto tra i comunisti, ora egemoni nel movimento operaio, e i protagonisti della settimana rossa, anarchici e repubblicani, entrambi in fase declinante, e uniti solo nella contrapposizione al partito di Togliatti. E’ così facile trovare pretesti per polemiche aspre, come nel 1955, quando si scatena, proprio ad Ancona, un finimondo per una dura critica di Ottavio Pastore su “Rinascita” a un libro di Armando Borghi. Negli anni successivi il mito della città sovversiva si stempera, resta l’attaccamento alla memoria della settimana rossa. Il mito diventa in un certo modo innocuo. Ora paradossalmente (ma non tanto) l’eredità che viene raccolta da chi rimane a organizzare ciò che resta del movimento operaio. Non a caso tra i protagonisti nelle celebrazioni del novantesimo e del centenario ad Ancona vi è la Cgil, la principale accusata di aver bloccato la rivolta della Settimana rossa.

Massimo Papini. Presidente dell’istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche. Direttore della rivista “Storia e problemi contemporanei“. Autore di pubblicazioni di storia contemporanea. Fra le più recenti: «Dizionario biografico del movimento sindacale nelle Marche» (Ediesse 2006), curato con Roberto Giulianelli; «Novecento nelle Marche. Stdui sul movimento operaio e democratico» (Affinità elettive, 2008); «Alessandro Bocconi, Una vita per il socialismo» (Clueb 2012); «Ancona e il mito della Settimana rossa» (Affinità elettive 2013); «Il secolo lungo, Le Marche nell’era dei partiti politici» (Affinità elettive 2014).

abstract Giorgio Sacchetti

ANTIMILITARISMO NELL’ETA’ GIOLITTIANA L’ANARCHISMO ITALIANO DOPO LA SETTIMANA ROSSA

La Settimana Rossa, intesa come cesura storica profonda tra un “prima” e un “dopo”, ci induce a proporre un’analisi interpretativa di lungo periodo su strategie praticate e ruolo svolto dall’anarchismo nell’ambito del movimento operaio e della sinistra italiana. In tal senso si individuano due distinte questioni dirimenti e di forte impatto politico: la prima è l’antimilitarismo come fenomeno sociale e culturale che si concentra e si esplica con particolare intensità nel periodo giolittiano e, si può dire, culmina in quell’episodio insurrezionale del giugno 1914. E in questa battaglia si misurano anche nessi e rispondenze con le altre correnti antibelliciste già attive in Europa, socialiste e cristiane soprattutto, oppure con la storica e “naturale” attitudine popolare – specie contadina – alla renitenza alla leva. La seconda questione concerne il campo delle scelte operative messe in atto dagli anarchici italiani e dalle loro strutture organizzate al fine di conseguire gli obiettivi rivoluzionari, in una veduta ampia sull’arco temporale che si dipana da fine Ottocento al tardo Novecento. Ciò in funzione dei “punti di non ritorno” a nostro avviso determinatisi proprio a partire dalla sconfitta della Settimana Rossa, ossia: impasse sulle alleanze per la Rivoluzione; presa d’atto che la piazza probabilmente non costituisce più il “luogo” deputato all’insurrezione risolutiva. I movimenti contro la guerra, attivi con varie modalità in Italia nel periodo 1911-1917, traggono la loro linfa ideale dalle mobilitazioni popolari a sostegno dei disertori e contro l’istituzione militare, dalle campagne a favore dei soldati reclusi per disobbedienza. Quando – ad Amsterdam nel 1904 – si tenne il congresso di fondazione dell’Associazione Internazionale Antimilitarista, in Italia ancora non esistevano gruppi attivi impegnati su quel fronte. Dall’incontro olandese, che vede la partecipazione di delegati provenienti da tutta Europa, scaturiscono decisioni importanti come l’abbandono della tattica tolstoiana della disobbedienza passiva a favore piuttosto di quella dell’azione diretta. Da allora una forte corrente antimilitarista si sviluppa in vasti settori del movimento operaio italiano, soprattutto tra gli anarchici, ma anche tra i socialisti e nei sindacati. Diserzione oppure “guadagnare l’esercito alla causa della rivoluzione”? Il dibattito sulle possibili strategie alternative sarà aperto e vivace. L’apice dell’attivismo si raggiunge negli anni che vanno dalla guerra in Libia alla conflagrazione mondiale. Nel 1911 Augusto Masetti, giovane soldato in procinto di partire per l’Africa, spara al suo colonnello al grido di “Viva l’anarchia, abbasso la guerra!”. La campagna per la sua liberazione coinvolge l’opinione pubblica in tutta Italia. Così la questione del militarismo diventa oggetto di aspre contrapposizioni nella società e nello stesso movimento operaio. Ne sono testimoni, fra gli altri, giornali come «Rompete le file!», «Il Libertario», «L’Avvenire Anarchico», «La Pace», «L’Internazionale», «Guerra di Classe»… Il dibattito proseguirà dopo il fallimento del moto insurrezionale della Settimana Rossa e anche oltre. Nel 1914 gli interventisti bellicisti si separano dall’Unione Sindacale Italiana mentre si acuiscono ulteriormente i contrasti interni al sindacalismo rivoluzionario. Di forte impatto sarà allora la diffusione delle teorie di Gustave Hervé, ex-antimilitarista francese passato al nazionalismo, osteggiate in Italia dal socialista Ezio Bartalini oltre che da Errico Malatesta e da Armando Borghi.

Il nuovo ciclo insurrezionale e di piazza conclusosi con la Settimana Rossa aveva avuto inizio un ventennio prima. Nel corso degli eventi tumultuosi del 1894, Malatesta – come Andrea Costa quindici anni prima – avvertiva la necessità di un cambio di registro, naturalmente però la soluzione da lui prospettata andava in direzione opposta rispetto a quella del socialista imolese. Se per i costiani si tratta di superare la fase cospirativa attraverso la sperimentazione comunalista e la sociabilità popolare per intraprendere poi la via parlamentare al socialismo, per gli anarchici il progetto rivoluzionario si trasferisce dalle conventicole alla piazza. È questo il nuovo luogo topico dove i movimenti sociali dovranno misurare la loro forza. Archiviato ormai il modello pisacaniano della guerriglia per bande si apre, con gli anni Novanta, l’era delle tentate o progettate insurrezioni di popolo, un ciclo che manterrà la sua vigenza per tutto il periodo giolittiano, fino alla cocente sconfitta della Settimana Rossa. Lo sciopero come sollevazione di piazza è infatti la cifra della transizione dell’anarchismo ottocentesco verso il sindacalismo anarchico, fase di passaggio che occuperà buona parte del primo decennio del secolo nuovo e che non mancherà di connotarsi di venature soreliane. In Italia la vulgata rivoluzionaria di Arturo Labriola sarà alla base della iniziale formazione culturale di molti organizzatori libertari (da Alberto Meschi ad Attilio Sassi). Dopo la Settimana Rossa la piazza, proscenio per eccellenza dell’agire politico almeno fino agli anni Settanta del Novecento, verrà meno come luogo di quelle insurrezioni popolari a matrice risorgimentale. Il ripensamento critico da parte dei tre leader Malatesta, Nenni e Mussolini, ciascuno con modalità differenti, su quell’esperienza avrà un peso. Allo stesso modo l’insorgenza del giugno 1914 (a cui seguiranno le altre rotture traumatiche come la guerra europea e la rivoluzione russa) marca la prima crisi di prospettiva dell’ipotesi frontista rivoluzionaria. Ipotesi che, nonostante tutto, si manterrà ben viva e presente in alcuni settori dell’anarchismo emergendo con forza negli anni intorno al 1968. Contro questa impostazione, tipicamente novecentesca, rivoluzionari versus riformisti emergerà, a partire dal primo dopoguerra, il paradigma berneriano/salveminiano, sorta di linea strategica per le alleanze possibili: socialismo federalista liberale versus Comunismo dispotico.

Giorgio Sacchetti. E’ dottore di ricerca in Storia del movimento sindacale; nel 2012 ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale per professore associato di Storia contemporanea; attualmente è docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’Università di Padova per l’insegnamento di Storia delle ideologie del Novecento in Europa. Ultimi libri pubblicati: «Sovversivi e squadristi» (Aracne 2010); «Lavoro, democrazia, autogestione» (Aracne 2012); «Renicci 1943» (Aracne 2013).

abstract Antonio Senta

LA SETTIMANA ROSSA NEI GRANDI MANUALI E NELLA STORIOGRAFIA ITALIANA

Intendiamo per “grandi manuali” le Storie del Novecento italiano. Qui sicuramente, e forse inevitabilmente, la Settimana Rossa (SR) è “schiacciata” tra due avvenimenti: la fine dell’età giolittiana e lo scoppio della prima guerra mondiale. In molti casi – ma ci sono delle importanti, e recenti, eccezioni – rischia così di finire nel “dimenticatoio” della storia, priva della propria autonomia storiografica. Diverso è il discorso per quanto riguarda la storiografia specifica sulla SR, che si può fare iniziare con la prima edizione dell’opera fondamentale di Luigi Lotti, «La Settimana Rossa» (Le Monnier, Firenze, 1965) studio con cui la SR assume una propria dignità storiografica e che stabilisce alcuni canoni interpretativi fondamentali per tutta la storiografia successiva.

Da allora a oggi numerosi sono stati gli approfondimenti: alcuni sviscerano temi già individuati da Lotti, altri hanno un focus più locale e territoriale, altri ancora affrontano gli eventi da nuove visioni prospettiche. In particolare nel centenario diversi sono gli studi pubblicati; alcuni di questi sono di una certa importanza.

Ciò indice a porsi due differenti ordini di questioni a cui proverò a dare risposta. Si possono riassumere con due domande: 1. È corretto o meno considerare oggi la SR un episodio dimenticato o sottaciuto della storia d’Italia? 2. La SR è ancora oggi un terreno di disputa a fini politici?

Antonio Senta. Ricercatore presso l’Università di Trieste, è membro del comitato scientifico dell’archivio Famiglia Berneri-Chessa di Reggio Emilia e della collana editoriale OttocentoDuemila promossa dall’associazione di ricerca storica Clionet. Ha lavorato a lungo presso l’International Institut of Social History di Amsterdam al riordino e alla catalogazione di materiale archivistico concernente la storia dell’anarchismo. Su questo argomento ha pubblicato diversi saggi in riviste e volumi collettanei. È autore di «A testa alta! Ugo Fedeli e l’anarchismo internazionale 1911-1933» (Zero in condotta editore, 2012).

abstract Davide Turcato

UNA INSURREZIONE SPONTANEA PREPARATA A LUNGO: MALATESTA E LA SETTIMANA ROSSA

Il confronto fra gli eventi della Settimana Rossa e gli scritti di Malatesta evidenzia la componente cosciente e malatestiana di quegli eventi. Le idee-guida di Malatesta hanno radici nella sua svolta di idee di quindici anni prima. Balzano quindi all’occhio, da una parte, la discontinuità teorica e tattica fra i due soggiorni anconetani di Malatesta del 1897–8 e 1913–4, in contrasto con le superficiali somiglianze fra le due esperienze, e, dall’altra, la fecondità e lungimiranza di quella svolta, in contrasto con l’interpretazione dell’esilio londinese del 1900–13 come di una fase involutiva del pensiero di Malatesta. Più in generale, il profondo empirismo esibito da Malatesta costituisce un’ulteriore smentita delle intramontabili interpretazioni irrazionalistiche e millenaristiche dell’anarchismo.

Davide Turcato. Lavora come linguista computazionale, professione che ha esercitato per molti anni in Canada, prima di trasferirsi in Irlanda. Ha conseguito un dottorato in storia presso la Simon Fraser University di Vancouver ed è il curatore delle opere complete di Errico Malatesta, in corso di pubblicazione nelle edizioni italiana e inglese. In inglese ha pubblicato una monografia su Malatesta con Palgrave nel 2012 e vari articoli e capitoli di libri sulla storia e la storiografia dell’anarchismo. Nel 2014 ha curato una nuova antologia di scritti malatestiani, pubblicata da AK Press.

abstract Roberto Zani

LA FIGURA DI AUGUSTO MASETTI

Il colpo di fucile esploso da Augusto Masetti il 30 ottobre 1911 verso un ufficiale dell’Esercito costituì un salto di qualità per l’antimilitarismo contro la guerra di Libia e la campagna per la sua liberazione divenne il principale filo conduttore del movimento che sfociò nella Settimana Rossa. Masetti restò così l’uomo – simbolo del moto rivoluzionario, acclamato in occasione del 50° anniversario tenutosi ad Ancona nel 1964. Ma chi era Augusto Masetti? Un eroe, un antieroe, un uomo qualunque finito casualmente in una storia più grande di lui? Attraverso lo studio di diverse fonti – giornali, carte di polizia, cartelle cliniche, numerose testimonianze orali – verranno focalizzati alcuni aspetti del carattere e del comportamento di Masetti, come la paradossale espressione del suo fermo antimilitarismo durante tutta la sua esistenza, senza però rivendicare il clamoroso gesto compiuto nel 1911.

Roberto Zani. Nato a Imola nel 1966 e si occupa da quasi vent’anni di storia del movimento operaio e socialista libertario. Già collaboratore della commissione Archivio Storico della FAI, è socio della Biblioteca Armando Borghi di Castel Bolognese. Tra i suoi lavori, è coautore con Giorgio Sacchetti e Tomaso Marabini del libro «Attilio Sassi detto Bestione» e curatore della pubblicazione «Alla prova del ’68. L’anarchismo internazionale al congresso di Carrara». Autore di numerosi saggi su personaggi ed episodi della storia imolese, nel 2011 è intervenuto al convegno storico tenutosi a Bologna dedicato ad Augusto Masetti con una relazione intitolata “L’antimilitarismo sovversivo di Augusto Masetti”.

 

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