La rivoluzione tunisina con gli occhiali di Gramsci

di Aziz Krichen (tratto da tlaxcala)

(tradotto da Alba Canelli)

Contributo al seminario “Il ritorno di Gramsci” organizzato dalla FSJEG 

Facoltà di Giurisprudenza, Economia e Management) di Jenduba e la Fondazione Rosa Luxemburg per commemorare il 80° anniversario della scomparsa del pensatore italiano; seminario svoltosi a Tunisi il 29 marzo 2017. Ho mantenuto il tono della presentazione orale.

Ho scoperto Gramsci nel 1979 a Roma. A Parigi, dove vivevo prima, avevo letto alcuni testi tradotti del suo periodo torinese, che mi avevano lasciato insoddisfatto. Sapevo che il suo capolavoro erano i Quaderni del Carcere, ma non era stato ancora tradotto in francese. Stabilito in Italia, dopo pochi mesi di apprendimento della lingua del paese, acquistai Quaderni del carcere e iniziai a studiarli.

 

Non avevo mai incontrato niente di simile nella letteratura marxista che fino ad allora aveva strutturato la parte essenziale della mia formazione politica, né nella forma – l’opera è una successione di frammenti più o meno lunghi in diverse migliaia di pagine – né nella sostanza. Dopo i primi momenti di straniamento, sono stato letteralmente affascinato dall’ampiezza, la potenza e la novità radicale del pensiero che mi si presentava.

Una dozzina di anni prima, in Tunisia, immergendomi nella lettura de Il Capitale, avevo vissuto ugualmente un grande momento di eccitazione intellettuale. Ma le cose non erano dello stesso ordine. Con Marx, l’eccitazione era in una certa misura puramente cerebrale, astratta, disincarnata. Scoprii le sorgenti sotterranee che hanno determinato il funzionamento del sistema economico che governa il mondo. Con Gramsci, non ero più nel seminterrato, ma all’aperto. Non ero più nelle ‘infrastrutture’, ma nelle ‘sovrastrutture’. Cioè, nei settori della cultura, dell’ideologia, della politica, della guerra, delle rappresentazioni, delle emozioni, e delle passioni – là dove, giustamente, i gruppi sociali reali e gli uomini in carne ed ossa evolvono, là dove vivono, combattono, laddove appaiono e poi scompaiono, lasciando a volte il segno del loro passaggio. E come l’analisi delle sovrastrutture è sempre legata, da lui, alla poresa in conto del peso delle infrastrutture, si giungeva, tramite la sua lettura, ad un quadro più completo della realtà, dotati di un metodo più efficace per comprenderla ed agire su di essa.

Gramsci certamente non sarebbe stato Gramsci senza Marx, ma Gramsci è andato oltre. Nel mio tempio personale, l’ho messo in ogni caso molto in alto nella scala dell’intelligenza umana, come l’ho messo molto alto per il suo amore per il popolo e la sua dedizione alla rivoluzione.

Un altro fattore spiega il persistere del mio interesse per lui. Gramsci è nato nel 1891, venti anni dopo il completamento dell’unità d’Italia. Nel contesto dell’epoca, soprattutto rispetto alla Gran Bretagna e la Francia, nasce e cresce in un paese arretrato e ritardatario, che si trova alla periferia del capitalismo centrale, esistente allora. L’Italia sperimentava da tempo grandi difficoltà nel costruire il suo stato nazionale e completare la sua trasformazione democratico-borghese. La sua conversione al capitalismo appariva come un’urgenza esistenziale, non perché le condizioni di questa trasformazione erano all’interno di essa, ma perché il capitalismo si era già stabilito negli stati vicini e questa implementazione, alterando brutalmente i rapporti di forza, costituiva oramai una minaccia. Come tutti gli Stati meno evoluti, l’Italia era nella posizione obbligata di recuperare il suo ritardo, se non voleva  essere condannata alla dipendenza e alla subordinazione.

La consapevolezza del ritardo storico del suo paese e la ricerca di mezzi per recuperarlo sono al centro della riflessione teorica di Gramsci nei Quaderni del Carcere, come sono al centro della riflessione di altri pensatori e politici italiani del sua tempo (Benedetto Croce, Giovanni Gentile, o anche Vincenzo Cuoco, il loro predecessore). La famosa distinzione introdotta tra rivoluzione attiva (quella che si verifica nei paesi del capitalismo centrale) e rivoluzione passiva (quella che avviene in paesi periferici) ne è l’illustrazione diretta.

Come tunisino, magrebino, arabo, sono io stesso, come tutti voi, cittadino di un paese arretrato e dipendente. Comprendete quindi perché la lettura dei Quaderni ha potuto interessarmi tanto, a che punto è entrata in sintonia con il mio modo di pensare e quanto è stata in grado di segnarmi.

Con Gramsci, non avevo a che fare solo con un grande teorico dell’universale, ma con un pensatore la cui universalità proveniva direttamente da come assumeva la sua singolarità di membro di un paese arretrato – una singolarità che è propria, ancora oggi, della maggior parte delle donne e degli uomini che popolano il nostro pianeta.

Partendo da lì, è perfettamente legittimo cercare di studiare ciò che accade nel nostro paese da sei anni alla luce dei quadri interpretativi che ha sviluppato per il suo paese e che sono ampiamente trasferibili a tutti i nostri, ma con le dovute precauzioni di tempo e luogo.

Ho scritto un libro, La Promesse du Printemps (La Promessa della Primavera), che delinea un primo bilancio della rivoluzione tunisina e della transizione che le è succeduta, considerando quello che è stato fatto e ciò che resta a fare. Ho citato raramente Gramsci, ma posso confessare che spesso mi ha accompagnato nel mio lavoro di scrittura. (Dico questo di proposito, per incoraggiarvi a leggere o rileggere Gramsci e, secondariamente, anche per incoraggiarvi a leggere me).

Non voglio riassumere qui i suoi maggiori sviluppi, ma solo sottolineare alcuni principi fondamentali prima nel concetto di “blocco storico”. Per Gramsci, il blocco storico è costituito dall’insieme di classi e gruppi sociali (con le loro organizzazioni rappresentative: politiche, sindacali, culturali…) che si formano durante i periodi di grande mutazione, cioè durante i periodi di cambiamento rivoluzionario. Le classi e gruppi sociali in questione si costituiscono quindi in blocchi per portare a termine il cambiamento e riorganizzare l’ordine esistente in funzione dei loro interessi e delle loro aspettative [1].

Abbiamo sperimentato una trasformazione di questo tipo tra dicembre 2010 e gennaio 2011, quando il paese si è sollevato in massa contro il regime di Ben Ali. Lo sviluppo del sollevamento permette di identificare i vari componenti del blocco storico – o fronte di classi – che si è costituito progressivamente in quesll’occasione. In primo luogo inglobava la popolazione rurale dell’entroterra, poi quella dei quartieri periferici dei centri urbani (il mondo dell’informale); a questi primi due segmenti si unì poi la popolazione attiva (operai, impiegati, funzionari- quello che si potrebbe chiamare il popolo dell’UGTT) e in fine di traiettoria, diverse sezioni della piccola e media borghesia ( liberi professionisti, titolari di PMI, etc.).

In totale, quindi, quattro grandi settori sociali: contadini, ghetti di periferia, i dipendenti e la classe media. Nella sua ispirazione fondamentale, la loro sollevazione convergente si iscriveva in una prospettiva tipica di rivoluzione democratica.

Ma qual’era il (o i) movimento/i politico/i rappresentativo/i di questo blocco storico che è emerso? La risposta può essere riassunta in due parole: non c’era. La rivolta è rimasta da punto a punto spontanea, senza programma preciso, ne inquadramento politico, ne leader nazionali. Come spiegare questo divario?
La scienza politica accademica non vede niente di insolito in un tale gap. Per essa, le rivoluzioni cominciano quasi sempre spontaneamente, senza ancora disporre di élite politiche nuove in grado di condurle e portarle a compimento. Queste nuove élite politiche si affermano – quando riescono a costituirsi – quasi sempre dopo il tempo della rivolta spontanea e quasi mai prima.

Tornare a Gramsci permette di andare più lontano e spiegare la constatazione. Cominciamo prendendo in considerazione quello che scriveva sulla questione delle élite e degli intellettuali. Lasciatemi citarlo lungamente:

“Gli intellettuali costituiscono un gruppo sociale autonomo e indipendente, o ciascun gruppo sociale ha una propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso, date le varie forme assunte finora dal processo storico reale di formazione delle diverse categorie di intellettuali. Le più importanti di queste forme sono due:

“1 – Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico (…)

“2 – Ma ogni gruppo sociale «essenziale» emergendo alla storia dalla precedente struttura economica e come espressione di un suo sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno nella storia finora svoltasi, categorie sociali preesistenti e che anzi apparivano come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai complicati e radicali mutamenti delle forme sociali e politiche. La più tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici (…)

“Una delle caratteristiche più rilevanti di ogni gruppo sociale che si sviluppa verso il dominio è la sua lotta per l’assimilazione e la conquista «ideologica» degli intellettuali tradizionali, assimilazione e conquista che è tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici. L’enorme sviluppo preso dall’attività e dall’organizzazione scolastica (in senso largo) nelle società medievali indica quale importanza abbiano assunto nel mondo moderno le categorie le funzioni intellettuali (…) La scuola è lo strumento utilizzato per formare gli intellettuali…”[2].

Questa divisione dell’intellighenzia tra un’ala che chiamerei per comodità modernista, e un’ala tradizionalista può essere rintracciata nel nostro paese (e in altri paesi arabi) sin dagli inizi del XIX secolo. La loro convivenza, spesso conflittuale e violenta, si cristallizza sotto il protettorato francese: Neo-Destour* contro Vecchio Destour, UGET* contro Saout et-Taleb*, bourguibisti contro yusefisti*, etc.

Con l’indipendenza nel 1956, è l’ala modernista che prende il potere. Per 15 anni, esercita una dominazione senza falle e impone al paese una bozza di modernizzazione autoritaria copiata dal modello capitalista occidentale. Non voglio entrare nei dettagli, li conoscete quanto me. Nel 1969, questo progetto di modernizzazione-occidentalizzazione esplode a mezz’aria. Il fallimento è innanzitutto economico e conduce all’abbandono dell’ambizione sviluppista mirante ad integrare tutta la popolazione attiva in un sistema di produzione e di scambio unificato. E’ infatti dopo il 1969 che appare il settore detto informale e le fratture sociali e territoriali cominciano ad espandersi.

Ma il fallimento è anche politico e ideologico. E’ comunque dopo il 1969 che l’ala tradizionalista, messa a tacere fino a quel momento, si rinnova e riappare in un’altra forma, quella di un movimento islamista, che in seguito prende il nome di Ennahdha e diventa la principale forza di opposizione. Incapace di stabilire la propria egemonia in termini di durata, la cultura modernista si rivelò anche incapace di convertire e assimilare la cultura tradizionale e in modo permanente i suoi sostenitori. Il sistema scolastico non è risparmiato da questa evoluzione. Da vettore centrale di progresso e di cambiamento, diventa a poco a poco strumento di conservatorismo e di regressione.

Il gruppo dirigente, oramai liberato dal suo progetto modernista, si preoccupa solo di restare al potere. Il regime economico si evolve così in maniera sempre più clientelare e rentista, prima di diventare praticamente mafioso con Ben Ali.

Dopo il rovesciamento di quest’ultimo e le elezioni dell’ottobre 2011, gli islamisti si impadroniscono della direzione dello Stato. Se i modernisti destouriani* erano stati in grado di mantenere la loro sovranità ideologica sul paese per 15 anni, questi non poterono nemmeno garantirla nei tre anni che monopolizzarono il potere. Dal 2015, sono insieme al potere (Ennahdha e Nidaa Tounes, l’ultimo avatar del Neo Destour e del RCD *) e non si può dire che le cose siano migliorate per loro a questo proposito, anzi. I due partiti insieme non rappresentano che un quarto dei tunisini in età di voto e sembrano totalmente fuori fase rispetto ai bisogni della popolazione.

Perché questi fiaschi successivi? Perché questo tipo di fatalità nel fallimento? E’ ancora necessario ricorrere a Gramsci. Cito: “… Quando la spinta del progresso non è strettamente legata a un vasto sviluppo economico locale (…), ma è il riflesso di uno sviluppo internazionale, che trasmette alla sua periferia le proprie correnti ideologiche, nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più avanzati, allora il gruppo che porta nuove idee non è il gruppo economico ma la classe degli intellettuali, e la concezione dello Stato di cui è portavoce cambia aspetto: lo Stato è percepito come una cosa a sé, come un assoluto razionale … “[3]. In apparenza anodino, questo passaggio dei Quaderni fornisce una chiave per comprendere le enormi difficoltà riscontrate dai processi di modernizzazione nei paesi arretrati.

In un linguaggio più esplicito, l’estratto citato dice in sostanza questo:

  1. Nei paesi arretrati, il bisogno di cambiamento non viene da dentro, ma da fuori;
  2. Questo bisogno non appare nell’economia (infrastrutture) ma nell’ideologia e nella cultura (sovrastruttura);
  3. Non è portato da una classe produttiva, ma da un gruppo sociale al di fuori della produzione;
  4. Lo Stato acquista, in queste condizioni, una forma di trascendenza; Esso diventa lo strumento di cui si serve il gruppo degli intellettuali per imporre il cambiamento al corpo sociale.

Queste determinazioni cambiano radicalmente la situazione. Investendo il rapporto che lega la classe produttiva ai circoli intellettuali, la modernizzazione dei paesi arretrati prende una fisionomia inedita. Una volta al potere, questi ambienti intellettuali sono dotati di una forte capacità di impulso e trascinamento, rimanendo soggetti ad una sorta di fragilità, di incoerenza organica, non potendo contare sulle dinamiche sociologiche endogene e funzionano secondo una logica di sostituzione, compensando la loro mancanza di sostanza obiettiva con un eccessivo investimento nell’​​ideologia.

E’ già stato sottolineato che la risposta alla questione del ritardo nel nostro paese ha preso due forme principali, sia reattive che mimetiche:

– Una risposta di imitazione dell’estero, da parte di coloro che hanno optato per la modernizzazione, cercando di imporre il modello che aveva trionfato nei paesi avanzati;

– Una risposta di imitazione del passato, di ripiego su se stessi, da parte di coloro che hanno optato per il cambiamento partendo dal recupero della tradizione

Di natura puramente ideologica, le due risposte sono state per definizione inadatte, inadeguate, e progettate per fallire nel lungo termine, soprattutto dal momento in cui i sostenitori dell’una o dell’altra si sarebbero impadroniti dello stato.

Ma torniamo alla Tunisia di oggi. Tutti sanno che il sollevamento del 2010-2011 era essenzialmente spontaneo, senza organizzazione/i politica/he per inquadrarla e impostarle una direzione. Per quanto riguarda quello che è stato appena spiegato, va aggiunto che la rivolta ha segnato un ribaltamento, una rottura, nel momento in cui la popolazione, nella sua massa, si è liberata dalla tutela delle sue ex élite, sia moderniste che tradizionaliste. Possiamo dire che un punto finale è stato messo, quindi, alla lunga parentesi aperta dall’episodio coloniale.

In una prima fase, ia turno, queste antiche élite intellettuali hanno potuto, nonostante i loro limiti, spingere in avanti il ​​corpo sociale, hanno potuto contribuire a farlo avanzare e trasformarlo. Poi, più o meno rapidamente, la loro capacità di cambiare il reale si è esaurita. E il corpo sociale ha proseguito – senza di esse e malgrado esse – l’attività di cambiamento e trasformazione. Si è passato, in altre parole, da una situazione in cui le élite erano un passo avanti alla società ad una situazione in cui era la società che era un passo avanti alle élite.

Ma il processo di emancipazione, brillantemente sanzionato il 14 gennaio con la caduta della dittatura, è rimasto in gran parte incompiuto. Continua ad essere fino ad oggi, privato delle leve (culturali, politiche, organizzative…) necessarie per svolgere il lavoro di emancipazione.

Questa situazione è piena di gravi minacce. Il fronte di classi costituito nel fervore popolare sei anni fa è ancora lì, ma non smette di incrinarsi sotto i nostri occhi. Privo di un progetto nazionale comune, ciascuno dei suoi componenti lotta solo per i propri interessi, anche se sono contro quelli degli altri. Dal lato della coalizione al potere, la tentazione autoritaria è sempre più pressante. La democratizzazione del regime politico è in fase di stallo, mentre le prospettive della democratizzazione economica e sociale si allontanano costantemente a favore di gruppi rentisti e mafiosi la cui influenza non era mai stata così forte.

In breve: il paese e la sua rivoluzione sono in pericolo. E lo sono perché ancora non disponiamo di nuove élite in grado di affrontare e invertire la tendenza. Tuttavia, queste nuove élite esistono e sono anzi relativamente numerose. Rimangono tuttavia disperse, sparpagliate senza potere di influenzare il corso degli eventi. E questo, in particolare per l’assenza di una forza politica alternativa credibile, in grado di raccoglierle e federarle, superarando definitivamente le vecchie divisioni tra modernisti e tradizionalisti.

Costruire una tale forza è il compito principale del momento presente. Si tratta di una responsabilità collettiva. E non credo di sbagliarmi nel dire che possiamo trovare nel pensiero di Gramsci, l’aiuto necessario per raggiungere questo obiettivo.


Note dell’autore

[1] – A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, pp 869, 1091, 1237-1238, 1300-1301, Einaudi, Torino, 1975

[2] – Quaderni del carcere, op. cit., vol. III, pp 1513 sgg (le traduzioni sono mie, AK).

[3] – Quaderni del carcere, op. cit., vol. II, p. 1360.

*Note di Tlaxcala 

Il Neo Destour (ufficialmente denominato Nuovo partito costituzionale liberale, al-Hizb al-Hurr ad-Dustūrī al-Jadīd) è un partito politico creato il 2 marzo 1934 come risultato di una scissione ideologica nel Destour, partito nazionalista creato nel 1920 e in seguito chiamato Vecchio Destour. Una volta al potere, all’indipendenza, Habib Bourguiba divenne il suo unico leader, eliminando con violenza i cosiddetti yusefisti, facendo assassinare il loro leader Salah Ben Yusef nel 1961. Il partito ha cambiato nome in Partito Socialista destouriano nel 1964. Nel 1988, all’inizio della dittatura di Ben Ali, è stato rinominato RCD (Raggruppamento costituzionale democratico). E’ stato sciolto per ordine del tribunale in data 9 marzo 2011, ma è rinato sotto il nome di Nidaa Tounes (Appello della Tunisia) nel 2012.

L’Unione generale degli studenti tunisini o UGET è un sindacato studentesco che è stato creato nel 1952 sotto l’impulso del Neo Destour. Il suo primo congresso si è tenuto a Parigi. Dopo l’indipendenza, il presidente Habib Bourguiba ha voluto convertirlo nell’unico organo di rappresentanza degli studenti. Pertanto, il Saut El Taleb, La Voce dello studente, organizzazione zaytuniana creata nel febbraio 1950, ha dovuto accettare la riunificazione l’8 luglio 1956.

La Zaytuna, la più antica università nel mondo, era un centro di insegnamento islamico legato alla moschea con lo stesso nome, prima di essere posta sotto il controllo dello Stato nel 1956. E’ stato uno dei focolai di sviluppo del movimento islamista.

Saut el Taleb, LaVoce dello Studente, era il nome del giornale e dell’organizzazione di studenti della Zaytuna

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