La Sardegna è la Cayenna dello Stato italiano
Riprendiamo un comunicato/denuncia delle associazioni Sardinnia Aresti e Nishunu Est Solu sulla situazione delle carceri in Sardegna
Cayenna è la capitale della Guyana francese, una colonia d’oltremare dello Stato francese situata a sud di Venezuela e Suriname, nel Sud America.
In questo splendido territorio affacciato sull’Oceano Atlantico, nel 1848, l’imperatore di Francia Napoleone III edificò una delle più celebri colonie penali che la storia del mondo recente ha conosciuto. Il suo scopo era dare uno slancio alla depressa economia guyanese, devastata dalla violenza coloniale dei decenni precedenti, e avere un luogo lontano dove deportare in massa gli elementi più indesiderabili e refrattari della società francese.
La Guyana fu quindi trasformata in una grande prigione, dove gli abitanti erano i carcerieri di uomini e donne a loro sconosciuti, di cui non sapevano storia e colpe, presunte o tali.
La portata dell’operazione fu talmente grande che tutt’oggi si usa ancora come citazione storica e, per quanto ci riguarda, purtroppo vale proprio la pena usarla.
La Sardegna, infatti, nel 2022 è ancora la Cayenna dello Stato italiano.
Una decina di strutture detentive di vario tipo, cinque carceri speciali, migliaia di detenuti e tre reparti attivi di 41 bis, più uno in preparazione. Metà della popolazione carceraria reclusa in Sardegna ha subito una deportazione o, come lo chiamano giudici e guardie, un trasferimento, che molto spesso è definibile come “punitivo”. Infatti non si tratta di una necessaria dislocazione di detenuti all’interno delle strutture dello Stato, ma della volontà di infliggere un’ulteriore pena a detenuti ribelli, scomodi, refrattari o con molta solidarietà intorno.
L’utilizzo del trasferimento punitivo è diventato strutturale all’interno del codice penitenziario, nonostante l’esistenza della legge sulla territorialità della pena: dagli anni ‘70 in poi ne è stato fatto un utilizzo enorme e, sempre attraverso questa regola non scritta, si può capire la scelta dello Stato di costruire quattro delle otto nuove super prigioni dell’ultimo piano carceri proprio in Sardegna, la regione dello Stato più lontana e dove è quindi più difficile arrivare. A ulteriore conferma di ciò c’è anche un dato statistico: il complessivo numero di posti disponibili nelle varie strutture detentive sarde è enormemente maggiore rispetto all’esigenza di una regione come la nostra.
Inoltre, la creazione di quattro sezioni di 41bis è evidentemente pensata non per i condannati sardi. Questi ultimi invece sono stati storicamente deportati nelle carceri e nei confini del continente, come è il caso dei pastori sardi ritenuti pericolosi o affiliati al banditismo deportati nell’isola di Ustica nel dopoguerra, ad esempio Peppineddu Pes. Ancora, è il caso dei prigionieri politici sardi per tanto tempo rinchiusi nelle carceri dello stivale: questo succede ancora oggi, mantenendo questo rapporto bidirezionale delle deportazioni nel/dall’isola, così come succede in maniera analoga in Corsica, sotto lo Stato francese.
Ormai da qualche settimana Alfredo Cospito, un prigioniero anarchico,
è stato trasferito al carcere di Bancali, a Sassari, nella sezione di 41bis. Alfredo proviene dal carcere di Terni, anch’esso dotato della sezione 41bis, ed è per questo che il trasferimento assume ancora di più quei tratti storici della punizione, contro chi non si piega, non collabora, non chiede scusa.
Possiamo dunque affermare con precisione, e senza esasperazione, che lo Stato italiano continua a vedere nella nostra isola il territorio prediletto per le detenzioni speciali e di massa: a vederne una Cayenna.
Purtroppo c’è da registrare anche l’inasprimento di questa vocazione imposta. Dagli anni ‘70 fino al 1998 sono state due le strutture a ospitare le deportazioni, in particolare dei prigionieri politici e degli appartenenti alle organizzazioni di stampo mafioso. Parliamo del super carcere dell’Asinara – distrutto durante la rivolta del ‘79 e chiuso definitivamente nel ‘98 – e di Badu ‘e Karros a Nuoro, che è stato completamente ristrutturato con il piano carceri prima citato.
A oggi, invece, le carceri sarde che vengono usate per tombare uomini e donne scomode, sono ben cinque. Chi vi finisce sono detenute e detenuti come alcuni dei ribelli delle rivolte del marzo 2020, come alcuni rivoltosi dei CIE/CPR, come decine se non centinaia di appartenenti alle organizzazioni di stampo mafioso e da poco anche prigionieri rivoluzionari.
La manovra di chiaro stampo coloniale dello Stato italiano, di trasformare un’isola nella Cayenna di un intero stato, è stata affinata nei decenni in cui questa violenza si è imposta e radicata, rendendo sempre più difficili e rare le possibilità di immaginare forme di lotta contro tutto ciò. I parenti dei detenuti arrivano stremati dal viaggio e si spostano subito nei paesi più vicini alle carceri – lontano dalle città, riducendo al minimo la possibilità di contatti con chi all’esterno vorrebbe creare reti di solidarietà. I colloqui sono tutti in giorni diversi. All’esterno delle strutture i secondini si muovono con una violenza e arroganza notevole, allargando di molto la distanza tra il dentro e il fuori. A tutto ciò si somma il sistema della premialità che placa quasi tutti gli ultimi vagiti di lotta dei prigionieri.
Questo sistema carcerario va quindi combattuto in primis da fuori, ricercando sensibilità e complicità in una popolazione che non può continuare ad accettare violenza dopo violenza, sul suo territorio e sulla sua pelle. La lotta contro il ruolo di grande carcere dello Stato italiano può essere portata avanti solo unendola alle varie lotte di liberazione dalle oppressioni che quest’isola subisce, in un’unica lotta di liberazione della Sardegna.
Sardinnia Aresti
Nishunu Est Solu
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Carcere di Cagliari-Uta