La Sicilia e la grande guerra

UN BREVE EXCURSUS DI TESTIMONIANZE POPOLARI SICILIANE SULLA PARTECIPAZIONE ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE. Il doloroso “conflitto” dei nostri soldati scalzati dai campi per difendere un’incompresa guerra (oppure un’incompresa patria) affidato alla lirica dei canti popolari (*)

di Francesco Giuffrida

(studioso del canto popolare e sociale)

Giuffrida

In ogni città, in ogni paese d’Italia – piccolo o grande che sia – c’è un monumento ai caduti della Grande Guerra. Ovviamente anche in Sicilia. E se qualcuno volesse sommare i nomi dei caduti nelle città e nei paesi siciliani arriverebbe alla fine a contarne circa cinquantamila; su mezzo milione di soldati partiti il dieci per cento non fece ritorno. Da conteggiare a parte i feriti e i mutilati.

La nostra regione – dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che ancora non vedeva impegnata l’Italia – non fece registrare particolari proteste, manifestazioni, mobilitazioni pro o contro l’entrata in guerra del nostro Paese. Nel resto della penisola le prese di posizione, i cortei, le adunate per l’immediata dichiarazione di guerra e il conseguente impegno bellico italiano erano all’ordine del giorno. E in prima fila era schierata la gioventù studiosa, quella gioventù che sarà ricordata nella strofa finale di un famoso canto popolare – di matrice ‘nordica’, ma diffuso tra i soldati di ogni regione – dal titolo “Addio padre e madre addio”:

«Sian maledetti quei giovani studenti

che hanno studiato e la guerra han voluto

hanno gettato l’Italia nel lutto

per cento anni dolor sentirà».

Come potessero inneggiare alla guerra giovani che hanno studiato restava inspiegabile per gli altrettanto giovani contadini, braccianti, operai, artigiani, cioè # la # maggioranza dei caduti e dei mutilati; così come era inspiegabile sentire Benedetto XV tuonare contro la guerra e vedere i cappellani militari benedire i poveri disgraziati mandati a morte certa in assalti suicidi, similmente alla parte ‘nemica’ anch’essa benedetta da cappellani in teoria obbedienti allo stesso papa. Ecco un canto, raccolto nel nisseno da Salvatore Riggio Scaduto (Canti della nostra terra) che bene sintetizza lo stato di confusione:

«Priamu a San Giuseppi chi ci senti

che di ’n cuddu tutti l’avemu a purtari

pirchì Iddu è Patri di l’Unniputenti

chi ’sta guerra prestu avi fari carmari.

E pirchì è Santu di chiddi splendenti

Santu di l’Austria chiù particolari.

Chiamamu Gesù Giuseppi e Maria

Pp fari cissari ’sta guerra ’m pria».

Preghiamo S. Giuseppe che ci ascolta/ e tutti a spalla lo dobbiamo portare/ perché Lui è Padre dell’Onnipotente/ che questa guerra in fretta deve fare calmare./ E perché è un Santo di quelli risplendenti/ particolarmente venerato in Austria./ Ci appelliamo a Gesù, Giuseppe e Maria/ che facciano cessare quanto prima questa guerra.

E il clero siciliano (e non solo i sacerdoti, ma vescovi, arcivescovi, cardinali…) fece la sua parte: accantonate le parole di Benedetto XV – «inutile strage . . . suicidio dell’Europa civile . . . desolazione e morte . . . terribile bufera . . . tanta carneficina…» – si prodigò in tutti i modi per procurare la carne da cannone necessaria per la guerra. E anche da chi alla guerra avrebbe dovuto opporsi con tutte le sue forze vennero parole di piena adesione e di copertura ideologica: basta pensare a Giuseppe De Felice Giuffrida – nostru patri, come era chiamato dal popolo catanese1 – schierato, come già in occasione dell’avventura colonialista in Libia, a favore della guerra assieme a numerose Camere del Lavoro: Palermo, Siracusa e Messina in prima fila.

Presi tra più fuochi i nostri villani non ebbero alcuna possibilità di scegliere; il loro disamore, quando non vero e proprio odio, per il servizio militare anche in tempo di pace è abbastanza noto. Legati alla terra, al lavoro nei campi, non certo per sentimenti bucolici, piuttosto per necessità e mera sopravvivenza, non potevano concepire l’abbandono delle colture, dei lavori, del raccolto, di tutto quello cioè che poteva garantire il sostentamento minimo alle loro famiglie. Non bisogna dimenticare che nel giugno del 1860 lo stesso amatissimo Garibaldi dovette constatare la scarsità di volontari all’arruolamento: a giugno si miete, la rivoluzione deve aspettare. E poi lasciare la famiglia, lasciare, forse per sempre, l’amore magari appena conquistato era un’atrocità insopportabile:

«Surdatu mi nni vaju, comu fazzu

a ccu li lassu ‘m putiri ‘sti billizzi

. . . Gghicannu in art’Italia scrivu: Cara

ricorditi di mia ’na vota l’ura».

« . . . Quantu fu ranni ’sta mala sbintura

ora ca amu a tia lu re mi chiama».

Vado soldato, come faccio/ a chi lascio queste bellezze . . . Arrivando in alta Italia scrivo: Cara/ ricordati di me una volta ogni ora.

Quanto è stata grande questa brutta sventura/ ora che amo te il re mi chiama.

Così in due canti raccolti da Angelo Marsiano a Niscemi. E in un altro trascritto da Salvatore Salomone-Marino a Palermo:

«Occhi, vuliti chianciri, chiancemu,

chiancemu la spartenza ch’aspittamu;

ni nni jamu a la guerra e cummattemu,

nun ni curamu siddu n’ammazzamu».

Occhi, volete piangere, piangiamo,/ piangiamo la separazione che stiamo aspettando;/ andiamo in guerra e combattiamo,/ non ci importa più se moriamo.

E a rendere più dolorosa la spartenza, la separazione, c’era la consapevolezza che i figli dei cappelli avrebbero certo trovato il modo di evitare la leva. Ecco ancora un canto di Mussomeli (Riggio Scaduto):

«Sugnu vinutu di Cartanissetta

e vaju vidennu ca la liggi iè torta.

Cu havi li dinari s’alliberta

e cu nun n’havi lu zainu porta.

L’amaru di mia scrittu alla lista

Si nun ci vaju la liggi m’arresta».

Torno da Caltanissetta/ e ho constatato che la legge è ingiusta./ Chi ha i soldi si libera/ e chi non ne ha deve portare lo zaino./ Io poveretto scritto sulla lista/ e se non mi presento la legge mi arresta.

E così, richiamati da uno Stato che sentivano straniero e da cui avevano avuto solo guai, abbandonati dalla Chiesa e da chi aveva il diritto/dovere di opporsi alla guerra, all’inutile strage, i Siciliani partirono, similmente # ai poveri, ai contadini, agli operai del resto della nazione, per realizzare in territori sconosciuti un’altra unità d’Italia. I Siciliani saranno mezzo milione, mezzo milione di giovani, di forze vive, di intelligenze e di braccia.

DUE RAGAZZI DEL NOVANTANOVE

Partiranno alla fine anche i diciottenni, i ragazzi del novantanove. Tra loro Ignazio Buttitta (Bagheria 1899 – 1998) e Vincenzo Rabito (Chiaramonte Gulfi 1899 – Ragusa 1981). L’uno e l’altro lasceranno la loro testimonianza: testimonianza non di singole persone, di individui, ma il sentire comune di un intero popolo. Da “Littra a una mamma tedesca” e da “La paci” del poeta di Bagheria:

«. . . . . .

Mamma tedesca,

ti scrivi ddu surdatu talianu

chi t’ammazzò lu fugghiu.

Maliditta dda notti

e l’acqui di lu Piavi

e li cannuna e li bummi

e li luci chi c’eranu;

maliditti li stiddi

e li prigheri e li vuci

e lu chiantu e li lamenti

e l’odiu, maliditti!

. . . . .

Mamma tedesca,

mammi di tuttu lu munnu,

vi chiamu!

Ognuna,

la petra cchiù grossa

vinissi a ghittalla

supra di mia:

muntagni di petra,

muntagni di petra,

scacciati la guerra».

Mamma tedesca,/ ti scrive quel soldato italiano/ che t’ammazzò il figlio./ Maledetta quella notte/ e l’acque del Piave/ e i cannoni e le bombe/ e le luci che c’erano;/ maledette le stelle/ e le preghiere e le voci/ e il pianto e i lamenti/ e l’odio, maledetti!/ . . . . . Mamma tedesca,/ madri di tutto il mondo,/ vi chiamo!/ Ognuna/ la pietra più grossa/ venga a gettare/ su di me:/ montagne di pietra,/ montagne di pietra,/ schiacciate la guerra.

«La vitti ntra la vucca di Maria

la paci,

ntra li capiddi biunni di so figghiu

la paci,

sutta la cruci e supra di lu celu

la paci.

. . . . .

Paci,

chi ti sucai la prima vota

dintra lu pettu biancu di me matri.

Paci,

ca ti liggii ntra l’occhi d’idda

e ti tastai a li primi vasati.

. . . . .

Sfarda sta negghia

càrrica di sangu

chi passa pi lu munnu.

Li matri addinucchiuni

cu li carusi mbrazza,

chiàncinu e ti disianu.

L’omini, li vrazza all’aria,

gridanu: paci!

Cummogghia d’ali bianchi di palummi

lu celu d’ogni terra».

L’ho vista nella bocca di Maria/ la pace,/ sui capelli biondi di suo figlio/ la pace,/ sotto le croci e nel cielo/ la pace./ Pace,/ che succhiai la prima volta/ dal petto bianco di mia madre./ Pace,/ che lessi nei tuoi occhi/ e gustai ai primi baci./ . . . . . Lacera questa nebbia/ carica di sangue/ che passa per il mondo./ Le madri inginocchiate,/ con i bambini in braccio, t’invocano piangendo./ Gli uomini con le braccia alzate/ gridano: pace!/ Copri di ali bianche di colombe/ il cielo di ogni terra.2

E dall’intenso diario di una vita di Terramatta, lo scrittore semianalfabeta di Chiaramonte Gulfi:

«Io diceva e tutte diciammo: “Se ci porteranno lì, siammo sicuro che morremmo e con la famiglia non ci vediammo più!”. Tanto lettere macare che scrivemmo, non ne arriciviammo, e magare che qualche letra la receviammo, era tutta scancellata, perché la cenzura, se vedeva che c’era scrito: “Figlie mieie, state atento! quardatete!” non poteva essere di scrivillo e lo scancellavino. Solo non scancellavino quanto la famiglia scriveva: “Bisogna di morire per la Madre Padria!”. E noi ci potemmo mandare a dire: “Cara madre, io faccio il soldato per defentere la Madre Padria!”. Che io e tutte, nel nostro penziero, diciammo: “Maledetta la Padria, che ci stanno fanno morire prima che antassemo in trencieia…” . Perché, per 15 ciorne, non ci hanno fatto dormire neanche una notte!

. . . Povere descraziate, quanto ni morevino! Così, tutta la bricata Ancona antiammo lì per fare resestenza, che li austriece hanno contra atacato e li nostre comantante credavino: “Avante Savoia!”. E noi, tutte con bombe ammano e baionetta incastata e pugnale e bombe, che li Ardite li stapevimo fanno noi, che prima di arrevare al monte, caminanto caminanto, di quanto morte e ferite che c’erino, non avemmo dove mettere li piede.

. . . E così, a noi zapatore, ci hanno detto che vedetta non ci ne facevino fare più, e ci facevino fare di sepolire muorte, fare trenceie e fare il soldato zapatore.

. . . E così amme, tutta la paura che aveva, mi ha passato, che antava cercando li morte magare di notte, che deventaie un carnifece. Impochi ciorne sparava e ammazava come uno brecante, no io solo, ma erimo tutte li ragazze del 99, che avemmo revato piancento, perché avemmo il cuore di picole, ma, con questa carneficina che ci ha stato, diventammo tutte macellaie di carne umana.

. . . E per tre ciorne fuommo abandunate del Padre Eterno, senza rancio e senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure . . . E il nostro alimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto: che butava bestemie alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino bestemmiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto».

VOX POPULI

Meno profonde, meno drammatiche forse, anche perché scritte prima di sperimentare la vita di trincea, il battesimo del fuoco e la carneficina, ma sincere e piene di pathos sono le testimonianze fornite nei canti dei nostri coscritti; ecco due canzoni, la prima di Noto e la seconda di S. Cataldo:

«Pattu suddatu, suddu voli Ddiu;

a li billizzi tuoi m’arricumannu

e com’arriv’a lu ristinu miu,

fazzu na littricedd’e tti la mannu.

Scrivu lu nuomu tuo’ e ppuoi lu miu

e ppi sicill’u me cori ti mannu.

Se ffazzu lu suddat’e iu num-miegnu,

a li billizzi tuoi m’arricumannu».

Parto soldato, se vuole Dio/ alle tue bellezze mi raccomando/ e come arrivo alla mia destinazione,/ faccio una letterina e te la mando./ Scrivo il tuo nome e poi il mio/ e per sigillo il mio cuore ti mando./ Se faccio il soldato e io non torno,/ alle tue bellezze mi raccomando.

«Ci curpa lu Guvernu sciliratu

ca m’ha livatu lu geniu miu.

Ora mi tocca di jri surdatu

e lassu ‘a bella mia galanteria.

Si ’n sarvamentu vegnu di surdatu

ti giuru chi spusarti ti vurria».

La colpa è del governo scellerato/ che mi ha tolto colei che desideravo./ Ora mi tocca di andare soldato/ e lascio i miei giochi amorosi./ Se mi salvo e torno/ giuro che ti sposerò.

Anche Ciccio Carrà Tringali (Lentini 1874 – 1965), spaccapietre di Lentini e autore di centinaia di poesie in dialetto siciliano, parla della Grande Guerra. Lui non è richiamato, ha più di quarant’anni e deve mantenere quattro figli; ma sente il dolore della separazione e canta quella dalla madre in un famoso sonetto (Partu matruzza), proseguendo così una lunga tradizione che vede al centro del mondo popolare proprio la figura della matruzza:

«Partu, matruzza e partu addiu a la sorti,

chissà lu celu chi m’ha distinatu,

chissà si tornu ad essiri accucciatu

di tia o m’accucciari cu la morti.

Matri la me’ spartenza è dura e forti

pinzannu ca iu partu pi surdatu

binidici lu latti ca m’hai datu

lu partu, li duluri e ti cunforti.

La patria mi chiama e tocca a mia

rimediu non c’è devu partiri

matri fa’ cuntu ca non m’hai criatu.

Si la morti mi sbagghia tornu a tia,

quannu cumpritu l’haiu lu me’ duviri

e siddu tornu vivu m’hai truvatu».

Parto mammina e parto addio alla sorte,/ chissà il cielo cosa mi ha destinato,/ chissà se torno ad essere abbracciato da te/ o mi abbraccerà la morte./ Madre la separazione è dura e forte/ pensando che parto per fare il soldato/ benedici il latte che mi hai dato/ il parto, i dolori e ti conforti./ La patria mi chiama e tocca a me/ non c’è rimedio, devo partire/ madre fai conto che non mi hai creato./ Se la morte mi sbaglia torno a te/ quando avrò compiuto il mio dovere/ e se torno vivo mi avrai ritrovato.

CANTANO LE VEDOVE

Nel 1927 Giuseppe Bonafede raccolse nel ragusano più di un centinaio di brevi ninne nanne; all’interno del libretto pubblicato a Ragusa, alcune pagine sono dedicate alle ninne nanne cantate ai figli dei soldati morti in guerra. Sono ninne nanne strutturate in forma di ciuri: dopo un primo verso di cinque o sei sillabe seguono due endecasillabi tra di loro assonanti con l’ultimo che rima col verso iniziale più breve. Queste brevi composizioni riescono a urlare a bassa voce l’orrore e il dolore per un sacrificio difficilmente comprensibile:

«Niura cirasa

passa la vita mia fridda e scurusa

la culonna cascau di la me casa.

Spina ca lori

cianci lu celu scurusu è lu mari

ch’è vistutu di niuru lu me cori.

Foggia di rosa

la mamma cianci mentri ca ti vasa

duormi urfaneddu miu duormi e riposa.

Figgiu muristi

sulu mienzu la nivi abbannunatu

chi luntanu viaggiu ca facisti.

Su’ l’urfaneddi

comu li friddi virmuzzi di sita

truvati morti ni li cucuzzeddi».

Nera ciliegia/ la mia vita passa fredda e buia/ è caduta la colonna che reggeva la mia casa./ Spina che duole/ piange il cielo buio è il mare/ perché è vestito di nero il mio cuore./ Foglia di rosa/ la mamma piange mentre ti bacia/ dormi orfanello mio dormi e riposa./ Figlio sei morto/ solo in mezzo alla neve abbandonato/ che lontano viaggio che hai fatto./ Sono gli orfanelli/ come i freddi bachi da seta/ trovati morti nei loro bozzoli.

UNA CANZONE DI FRATELLANZA

Nel corso della Grande Guerra vi furono varie sospensioni delle ostilità decretate autonomamente, di nascosto dagli ufficiali, dai soldati degli opposti schieramenti: partite a carte, a pallone, scambi canori di canti natalizi con cori multilingue per i canti che avevano più versioni. Il culmine fu toccato nel 1917 all’annuncio dell’armistizio decretato dalla Russia, appena diventata sovietica: i soldati, anche lì contadini da una parte e dall’altra, non più nemici, balzarono fuori dalle trincee per correre ad abbracciarsi nella terra di nessuno.

Anche se storicamente non è pienamente accertato anche noi possiamo registrare un episodio di momentaneo affratellamento. Ne dà notizia il giornalista Aurelio Corona, genero di Gaetano Emanuel-Calì (Catania 1885 – Siracusa 1936). Quest’ultimo nel 1910 aveva musicato il testo di Giovanni Formisano (Catania 1878 – 1962) “E vui durmiti ancora”, un’incantevole romanza destinata a diventare una sorta di inno della nostra regione. Già nel 1968, a una commemorazione del suocero presso il Club della Stampa di Catania, Aurelio Corona aveva rivelato l’episodio che nel 1977 riporterà nella Rivista Storica Siciliana, anno II n. 4, aprile 1977; lasciamogli la parola:

«Nelle memorie inedite dell’Emanuel-Calì leggiamo quest’altro significativo episodio riguardante la stupenda canzone. Nella Grande Guerra (la guerra 1915 – 1918) le prime trincee della Carnia vennero occupate dai reggimenti catanesi 4° e 146°. Queste trincee erano solo a una trentina di metri di distanza da quelle austriache. Allora, in quel settore, la guerra non si era ancora scatenata in tutta la sua furia e si trascorrevano i giorni e le notti in attesa dell’inizio della prima grande azione. “Ebbene, scrive l’Emanuel-Calì, in quelle sere di calma nelle nostre trincee si cantava ‘E vui durmiti ancora’ accompagnati dalla chitarra che qualche soldato non aveva mancato di portare con sé. Poi dalle opposte trincee, quelle del nemico, si levavano gli applausi e si chiedeva il bis!».

E con questo canto d’amore preferiamo chiudere il nostro breve excursus.

«Lu suli è già spuntatu di lu mari

e vui, bidduzza mia, durmiti ancora,

l’aceddi sunnu stanchi di cantari

e affriddateddi aspettanu cca fora,

supra ssu balcuneddu su’ pusati

e aspettanu quann’è ca v’affacciati!

Lassati stari, non durmiti cchiui,

ca ‘mmenzu ad iddi, dintra ssa vanedda,

ci sugnu puru iù, c’aspettu a vui,

ppi vidiri ssa facci accussì bedda,

passu cca fora tutti li nuttati

e aspettu sulu quannu v’affacciati.

Li ciuri senza vui non ponnu stari,

su’ tutti ccu li testi pinnuluni,

ognunu d’iddi non voli sbucciari

su prima non si grapi ssu balcuni,

dintra li buttuneddi su’ ammucciati

e aspettanu quann’è ca v’affacciati!».

Il sole è già spuntato dal mare/ e voi, mia bella, dormite ancora,/ gli uccelli sono stanchi di cantare/ e infreddoliti aspettano qua fuori,/ sopra il balconcino sono posati/ e aspettano quando vi affacciate!/ Lasciate stare, non dormite più,/ che in mezzo a loro, in questa stradina,/ ci sono pure io, che aspetto voi/ per vedere questa faccia così bella,/ passo qua fuori tutte le nottate/ e aspetto solo quando vi affacciate./ I fiori senza di voi non possono stare,/ sono tutti con le teste penzoloni/ e ciascuno di loro non vuole sbocciare/ se prima non si apre questo balcone,/ dentro i boccioli sono nascosti/ e aspettano quando vi affacciate!

NOTE

1. fondatore dei Fasci dei lavoratori, condannato da Crispi e dai suoi complici, ideatore e organizzatore del forno comunale che forniva a duecentomila catanesi il pane a prezzo calmierato.

  1. Ignazio Buttitta, «Lu pani si chiama pani», con versi italiani di Salvatore Quasimodo, Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1954.

(*) Questo testo è ripreso, con l’autorizzazione dell’autore, dal trimestrale «INCONTRI (La Sicilia e l’altrove)» di Catania, numero del gennaio-marzo 2014; per contatti info@edizionincontri.it

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Non conoscevo . Recuperare e conservare la memoria mi sembra lavoro prezioso e utile.
    Nella mia infanzia a Trapani i racconti delle mie due nonne
    una di estrazione contadina .
    -benestante raccontava di suo marito Giuseppe – con un grande amor di patria e senso di italianità ha voluto chiamare la figlia nata dopo la conquista di Trieste , appunto Trieste e così quella bambina che poi sposata è stata la mia mamma , mi raccontava di una sua compagna di scuola, chiamata per lo stesso motivo GORIZIA

    MENTRE LA NONNA PATERNA FAMIGLIA PIù TRASGRESSIVA MA ANCHE PIù POVERA , IMMIGRATA IN ALGERIA MA RITORNATA POI A TRAPANI, RACCONTAVA ,CON ORGOGLIO, DI FRATELLI SUOI DISERTORI O AUTOLESIONISTI CHE AVEVANO STRAPPATO LA CARTOLINA…PER NON PARTIRE . ANTIMILITARISMO AVERE CAPITO CHE LA GUERRA NON RISOLVE I PROBLEMI. ED ERANO IN TANTI I RAGAZZI DI LEVA CON LA VOGLIA DI VIVERE E L’INCAPACITA’ AD ORGANIZZARSI PER FARE SENTIRE COLLETTIVAMENTE LA LORO VOCE

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