“La società del benessere comune”

Recensione al libro di F. Gesualdi, G. Ferrara – Arianna Editrice Bologna 2017

di Alberto Melandri

Il testo, ricchissimo di informazioni, inizia con : “Siamo giunti alla fine di un ‘epoca storica. Un’epoca che è cominciata con la Rivoluzione industriale e sta terminando con la finanziarizzazione dell’economia, ove a creare ricchezza non sono più i mezzi di produzione e la forza lavoro, ma i computer della grande finanza internazionale. (..) E’ la società del male comune, in cui l’individualismo e il mercato hanno sottomesso il senso di comunità e lo spirito di condivisione.”

Da questa premessa partono i due autori di un libro che ha un sottotitolo chiarificatore: “Rivoluzione personale e cambiamento sociale per vivere molto meglio senza consumare sempre di più”. Le proposte che intrecciano il cambiamento individuale alla trasformazione del modello di società sono trattate nelle seconda parte del testo che affronta, con chiarezza esemplare , nella prima parte, i nodi che ci hanno portato alla situazione attuale, partendo dall’inizio del XX secolo fino ad oggi.

Il primo quadro che il libro ci offre è aperto sulla trasformazione del lavoro nella fabbrica di automobili di Henry Ford che nel 1913 abbandona il sistema che affidava a gruppi di due o tre operai la fabbricazione dell’intera automobile ( tempo medio impiegato : 514 minuti) , per passare alla catena di montaggio: “ un nastro trasportatore avanzava fra due ali di lavoratori, ciascuno dei quali eseguiva una singola operazione che non durava più di una manciata di secondi” ( tempo medio impiegato: 94 minuti). Ford aumentò la paga media giornaliera, ma per i lavoratori, costretti a svolgere la stessa funzione migliaia di volte al giorno, aumentavano esponenzialmente stress e malcontento, che venivano brutalmente combattuti dall’azienda con minacce ed intimidazioni da parte dei sorveglianti.

Un’altra tappa verso l’aumento della disoccupazione in occidente e dello sfruttamento nei cosiddetti ‘paesi in via di sviluppo’  si è verificata fra il 1985 ed il 1998 :  nel 1985 la Ford investe 28 miliardi nell’automazione, ma con l’introduzione dei robot, 100.000 operai perdono il loro posto di lavoro e nel 1998 inizia una delocalizzazione della produzione con l’apertura di una fabbrica in Thailandia, i cui lavoratori locali erano compensati con salari molto più bassi.

Del resto già negli anni ’60 la NIKE aveva spostato la maggior parte delle sue fabbriche nel Sudest asiatico, dove i salari erano decisamente più bassi. Sommando tutti i posti di lavoro perduti in tutti settori manifatturieri, gli autori ci informano dei 6 milioni di possibilità di occupazione in meno negli Stati Uniti, durante gli anni 2000, e degli 8 milioni e mezzo in meno in Europa dal 1995 al 2013.

A questo si aggiunge l’aumento dell’orario di lavoro, con salario immutato, da 35 a 40 ore presso la Tedesca SIEMENS, imposto nel 2004, e da 29 a 34 presso la VOLKSWAGEN nel 2006, entrambi motivati dal solito ricatto, in base al quale bisogna risparmiare per reggere la concorrenza internazionale oppure bisogna chiudere le fabbriche.

Intanto, in questi anni, la quota di prodotto lordo andata ai salari passa nei paesi più ricchi dal 75% al 65% , mentre i profitti aumentano dal 25% al 35 % e il divario fra il 10% della popolazione più ricco ed il 10% più povero passa, ad esempio, in Italia da 8 a 1 nel 1985 a 11 a 1 nel 2013: trionfano le disuguaglianze.

Sono anche gli anni in cui gli investimenti nel settore manifatturiero diminuiscono fortemente e cresce, invece, la finanziarizzazione della vita economica, con l’arrivo negli stati Uniti nel 2008 della crisi economica, partita dai cosiddetti mutui ‘subprime’ cioè scadenti, concessi a famiglie che non avevano le possibilità di pagarli, con tutte le conseguenze a catena che si sono allargate dagli Stati Uniti all‘Europa ed al resto del mondo, con quella che gli autori definiscono come ‘una crisi di sistema’ , dalla quale non si uscirà certo con la ‘ favola della crescita’.

A questa valutazione Gesualdi e Ferrara arrivano considerando tre fattori principali: 1) si racconta che la crescita sia perseguita per creare lavoro, ma in realtà non c’è nessuna garanzia che la crescita crei lavoro, anche perché 2) la crescita è iniqua, perché ‘spinge le paghe sempre più giù e i profitti sempre più su’ e promuove la robotizzazione per fare uscire dal mercato del lavoro un numero crescente di persone., 3) l’impatto ambientale della crescita è devastante perché non tiene conto della limitatezza delle risorse e degli effetti prodotti dall’accumularsi di quantità crescenti di rifiuti non riutilizzati e dai processi che portano al riscaldamento globale.

Conclusa questa disamina storico-economica, il libro apre la seconda parte , definita ‘la nuova rotta’, il percorso verso la ‘Società del benessere  comune’ , un progetto di sobrietà e decrescita che non contiene ricette facili per affrontare problemi colossali, ma che valorizza tante buone pratiche che, saldate e coordinate, possono dare vita ad un sistema diverso ed alternativo. Fra i tanti spunti contenuti in questa parte del testo se ne possono segnalare alcuni. Partirei dallo spostamento dal BENAVERE al BENVIVERE, cioè ad una concezione dell’esistenza collettiva  che “non dipenda tanto dalla ricchezza quanto dalla fecondità della natura, da ritmi di vita sereni, dall’appagamento affettivo, dal sostegno comunitario “ Un sistema socioeconomico in cui siano garantiti diritti ad alimentazione, acqua, alloggio, salute istruzione,  ma anche inclusione sociale, libertà politiche e libertà religiosa, qualità dell’aria e dell’acqua, stato di salute dei mari e dei fiumi, stabilità del clima.

A questo si aggiungono, per esempio, i riferimenti a Lester Brown e ai nove settori produttivi che dovranno essere potenziati nell’ambito delle energie rinnovabili e alle nuove professioni connesse con la crescita di questo settore,all’estensione del lavoro d’uso, cioè  alla” produzione di  beni e servizi direttamente da parte dei beneficiari”, alla valorizzazione del valore d’uso familiare e quindi anche alla rivalutazione della manualità, alle banche del tempo, alla comunità come antidoto dell’esclusione ( con  l’esperienza delle Transition towns), ai distretti dell’economia solidale, all’uso delle monete alternative locali e così via.

In conclusione Gesualdi e Ferrara ricordano che “la critica e la descrizione di scenari futuri non devono mai essere tali da indurre eccessivo spavento e senso di impotenza (..), dobbiamo attivare una comunicazione che insista su ciò che non va quanto basta  per convincere che (..) possiamo cambiare. (..) Nell’immaginario collettivo questi concetti (sobrietà e decrescita) evocano scenari di sofferenza (..) ma la società del bene comune non è contrizione” quindi “ Se vogliamo coinvolgere la gente, è da questi temi che dobbiamo partire, presentandoci come difensori dei diritti, come movimento capace di integrare denuncia e proposta, ( ..) critica e sperimentazione, piccole riforme immediate e grandi orizzonti lontani.”

UNA NOTA DELLA “BOTTEGA”

care e cari, una precisazione sull’editrice Arianna. Ogni volta che qui in “bottega” si parla di loro – anche perché innegabilmente pubblicano bei libri – ci sembra doveroso far sapere che la casa editrice spesso ha dato e dà spazio alla destra francese, a presunti rossobruni che teorizzano alleanze fra destra e sinistra, a inverosimili complotti gender. Robaccia insomma. Se volete saperne di più vi segnalo questo vecchio post su «Carmilla» on line: < http://www.carmillaonline.com/2010/07/21/i-rosso-bruni-vesti-nuove-per/>.  La discussione resta aperta su tutto ma il nostro antifascismo non è in discussione. (db)

 

Redazione
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