«La stretta di mano del Führer»

Un racconto di Diego Rossi per aprire una (possibile) serie di racconti contro le guerre del presente/futuro. A seguire una nota della “bottega”.

 

Chi ha coraggio e fiducia nel futuro

non perderà mai la speranza.”

Anna Frank, 1929-1945.

La mattina era iniziata male, mi sentivo nervoso, proprio come ci si sente dopo una falsa partenza dei cento. Mi chiamo Luz Long, abito nella città virtuale di Berlino 2 e frequento l’ultimo anno del liceo Adolf Hitler. Arrivato a scuola, una scritta lampeggiava sulla bacheca dei richiami, in mezzo a due enormi bandiere con la svastica:

«LO STUDENTE LUZ LONG È ATTESO IMMEDIATAMENTE

NELL’UFFICIO DEL PRESIDE.»

Mi ero fermato nel momento in cui stavo entrando in classe. Alcuni dei miei compagni mi prendevano in giro, credendo di non essere visti. La voce nell’altoparlante ricordava che il preside mi cercava. Ho fatto un mezzo giro su me stesso, prendendo la direzione degli uffici. Ho alzato le braccia e chiuso i pugni, come fa un campione di pugilato che si prepara a salire sul ring. Voltandomi ho cercato gli occhi di Agnes. Agnes è la ragazza nuova, ha scosso la testa e, muovendo le labbra, ha disegnato nell’aria la parola “scemo”. Il mio avatar deve essere arrossito fino alla punta delle orecchie.

Sono un C.B., un cosmo boy, cioè un ragazzo nato nello spazio e, crescendo, mi sono convinto che viaggiare su una nave interstellare per la rifondazione ariana equivale a vivere in prigione. Il preside Richard Gaart è il carceriere del nostro liceo. Frequento l’ultimo anno e non vedo l’ora di arrivare al diploma. Salendo le scale per la presidenza mi chiedevo se la cella che mi aspettava all’università sarebbe stata abbastanza grande da assomigliare un po’ di più alla libertà. 

***

Il preside Gaart era seduto dietro la scrivania del suo ufficio. Sullo scrittoio il contatore di unità astronomiche indicava la distanza che mancava per arrivare a Canopo. Affissa sul muro alle sue spalle, vedevo la cartina di Berlino 2, la nostra città virtuale, e subito dopo un poster del Ku Klux Klan.

«Long, vorrei che tu capissi la gravità della situazione…»

Gaart da giovane era stato un pugile e io ero salito sul suo ring. Tamburellava con le dita sul touch screen. 

«Non capisco, signor Gaart, non so a cosa lei si stia riferendo.» 

Il preside Gaart aveva sgranato gli occhi. Aveva poco più di cinquant’anni, i capelli brizzolati, il viso lungo e stava per mettersi a urlare. 

«Ascolta Long, se non vuoi essere espulso, ti conviene parlare. Capito?» 

Non c’è nulla che possa irritare un dirigente scolastico più di una faccia di bronzo.

«Preside Gaart, mi scusi, non ho davvero capito perché sono qui.» 

Il preside Gaart diede un pugno sulla scrivania e si alzò.

«Long, sei qui perché credo che tu sia coinvolto in un’organizzazione criminale. Stai diffondendo idee sovversive che mettono in discussione la superiorità della razza bianca. Ora pensi che la memoria ti sia tornata?» 

«Oh… I messaggi dei mimi. I mimi non sono uomini bianchi, non hanno accesso alla città virtuale…» 

«Vogliamo smetterla con questa buffonata?»

«E lei pensa che io ne faccia parte?» 

«Ho ragione di credere che tu sia il responsabile dei disordini della scorsa settimana. Abbiamo delle prove.»

«Potrei vederle?»

Secondo il preside Gaart adesso avrei dovuto cedere. Si avvicinava il momento del mio KO. Le immagini sullo schermo mostravano delle scene in cui molti ragazzi della scuola correvano nei corridoi, e davanti a tutti c’ero io.

I messaggi dei mimi comparivano all’improvviso nei luoghi più comuni: su un muro del cortile, su un armadietto in palestra o sul soffitto. Bucavano il firewall della realtà virtuale e duravano trenta o quaranta secondi, prima di essere intercettati e svanire. Noi studenti facevamo a gara, correvamo sul posto il più velocemente possibile per vedere chi riusciva a leggerli per primo, e poi aspettavamo che fossero cancellati dalla sicurezza. 

«Sappiamo che raccogli tutte le frasi su un tuo quaderno… Non ti sembra abbastanza?» 

A quel punto il preside Gaart pensava di avermi stordito e che fosse vicino il colpo per mandarmi al tappeto. Si era nuovamente seduto, sotto la cartina di Berlino 2 e la croce ardente del KKK, accarezzava il contatore di unità astronomiche davanti a lui. 

Arrivò invece la mia risata a confondere ogni sua certezza. 

«Io corro, sono un atleta signor Gaart, e voglio vincere. Lo ha dimenticato?» 

«Ma…» 

«Il gioco dei messaggi per me è una gara: una sfida con me stesso per vedere se corro abbastanza veloce per leggerli.» 

«E il quaderno?» 

Indicai il trofeo che conservava in una teca di vetro. Un uomo dorato aveva i pugni alzati in segno di vittoria. 

«Sono le mie medaglie. Non passo il tempo leggendoli in pubblico o altro.» 

L’espressione del preside Gaart era mutata. Il suo sguardo appariva incerto. Era il mio momento. 

«Signor Gaart, in tutta onestà credo che dovrebbe chiamare la Polizia.» 

«Come… Tu vuoi che io chiami la Polizia?»

«Vede, preside Gaart, lei può fare il duro con me, ma la verità è che io voglio solo correre, e se lei non è capace di tenere la scuola pulita da quei messaggi io non posso proprio farci niente…» 

Seguì un lungo momento di silenzio. Pensavo a mia madre e ricordavo quello che mi aveva fatto giurare: di guardare sempre negli occhi i bastardi. 

«Puoi tornare in classe Long. E cerca di vincere, domani.» 

«Sì, grazie, preside Gaart.» 

Risposi, cercando di mostrare un’espressione indifferente.

***

Agnes indossava la tuta da ginnastica e mi sorrideva con un filo di curiosità nello sguardo. Mi aveva raggiunto sulla pista di atletica alla fine dell’allenamento della squadra maschile. Gli altri ragazzi si erano già diretti verso lo spogliatoio quando lei era arrivata. 

«Com’è andata da Gaart?» 

«È andata…» 

«Ti senti bene?»

«Ho ancora voglia di correre…» 

«Domani hai la finale dei cento?» 

«Sì.» 

«Ci sarà tutta Berlino allo stadio, potresti evitare i corsi oggi.»  

«Penso che resterò ancora un po’ qui.» 

«Ti va di insegnarmi le basi?»

«Certo. Fammi vedere cosa sai fare.» 

Agnes aveva iniziato con qualche esercizio di riscaldamento e alcune accelerazioni, poi aveva preso posizione sui blocchi. Aveva contato da tre a uno ed era partita di slancio. A metà aveva il viso contratto dallo sforzo.  Pochi passi dopo Agnes si era fermata ansimando, cercava l’aria con respiri profondi. Una certa forma di abbattimento e di resa lampeggiava nel suo sguardo. 

«Non fa per me… non riesco nemmeno a finire. Ma tu come fai ad andare così veloce?» 

«Molti pensano che sia una corsa da affrontare con rabbia, ma ti assicuro che ogni frazione di secondo è importante, e la cosa più importante di tutte è la partenza…» 

«Fammi vedere.» 

«Ecco, devi partire bassa, e poi alzarti gradualmente verso l’alto, come se stessi decollando.» 

«E poi?» 

«Per scendere sotto i dieci secondi devo compiere sessanta passi perfetti. Non posso rallentare né perdere il ritmo. I cento sono una corsa che non ammette errori.» 

«Non ti sembra tutto così assurdo?» 

«Cosa?» 

«La storia dei messaggi.» 

Avevo alzato le spalle:

«Io non c’entro, poi non credo a quei delitti… i ragazzi delle altre scuole.»

«Dicono che chi legge un intero messaggio resta ucciso. Tu li hai letti?» 

«Alcune frasi…» 

«Non hai paura di morire?»

«Ho molta più paura di vivere così.» 

«Così come?» 

«In prigione. Tutta la storia del Lebensraum, di cercare un nuovo spazio vitale su un pianeta migliore. Il viaggio verso Canopo, lontana centinaia di anni luce e noi che non possiamo leggere alcuni messaggi o libri.» 

«Ricordi ancora qualcosa di quando eri dall’altra parte?» 

«Ogni tanto ho un ricordo vago. Quello della carezza di una mano gentile…» 

«Un mimo?» 

«Penso di sì.» 

«Dicono che i mimi non siano persone come gli altri, perché non sono bianchi. Luz, tu cosa pensi?» 

«Non lo so, penso solo che ci sono libri segreti, storie che non vogliono raccontarci… “Abbiamo rubato a Dio il segreto della vita, abbiamo rallentato la corsa delle particelle in un atomo e superato la velocità della luce. I nostri corpi dormono mentre noi viviamo in una realtà virtuale, ma…”»

«E poi?» 

«Non so come finisce. Ho potuto leggere solo fino a qui, il resto è stato cancellato…»

Agnes annuiva, appariva emozionata e nervosa. La sentì completare la frase:

«“…Ma il tesoro più prezioso di questa nave sono gli esseri umani. Tutti gli esseri umani.”»

Ero sorpreso. Mi trovavo davanti a un punto di svolta della mia vita. 

«Sono qui per rivelarti un segreto.» 

«Segreto? Quale segreto? Tu sei… Tu conosci i mimi?» 

«Mi manda tua madre.» 

«Ma mia madre è morta!» 

«No, è viva, si trova solo in un altro posto… più reale di questo.» 

Le avevo afferrato le spalle con forza.

«Agnes, cosa stai dicendo! Mi fai male così. Spiegati meglio!» 

Agnes mi guardava e i suoi occhi esprimevano queste parole: Mi dispiace di essere qui come un’intrusa. Mi dispiace di essere arrivata per dirti la verità e che tu sappia da me che questo sogno è soltanto un terribile inganno.  

***

Agnes e io avevamo iniziato una lunga passeggiata. Per non essere tracciati dai sistemi di sicurezza avevamo evitato i teletrasporti, che ci avrebbero consentito di spostarci istantaneamente nella città virtuale. Avevamo superato il ponte, passando dalla geometria delle strade e delle costruzioni in tipico stile tedesco fino alla porta degli elefanti. Eravamo arrivati nella piazza del giardino zoologico poco dopo mezzanotte. Il cancello principale era chiuso. Le due colonne con alla base le statue degli elefanti invitavano ad alzare lo sguardo fino all’arcata dell’ingresso. La porta dello zoo disorientava, era stata ricostruita digitalmente in ogni dettaglio proprio come nell’originale sulla Terra. Il colore rosso risaltava sullo sfondo degli edifici grigi e sembrava proprio di stare in India. 

«Rivedrai tua madre, Luz. Qui c’è il passaggio che ti consentirà di uscire da Berlino 2.»

«Allo zoo?» 

«È uno dei luoghi meno sorvegliati. Abbiamo potuto creare una falla nel sistema, che ci consente di entrare e di uscire.» 

Pensare alla mia vita come a un lungo sonno freddo non era facile. Ma sapere che mia madre era dall’altra parte mi dava coraggio. Non mi importava più della gara dei cento, della scuola, del preside, della legge… volevo conoscere solo la verità. 

«Luz, dentro Berlino 2 valgono le stesse leggi fisiche del mondo reale. Ogni granello di sabbia e ogni molecola d’aria si comporta allo stesso modo di quelle reali, eppure non esiste veramente…» 

«Oh.» 

«…Solo che qui hanno cercato di tornare indietro nel tempo. Gli oggetti, gli edifici, gli abiti anche se moderni sono ispirati alla grandezza del Terzo Reich. È tutta un’illusione, mentre stai viaggiando addormentato nello spazio.» 

C’era umidità nell’aria e, superata la piazza principale, restavano pochi lampioni a illuminare il muro di recinzione dello zoo. 

«Siamo lontani?»

«Qui va bene!»

«Tu non vieni?» 

«No, io mi fermo qui.» 

«Vado allora, ma prima volevo dirti grazie, e che non mi importa più della finale di domani.»

«No, devi correre domani, e devi vincere.» 

«Ma come farò? Mancano poche ore alla gara.» 

«Non preoccuparti, scoprirai che il tempo fuori scorre in modo diverso. Un mese lì equivale a pochi minuti qui. Ora vai, usa i mattoni per arrampicarti sull’albero, scavalca il muro e ti troverai nella gabbia del puma. Fai tutto come ti ho detto.»

«Non ho mai visto un puma da vicino. Mi sembra tutto così assurdo!» 

«È lui la breccia. L’accesso è nei suoi occhi. Ricorda cosa ti ho detto. Non indietreggiare, ma affrontalo.»

«Ti rivedrò?» 

«È tardi. Ora vai!»

Il grosso ramo dell’albero si allungava fin dentro lo zoo. Con un salto lo abbrancai e, superando il muro, mi trovai appeso nel buio, perché la luce dei lampioni non arrivava all’interno. «Quanto sarà alto?» pensavo, ma poi mi lasciai andare. Atterrai su qualcosa di morbido, era paglia. Non vedevo nulla. Dovevo seguire una sequenza precisa per aprire il passaggio, ogni mio gesto corrispondeva alla password che avrebbe violato la realtà virtuale. Cercai nella tasca la torcia e, facendo luce, all’improvviso lo vidi davanti a me. Certo la Polizia non avrebbe mai cercato lì un passaggio segreto. «Il puma è solo una porta, non può fare paura» mi ero ripetuto. 

Il puma era così vicino che avrei potuto contare le vibrisse. Si contraevano.

Stavo per urlare, lo avrei fatto se solo mi fosse rimasta un po’ di aria in gola. Era grosso e muscoloso, sembrava sul punto di azzannarmi al collo. Mi fissò, lo ricambiai. Occhi dorati contro occhi azzurri, un duello di sguardi che si svolgeva a pochi metri di distanza. Lentamente alzai entrambe le mani, tenendo sempre la torcia puntata su di lui. Il puma non batté ciglio.

Iniziai a recitare uno dei messaggi: «Dove brilla il coraggio non scende mai la notte…» e sentii come se un foro si stesse allargando in una delle sue pupille rovesciate.

Il puma balzò verso di me e mi sembrò di morire.

***

Forse è viaggiare nell’immensità dello spazio che costringe a essere impazienti. Invece, per me, “correre” ha sempre significato trovare la calma nel movimento. Spingere il mio corpo alla massima velocità, senza pensare troppo al traguardo, ma sentirsi in un altro luogo, in pace.

Mi sono svegliato e ho incontrato i mimi. I mimi hanno il viso coperto da un drappo, indossano occhiali scuri con lenti circolari, incastonate nel tessuto che li rende indistinguibili l’uno dall’altro. Non sono molto alti, hanno una corporatura esile, fluttuano nel vuoto e non sembravano più nemmeno uomini, abituati da generazioni all’assenza di gravità. 

«Da dove venite?» 

«Mille generazioni fa dall’India.»

I mimi si occupano della nave spaziale. Non hanno il diritto di scendere sul nuovo pianeta del Reich. Per i mimi non esistono vasche del sonno freddo. Le vasche sono riservate solo ai bianchi. Nelle vasche si entra in letargo, ci consentono di rallentare il nostro ritmo biologico e di far parte di un’illusione mentre la nave è in viaggio verso la stella di Canopo. Per un mimo che volesse violare i firewall, ogni giorno passato nella città virtuale equivarrebbe a un anno di vita reale.

Ho vissuto per un mese con loro, e quando sono rientrato a Berlino 2 erano trascorsi solo pochi minuti. 

All’inizio non ero ben disposto a fidarmi, chi lo avrebbe fatto?

I mimi mi hanno portato davanti a una capsula che era ornata di ghirlande e di fiori coltivati nelle serre. Le idee di mia madre erano sempre state lontane dalla cultura del Reich e della rifondazione ariana. Alla fine, è stata punita, eliminata dalla realtà virtuale, ma il suo corpo è tenuto in vita nelle vasche criogeniche. La sua coscienza intatta. 

Scrutavo sotto il vetro il corpo di una donna distesa.

Il suo viso mi era sconosciuto.

La donna dormiva.

L’avatar di mia madre era molto diverso da quello che ricordavo. I mimi mi hanno mostrato un video, e nel video ho osservato con attenzione la trasformazione dell’avatar della donna. Ho riconosciuto il suo modo di parlare e alla fine i lineamenti sono mutati, fino a svelare il viso di mia madre. La donna ha smesso di raccontare la sua storia per un istante e mi ha rivolto un sorriso pieno di malinconia. Mi ha spiegato che utilizzava due identità digitali, da una parte era la figlia del Führer, che viveva nel palazzo di Berlino 1 e dall’altra era una ragazza madre di Berlino 2.

All’inizio pensavo che fosse tutto un inganno. 

Mi stavano dicendo che ero il nipote del Führer, che lui non lo sapeva, che dovevo scegliere quale sarebbe stato il mio destino. 

In un modo che non saprei spiegare, mia madre era lì e non era lì. A un certo punto mi ha mostrato le scene della prima olimpiade trasmessa in mondovisione, organizzata nella Germania di Adolf Hitler, il primo Führer. Ai tempi di quella che chiamiamo “la grande Germania”. Il video in bianco e nero era molto rovinato. Alle prime sequenze sfocate si era affiancata una debole musica di sottofondo. Scorrevano scene che non avevo mai visto, ignoravo completamente un avvenimento tanto importante. Perché?

Una parata di atleti sfilava sotto la tribuna, la telecamera zoomava sulla svastica che era tenuta stretta tra gli artigli di un’aquila di cemento. Adolf Hitler, in uniforme, agitava le braccia, salutando la folla che cantava. È stato a questo punto che la voce di mia madre si è sovrapposta alle immagini sgranate che stavo vedendo, mi ha spiegato il motivo per cui mi chiamo Luz Long. Long era stato un buon atleta, e il suo nome è stato cancellato dalla nostra storia. Aveva partecipato alle olimpiadi del 1936, quelle che avrebbero dovuto dimostrare la superiorità della razza ariana, e si trovò di fronte Jesse Owens, un campione eccezionale.  Owens era di colore e nacque tra loro una grande amicizia a dispetto del Reich. Long lo aiutò a qualificarsi per le finali di salto in lungo dandogli dei suggerimenti che si erano rivelati molto utili. Questo provocò l’ira del Führer, che per vendetta mandò Long a morire in prima linea. Luz Long aveva conosciuto Jesse Owens e lo aveva visto conquistare quattro ori olimpici. Il Führer aveva fatto sapere che avrebbe stretto la mano a tutti i vincitori, con Owens non mantenne la promessa.

Bianchi, neri, uomini, mimi, campioni, avevo una gran confusione nella testa. Non sapevo nulla di questa storia, prima. Questa era una delle verità custodite nella biblioteca dei mimi.

Alla fine, ho chiesto cosa volessero e per me è arrivato il momento più difficile. Perché mi consideravano così importante? E loro hanno risposto che il mio talento per l’atletica poteva cambiare le cose, stava solo a me deciderlo. Era stata una sorpresa per tutti che fossi così veloce. 

Avevo due strade davanti. 

Potevo scegliere di uscire per sempre da Berlino 2.  Avrebbero risvegliato anche mia madre e avremmo passato la nostra vita con i mimi. Oppure potevo continuare a fare la cosa che mi riusciva meglio: correre, vincere, stringere la mano al nuovo Führer e mostrare la mia vera identità. 

«Perché?» avevo chiesto, «Perché? Proprio io?»

È stato allora che mi hanno dato uno specchio e ho capito tutto.

Ho deciso di correre e di vincere.

***

Sono uno studente iscritto all’ultimo anno del liceo Adolf Hitler. Sto per correre la finale dei cento metri, e lo stadio di Berlino 1 è gremito di spettatori. Lo speaker annuncia il mio nome e alzo le braccia, una folla di nazisti grida:

«LUZ LONG! LUZ LONG! LUZ LONG!» 

Mi sembra di riscrivere l’Olimpiade del 1936.

Durante il riscaldamento, provo a immaginare cosa possa aver pensato Owens mentre entrava nello stadio.

Stamattina ho chiesto ad Agnes:

«E tu?» 

«Ho perso il tempo e ora il tempo mi perde. Ore diventano minuti…»

«Chi lo ha detto?» 

«Shakespeare.» 

«Oh…» 

«Luz, io ho quasi novant’anni.» 

«Cosa?» 

«Un mese nella città virtuale e il tempo è volato.»

 «Ne è valsa la pena?»

«Sì, se vincerai, se lui ti stringerà la mano.» 

«E poi?» 

«Luz, lo hai detto tu, non bisogna avere paura di morire, ma di vivere così.» 

I cento metri sono la mia corsa, sento annodarsi dentro di me i fili dell’amicizia di Jesse Owens e di Luz Long.

Ricordo il sorriso di mia madre, mentre sciolgo i muscoli e mi avvicino ai blocchi di partenza.

Il viso che ho amato da bambino si confonde alle voci del pubblico. Un giorno, prima o poi, so che la abbraccerò di nuovo. 

Tra le migliaia di persone sulla tribuna davanti a me immagino che ci sia anche Jesse Owens. Oggi siamo di nuovo una cosa sola. Oggi il passo è lo stesso, come è la stessa la voglia di esserci. Un piede davanti all’altro, un respiro e poi un altro, un metro dopo l’altro. Lo sento, «Forza, dai. Non mollare ora! Dai Luz, ci siamo ormai!»

Gli spalti sono ricchi di suoni, di colori, di festa.

Oggi lo stadio è diverso, quasi non lo riconosco.

La mia mente torna al video in bianco e nero del 1936. Alle parole del commentatore che diceva: «Il Führer dà il benvenuto al mondo nella patria tedesca per l’apertura dei giochi olimpici del 1936…»

Rappresento per tutti la storia che hanno cercato di cancellare e che li ha seguiti oltre le stelle. 

Lo stadio intorno a me freme e poi all’improvviso cala il silenzio. Ecco il momento, il primo richiamo della partenza. Non posso sbagliare. Sessanta passi. 

Arriva il colpo di pistola. 

Corro i cento metri e il tempo intorno a me sembra dilatarsi, ogni secondo scorre più lentamente. Sì, proprio come accade con il sonno freddo. I nostri veri corpi dormono nelle capsule e noi ora siamo qui su una pista virtuale, ogni istante rompe la barriera delle ore. 

Penso che sia magnifico. Sono in una città virtuale, e sto vincendo su una pista nello spazio, mentre una nave viaggia a una velocità di poco superiore a quella della luce… io sono Luz Long, sono davvero libero quando corro e… vedo il traguardo… Ho vinto, sono primo. 

Ho voglia di piangere, ma mi trattengo. Saluto l’ovazione che parte da una curva e raggiunge l’altra, tutti si alzano in piedi e mi acclamano.

Cantano l’inno in coro, poi gridano:

«EIN VOLK, EIN REICH, EIN FÜHRER! (Un Popolo, un Reich, un Führer).» 

La corsa dei cento chiude la manifestazione sportiva. Il nuovo Führer in persona vuole stringermi la mano. Mi chiama sul palco della tribuna. Continuano i canti, il secondo e il terzo mi lasciano salire i gradini e applaudono. Salgo le scale. I coriandoli cadono e io sto per rivelare a tutti chi sono.

Faccio il saluto romano al Führer e lui mi ricambia con un movimento della testa, mi fa segno di avvicinarmi, prende la mia mano e la stringe forte. La stretta di mano che aveva promesso a tutte le medaglie d’oro del 1936 ora si realizza.

Grido a voce alta:

«SONO LUZ LONG, SONO IL NIPOTE DEL FÜHRER!» 

Svegliandomi dal sonno freddo, quando ero con i mimi, ho visto il mio viso reale, ed è quello che sto mostrando. Ho scoperto che non sono un ragazzo biondo, come avevo sempre creduto. Mia madre non era d’accordo con la politica di rifondazione ariana della sua famiglia e, quando era ancora sulla Terra, aveva trovato un modo molto originale di manifestarlo: l’amore.  

Prima che l‘Invincibile, la nostra nave spaziale, partisse avevo perso mio padre e, una volta nato, ho perso i miei nonni. Mia madre aveva condotto una doppia vita per me, per metà era stata la signora Long, per metà la figlia del Führer. 

Il mio avatar si schiude e il mio viso appare sul maxischermo. Avevo un segreto, quasi nessuno prima era a conoscenza che io sono nero.

Non sono mai stato un ragazzo bianco, ho la pelle scura e ne sono orgoglioso.

Leggo rabbia nello sguardo del Führer davanti a me, tiene ancora la mia mano, mentre i miei occhi da azzurri mutano in neri e intensi.

So che nella vita esistono molti inizi, creati dalla volontà, dal destino o dal caso. Questo per me è un nuovo inizio o, forse, la fine. Sono io il messaggio stavolta.

UNA BREVE NOTA DELLA “BOTTEGA”

Il racconto che Diego Rossi ci ha mandato usa la fantascienza come molte/i pensano vada fatto: una sorta di grimaldello per scardinare il presente. Così oggi, nei tempi sempre più cupi delle vecchie-nuove guerre, questa storia porebbe essere l’inizio di una serie, una sorta di antologia virtuale, che questa piccola “bottega” si offre di ospitare. Grazie a chi parteciperà … o anche solo leggerà. Le parole sono davvero poco nei momenti più drammatici eppure ogni volta riscopriamo che possono servire. Nell’oggi e nel futuro.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

6 commenti

  • gherardo costa

    grazie

    • Grazie a te, e grazie a tutti gli appassionati che stanno iniziando a rispondere… Seguiranno aggiornamenti. 🙂

  • Andrea ET Bernagozzi

    Grazie, racconto davvero coinvolgente. Complimenti!

    • Grazie a te Andrea, l’amicizia reale tra Luz Long e Jesse Owens, nata su una pista di atletica mi aveva colpito molto. Due campioni che non vogliono sopraffarsi, ma confrontarsi, e che vogliono solo fare un salto in avanti, vedere fin dove l’uomo può arrivare, se può migliorare, e questo è molto fantascientifico. Tutto mentre il mondo era agitato da intolleranza, violenza, esclusione…

      • Grazie, ho letto il racconto, molto interessante. Magari alla fine potresti mettere una nota esplicativa, per chi (come me) ignora questi fatti storici. Complimenti, comunque!

        • Grazie per l’apprezzamento e il consiglio. Non ho inserito note per lasciare sullo sfondo un pizzico di non detto. Comunque, sono legato a questo racconto per un motivo personale, abitavo e correvo a Cassino da ragazzo, proprio sulle strade che portano all’abbazia. Qui è dove Luz Long fu ferito dai bombardamenti prima di morire, e ho conosciuto la sua storia così. In Italia uno dei libri per ragazzi che racconta meglio l’amicizia tra lui e Owens è di Giuseppe Assandri.

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