La tortura nei luoghi di cura

Sugli abusi nelle strutture residenziali per disabili e sofferenti psichici,

di Assemblea Rete Antipsichiatrica

Questo testo affronta la violenza strutturale che regola la vita all’interno di moltissimi centri residenziali per persone con disabilitào fragilità psichica.
Si parte dai maltrattamenti avvenuti nella struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla Stella Maris, passando per gli abusi all’interno delle strutture della Cooperativa Dolce di Bologna, per arrivare agli orrori della Comunità Shalom, nel bresciano.
Una violenza capillare sostenuta quotidianamente dal silenzio di moltissimi “professionisti”, tecnici dei servizi, operatori, assistenti ed educatori.

Presso il tribunale di Pisa si sta tenendo un processo per i maltrattamenti avvenuti nella struttura per persone autistiche di Montalto di Fauglia, gestita dalla Fondazione Stella Maris. Una vicenda sepolta nel silenzio che ha trovato nell’ultimo anno il supporto e il sostegno del Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud.
In proposito, il consulente tecnico chiamato dalla procura a relazionare sui fatti ha scritto: “Leggendo gli atti del presente procedimento abbiamo rinvenuto sicuramente la menzione di una lunga tradizione di abusi e violenza da parte degli operatori, radicata negli anni, e in parte tollerata, in parte ignorata della direzione delle strutture”.
E ancora: “In queste situazioni si sviluppano degenerazioni in cui la violenza e la sopraffazione divengono gli strumenti usati ogni giorno, e l’istituzione perde le sue caratteristiche terapeutiche per divenire un luogo meramente coercitivo e afflittivo” facendo riferimento a condotte “tipiche delle istituzioni totali”.
Si parla di maltrattamenti fisici, verbali e trattamenti degradanti quotidiani. Spintoni, schiaffi, minacce e vessazioni costanti, talmente palesi da lasciar presumere abusi anche peggiori. Una violenza non episodica ma strutturale.

Delle diciassette persone coinvolte, il processo attualmente vede ancora imputati quindici tecnici e operatori, tra cui le due dottoresse che gestivano la struttura e il direttore sanitario della Stella Maris. Un operatore ha patteggiato la pena, mentre il direttore generale Roberto Cutajar, che ha scelto il rito abbreviato, è stato condannato a due anni e otto mesi, per essere infine assolto nel processo d’appello.
Tra gli ospiti della struttura ricordiamo Mattia, morto nel 2018 per soffocamento in seguito al blocco della glottide dovuto alla somministrazione prolungata ed eccessiva di psicofarmaci. I continui cambi di terapia avevano comportato disfunzionalità e rischi al momento dei pasti di cui la famiglia non era mai stata informata.
Il processo in primo grado si è chiuso senza attribuire nessuna responsabilità ai medici e al personale della struttura.

Non crediamo nella giustizia dei tribunali, sappiamo che nessuna sentenza metterà fine o scalfirà questa violenza. Lo stesso orrore di Montalto di Fauglia lo ritroviamo d’altronde in un’uccisione per contenzione avvenuta la notte del 27 agosto 2012 all’interno della struttura Casa Dolce di Casalecchio di Reno (in provincia di Bologna), gestita dalla cooperativa sociale Dolce.

Quella sera M., vent’anni, avrebbe voluto continuare a giocare con la Playstation ma le regole interne alla struttura non lo consentono. Gli operatori si impongono.
Il giovane non cede. Si apre uno scontro di potere che M. perde pagando con la vita. L’indagine del pubblico ministero si concentra su tre operatori sociosanitari della cooperativa, indagati per omicidio colposo. Secondo l’autopsia M. è morto per asfissia meccanica e soffocamento. Mentre due operatori lo tenevano, un terzo gli si sarebbe seduto sopra, all’altezza del torace.

Il processo dura quattro anni e si conclude per tutti con l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”. Viene sostenuta la legittimità della contenzione, la correttezza delle manovre effettuate, la loro corrispondenza ai “protocolli”. La rispettabilità pubblica della cooperativa Dolce, dei suoi dirigenti responsabili e di tutta la struttura ne esce indenne e niente all’interno della stessa viene messo in discussione.
La testimonianza che abbiamo raccolto di un operatore a tempo determinato assunto a Casa Dolce qualche anno dopo l’uccisione di M., racconta però il protrarsi di un’attitudine alla violenza verbale e al confronto fisico punitivo/violento da parte di molti operatori della residenza, accettato pressoché da tutta la struttura come “normale amministrazione”.

Di recente una nuova indagine ha visto coinvolta la cooperativa Dolce per quanto riguarda un’altra struttura in provincia di Bologna (Budrio), Villa Donini.
Si parla di botte e insulti ai danni di persone disabili, schiaffi in testa e umiliazioni.
Dodici operatori sociosanitari dipendenti della cooperativa sono stati interdetti dalla professione per un anno con l’accusa di maltrattamenti. Nonostante l’enormità dei fatti, sul territorio intorno a questa vicenda regna un silenzio sovrano.

Sempre a Bologna si parla ancora di maltrattamenti sistematici all’interno di una residenza psichiatrica: persone legate a terra con del nastro isolante, utilizzo punitivo della così detta “camera morbida” su ospiti ritenuti particolarmente “problematici”, rinchiusi anche per giorni, somministrazione di farmaci in dosaggi superiori rispetto a quanto prescritto.
Questa volta si tratta di una struttura socio-assistenziale per persone con disagio psichico, a Bazzano in Valsamoggia (Villa Angelica, gestita dalla cooperativa Altius).
A seguito della denuncia di un ex dipendente la struttura è stata chiusa e le persone trasferite in altre strutture. Sono state emesse sei misure cautelari nei confronti della direttrice e di altri cinque dipendenti, indagati a vario titolo per maltrattamenti e sequestro di persona. La direttrice si trova attualmente ai domiciliari, i cinque dipendenti della struttura hanno invece ricevuto un provvedimento di divieto di avvicinamento alle persone offese.

Anche quanto emerso all’interno della comunità Shalom, in provincia di Brescia, parla della stessa violenza.
Abusi sistematici, insulti, minacce, punizioni degradanti e inumane, privazione del sonno, isolamento e crudeltà come metodo. Una presunta “comunità terapeutica” che non cura le persone: le maltratta, le umilia, le sradica dalla propria umanità.
Dove gli “educatori” vengono spesso individuati tra le persone che in precedenza hanno subito lo stesso trattamento, selezionati senza alcun tipo di formazione per dare continuità ai metodi repressivi, avvilenti e degradanti, pratiche che ancora oggi caratterizzano la comunità.
Negli anni più volte la struttura è stata additata per situazioni di tortura ben lontane da episodi sporadici o accidentali. Un’ampia organizzazione che fa mostra di sé per la presunta accoglienza incondizionata, ma che vive di metodi distanti anni luce dall’offrire cura e sostegno a ragazzi e ragazze che vivono periodi di fragilità.
Al di là della bella facciata che mostra all’ingresso, Shalom è disfacimento, afflizione e miseria.

Sebbene questa vicenda abbia avuto grande impatto a livello mediatico, il sensazionalismo legato al marketing dell’informazione ha già pressoché rimosso quanto avvenuto e le sue implicazioni. Non accettiamo la retorica della “comunità degli orrori” e della “mela marcia”: la comunità Shalom è conosciuta e attiva da lungo tempo nel bresciano e trattamenti inumani e degradanti non sono stati affatto un’eccezione al suo interno, come del resto in moltissime altre strutture.

Privato accreditato, grandi cooperative, fondazioni; enti che muovono molti soldi e che spesso esercitano anche una certa influenza nei rispettivi territori: la Stella Maris per esempio è considerata un’eccellenza a livello nazionale, riceve abbondanti finanziamenti e onorificenze dalla regione Toscana, la cooperativa Dolce è una mega cooperativa che gode di ampio appoggio e gestisce moltissimi servizi nel bolognese, la Shalom è sempre stata sostenuta da personaggi di rilievo.

Questi racconti mettono sotto gli occhi di tutti i dispositivi coercitivi/degradanti insiti in questa tipologia di strutture, dove le persone, ridotte a oggetti, diventano il bersaglio di violenze e sopraffazioni quotidiane. Luoghi dove la contenzione fisica e farmacologica è consuetudine e dove le prepotenze sono ordinarie e strutturali.

Riteniamo sia importante non spegnere i riflettori su una violenza così estesa, capillare, non episodica, accettata e sostenuta quotidianamente dal silenzio di moltissimi “professionisti”, tecnici e operatori, assistenti ed educatori.
Ci piacerebbe anzi partire da qui, dall’omertà che sorregge questi abusi, che non sono episodi, ma più spesso la prassi che regola queste strutture.

Assemblea Rete Antipsichiatrica
https://assembleareteantipsichiatrica.noblogs.org/
Per condividere esperienze e riflessioni:
assembleaantipsichiatrica@inventati.org
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alexik

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