La tragedia del Vajont, cinquant’anni dopo

 

di Mauro Antonio Miglieruolo

Prima del disatro

Prima del disatro

Avrei dovuto scriverlo io il pezzo sul Vajont, mio dovere morale in quanto testimone indiretto della tragedia. I molteplici problemi degli ultimi tempi, tra cui il pessimo funzionamento della connessione Wind, ci sono volute settimane per venirne a capo, mi hanno impedito di prendere in esame la possibilità. Lo faccio ora, a tempo scaduto, per rievocare un momento della mia vita, i due anni e un mese trascorsi nel Veneto, vissuti troppo distrattamente per apprezzarne l’irripetibile contenuto.
Ero a Belluno in quell’ormai lontano 9 ottobre 1963; vi ero arrivato il 30 luglio dello stesso anno per prendere servizio presso la locale sede INPS il primo agosto. Immaginate: un uomo di ventunanni, completamente ignaro del mondo, di come disputare con lui senza soccombere, un giovanottino rimasto emotivamente legato alla sua terra e al suo paese, Grotteria, che aveva lasciato, ma solo fisicamente, a dieci anni; ed era ancora pieno di illusioni sulla realtà umano sociale, sui rapporti interpersonali che, secondo lui, nonostante undici anni di delusioni, avrebbero ancora dovuto essere fondati sul rispetto e sull’umana solidarietà; e da quest’uomo si pretendeva affrontasse un ambiente pregiudizialmente ostile, quale quello del primo approccio (parlerò anche del secondo, che fu splendido)? Un ambiente che definiva terroni anche quelli “sotto la stretta di Quero”, paese ancora in provincia di Belluno! È vero che lo dicevano ridendo, ridendo dell’esagerazione, in un apprezzabilissimo rigurgito di autoironia, ma lo dicevano. La civiltà, nell’opinione diffusa, terminava a sud del Veneto.
Cosicché, nonostante la esplicita cordialità, che nella mia esperienza ho verificato essere cordialità vera e non falsa, come falsamente si sostiene, esistevano difficoltà non indifferenti per superare la barriera di riservatezza con la quale le persone nate sul posto si difendevano dai un po’ misteriosi invasori che venivano dal Sud (la Lega Nord essendo già in gestazione). Mentre di converso nessuno di noi, non solo io, era adeguatamente attrezzato, nonostante fossimo tutti acculturati, o forse proprio per questo, a tentare con serietà l’impresa di riuscire a armonizzarsi con l’ambiente; manifestando al posto di quella sorta di contro diffidenza di ritorsione che sotterraneamente praticavamo (il peccato unico del quale non mi macchiai), una aperta volontà di amicizia e di reciproca comprensione, esponendoci nel nostro bisogno e nella nostra volontà di bene operare.
I bellunesi allora si frequentavano tra loro e i “romani” (termine che accomunava i romani di Roma e non, romani della Sicilia, delle Puglie, calabresi e napoletani: definiti tali probabilmente perché mandati lì da Roma, la Roma Ministeriale che stava gradualmente deturpando l’Urbe e, insieme all’Urbe, l’Italia tutta); i romani pure, non immaginando altra possibile scelta (1).

Dopo il disastro

Dopo il disastro

Le condizioni erano quelle, almeno all’inizio le accettai. Accettai di inserirmi non nell’ambiente scelto da me, ma in quello imposto dalle circostanze. L’ambito unico ambito nel quale potevo essere accettato, quello dei provenienti dal centro sud. Il che comportava per me fare lo stesso che facevano tutti gli altri immigrati. Avere gli stessi svaghi e le medesime abitudini. Tra le quali la principale era trascorrere le sere presso un bar (in via del Piave? Perdonate, troppi decenni sono trascorsi) gestito da 4 sorelle delle quali Miranda era la più attraente e vivace, ragazza dalla battuta pronta e dispettosa: una vera peste (già allora, e il sospetto permane, immaginai che su quella ragazza, presentendola, Goldoni avesse subdorato e costruito il personaggio di Mirandolina e insieme a Mirandolina una fama di commediografo imperitura).
Se talvolta riuscivo a sottrarmi all’incombenza di tirare avanti senza far nulla insieme a loro, dentro quel vuoto di prospettive che soffrivo senza saperlo, quella brutta sera mi fu impossibile. Alla TV davano la partita di Coppa dei Campioni Real Madrid-Glasgow, che il Real vincerà per 6 a 0. Non potevo sottrarmi.
La partita iniziò regolarmente alle 21.30, potemmo godercela, ma alle 22 e 39, con il Real già in solido vantaggio, venne a mancare improvvisamente la luce. Inutile, oltre che ingeneroso, rievocare le esclamazioni di rammarico: noi non sapevamo che la corrente tardava a tornare perché la gente stava morendo. Che anzi ne era morta già tantissima.
Uscendo dal locale qualche sconsiderato propose, poiché eravamo vicini, di farci una passeggiata fino al Piave. Accampai che ero stanco (effettivamente lo ero) e che avevo solo voglia di andare a letto. Poi con quel buio, a vedere cosa? L’obiezione fortunatamente trovava vasti consensi e a quel punto il gruppo si disperdeva, ognuno convogliandosi alla propria abitazione (camere in affitto da privati o in albergo). Sapemmo poi che un anziano signore meno saggio di noi, o meno fortunato, che aveva avuto la stessa idea era stato travolto dalla sopravvenuta ondata di piena.
Il giorno seguente, andando verso il centro, notai un andirivieni di camion imbrattati di fango. Saprò che (chissà se è vero) trasportavano cadaveri. Le migliaia di vittime della SADE, principale responsabile del disastro. Insieme a quella e altre notizie, venni a sapere che il verificarsi del disastroso evento aveva sorpreso ben pochi. A cose fatte sembrò tutti sapessero (2). Sapessero dei pericoli rappresentati dal monte Toc (il monte franato nell’invaso artificiale), detto in quel modo perché scendeva giù a “toc” (a pezzi); e che parimenti il termine Vajont traesse origine dalla inclinazione della zona a andare giù, a franare (ma forse questa andar giù si riferiva all’acqua). Non sono un filologo, ignoro se quelle interpretazioni siano vere. So però che in età preistorica dallo stesso monte un’altra immane catastrofe aveva portato giù 200 milioni di tonnellate di terra e di roccia (sembra che quelli che hanno invaso la diga siano stimati in circa 270 milioni di tonnellate). So inoltre che molte voci si erano levate, prima, durante e dopo, alla fine dei lavori, per denunciare la pericolosità dell’opera, voci inascoltate (lo stesso che oggi per la Val di Susa, che rischia un nuovo disastro ambientale e il paese tutto l’ennesimo immane spreco di soldi); so delle battaglie di controinformazione condotte dalla compagna Tina Merlin e del silenzio che le ha circondate; so che gli alberi sul versante del Toc si muovevano, ma i responsabili hanno fatto finta di nulla (fino all’ultimo, quando già era troppo tardi); so che nemmeno è stato tentato di sgomberare i paesi che poi saranno coinvolti (non bisogna procurare allarme nei cittadini: li si può uccidere, non turbare!), Longarone, Erto, Frasseno, San Martino, Casso, San Martino ecc.; so anche che nel 2008 l’ONU, elencando i primi cinque grandi disastri ambientali, ha posto quello del Vajont al primo posto. E so della folle gestione dell’emergenza, quando il pericolo era ormai profilato e non era più possibile ignorarlo, la montagna dava palesi segni di cedimento. Sembra sia stato lo stesso tentativo di scongiurarlo con lo svuotamento del lago che, sottraendo alla frana l’effetto di stabilizzazione determinato dalla base liquida, abbia in effetti provocato la frana. O accorciato i tempi della discesa.

L'enorme frattura apparsa lungo le pendici del monte Toc nel 1960. È da quello stesso punto che tre anni dopo vi sarà il distacco della frana.

L’enorme frattura apparsa lungo le pendici del monte Toc nel 1960. È da quello stesso punto che tre anni dopo vi sarà il distacco della frana.

Dei colpevoli non si sa. Condanne, lievi, ci sono state. Ma i principali responsabili, al solito, sono riusciti a cavarsela. Non si sa neppure quanti siano stati esattamente i morti. Si dice 1910, ma qualcuno sostiene siano 1917. Troppi per poter essere ignorati. Dieci o venti cadaveri avrebbero potuto finire nel dimenticatoio, lo stesso in cui finiscono le migliaia di morti sul lavoro, morti a piccole dosi, uno, due, cinque, sette per volta, dopo qualche giorno o settimana non fanno più notizia (bisognerebbe però chiederne ai loro cari); ma le caratteristiche di questa tragedia, unita alla sua entità, impedisce anche a un paese di memoria corta come il nostro dimenticarsene.
Forse anche perché l’Europa ci sta preparando una catastrofe persino di maggiore entità, per cui i timori di questa seconda ci riportano alla prima. Si tratta di un’Europa avida e usuraia che,  basandosi sulle decisioni di politici felloni che hanno piegato il capo a questa pretesa, vuole da noi che dal prossimo anno 1914, in più delle aumentate torchiature, se ne aggiunga una consistente di 40 miliardi. Lo stesso l’anno successivo, per venti anni di seguito. Condizione impossibile da rispettare in qualsiasi circostanza (a meno di arrivare a realizzare una percentuale di crescita a due cifre, alla cinese, cosa doppiamente impossibile partendo da queste premesse). Siamo tutti destinati quindi a finire sommersi da questa ultima ed estrema manifestazione dell’alluvione liberista. Non un’alluvione ogni 50 anni: una l’anno.
A questo punto temo che, come è successo per gli abitanti di Longarone, nessun dio ci possa salvare.
A meno che i lavoratori, attanagliati dal pericolo, non si guardino bene intorno e riescano a scoprire la propria forza, si rendano conto che è possibile evocarla per mezzo dell’unità d’azione e decidano di utilizzarla per difendersi dai propri nemici. Allora, a quel punto, non ci sarà dio o demonio che ci possa fermare.
***
Nota 1: Otto o nove mesi più tardi scoprii una possibilità diversa, ruppi la barriera di diffidenza e presi a frequentare solo giovani bellunesi; ai quali mi affezionai tanto da conservarne il ricordo a 50 anni di distanza; i quali si affezionarono a me al punto da riunirsi, per festeggiare l’evento, nella stessa giornata del mio ritorno a Belluno, due anni dopo il trasferimento a Roma.
Inesorabilmente individuato non appena messo piede alla stazione, la sera stessa già godevo del loro calore, un calore umano praticato, quando gliene si offra l’occasione, anche da quelle parti, la felicità di esserci nuovamente ritrovati insieme.
Nota 2: Non sono qui a stigamatizzare quella bravissima gente, ma a segnalare la situazione di allora, la spoliticizzazione dei ceti medi, il disinteresse reale, o un interesse fatto solo di chiacchiericcio. Facemmo tutti poco, allora, per onorare quelle vittime ed io meno degli altri. Che non sapendo cosa dire mi limitai a ascoltare stupito, incapace di formulare un giudizio e di accompagnarlo almeno con qualche frase di insofferenza e costernazione. Ma ero quel che ero e non posso farmene una colpa. Posso però rilevare che proprio in ragione di quella passività, interrotta nel periodo che va dal 1967 al 1977, siamo nella disastrosa situazione di oggi.
Almeno di quegli avvenimenti me n’è rimasto il ricordo e posso trasmetterlo, per quel poco, alle potenziali vittime di oggi.

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