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La Bottega del Barbieri

La transizione che non c’è

di Ecor.Network

Dal 31 ottobre i rappresentanti di 196 Stati (più l’UE) firmatari della Convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sono riuniti a Glasgow per discutere di obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti già falliti e di una transizione energetica che non esiste.

La 26a Conferenza delle Parti (COP26) si configura fin dall’inizio come l’ennesima fiera dell’ipocrisia, a cominciare dagli sponsors selezionati dal governo del Regno Unito, il padrone di casa dell’evento.
Fra questi figurano multinazionali dell’energia, imprese della distribuzione del gas, monopoli del cibo, colossi della produzione industriale e della farmaceutica.
Vi troviamo l’Unilever, da anni inclusa da Greenpeace nella lista dei principali acquirenti di olio di palma proveniente da deforestazione, o il NatWest Group, segnalato dalla Campagna Fossil Banks per aver investito, dal 2016 al 2020, 13,39 milioni di $ nel fossile, dal Trans-Mountain Pipeline Project in Canada alla miniera di carbone Cerrejon in Colombia.
L’agenzia di giornalismo investigativo The Ferret ha stimato in circa 350milioni di tonnellate di CO2 equivalente le emissioni di gas serra, dirette e indirette, prodotte nel 2020 dagli sponsor della COP26 nel corso delle loro attività.
Un dato indicativo del livello di finzione che aleggia sulla Conferenza, e che non riguarda solo gli sponsors.

Pochi giorni fa una fuga di notizie ha rivelato ciò che si muove dietro le frasi di rito: 32.000 pressioni esercitate da governi, imprese e organizzazioni, per modificare il rapporto dell’International Panel on Climate Change (IPCC), l’organismo dell’ONU che raccoglie le evidenze scientifiche sui cambiamenti climatici.
Ne troviamo delle più varie. L’Arabia Saudita chiede agli scienziati delle Nazioni Unite di cancellare la loro conclusione secondo cui “l’obiettivo degli sforzi di decarbonizzazione nel settore dei sistemi energetici deve essere quello di passare rapidamente a fonti a zero emissioni di carbonio e di eliminare gradualmente i combustibili fossili”. Contestano la dichiarazione anche Argentina, Norvegia e OPEC. Dall’India si mette in discussione la possibilità di uscire dal carbone.
Brasile e Argentina si oppongono con forza alla richiesta di una riduzione del consumo globale di carne, che andrebbe a ledere le loro esportazioni e produzioni agroindustriali.
India, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia vorrebbero una valutazione positiva dell’energia nucleare, mentre Arabia Saudita, Australia, Cina e Giappone sostengono sia possibile continuare le emissioni di gas serra compensandole attraverso la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS), nonostante si tratti di un sistema già dimostratosi del tutto inefficace.

Le pressioni sull’IPCC sono lo specchio delle politiche reali dei paesi produttori di combustibili fossili, recentemente analizzate dallo Stockholm Environment Institute nel rapporto “The production Gap“, e messe a confronto con gli impegni enunciati dai rispettivi Stati per limitare il riscaldamento globale.
La discrepanza fra le previsioni di estrazione di petrolio, gas e carbone (linea rossa) e la riduzione necessaria per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C e 2 °C (linee blu e verde), è espressa chiaramente dal grafico che segue:

L’istituto svedese analizza gli investimenti pubblici sul fossile e le previsioni di estrazione in Cina, Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita, Indonesia, Australia, India, Canada, Emirati Arabi Uniti, Sud Africa, Brasile, Norvegia, Messico, Regno Unito, Germania. Quindici paesi che complessivamente hanno rappresentato nel 2019 il 77% delle emissioni di CO2 derivanti da combustibili fossili, e che continuano a sostenere l’estrazione attraverso agevolazioni fiscali, riduzione delle royalties, finanziamenti pubblici diretti, investimenti pubblici nelle infrastrutture di servizio (gasdotti, terminal portuali, ecc.), prestiti attraverso banche pubbliche, “alleggerimento” delle  normative di difesa ambientale.
Dal punto di vista della produzione globale, lo Stockholm Environment Institute delinea questo tipo di andamento:

In pratica, non si registra nessuna tendenza nei prossimi due decenni verso una diminuzione globale della produzione di combustibili fossili. Questo dato dal lato dell’offerta è del tutto coerente con le risultanze di un altro rapporto, che analizza le linee di tendenza dal lato della domanda.

Il World Oil Outlook è il documento di analisi dell’OPEC sugli sviluppi a medio termine dell’economia mondiale e sul relativo fabbisogno di energia.
L’ultima edizione, che aggiorna le previsioni al 2045, è stata pubblicata il 28 settembre scorso.
Si tratta ovviamente di un documento che ha anche carattere “promozionale”, redatto da chi i combustibili fossili è interessato a venderli e quotarli e ad attrarre capitali, con previsioni comunque da verificare nel tempo.
Ma sulla base di previsioni come queste si basano gli investimenti a lungo termine nelle infrastrutture, la programmazione dei flussi, le strategie delle multinazionali e le politiche degli Stati.

L’OPEC World Oil Outlook è di particolare interesse perché registra, fra l’altro, il graduale spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso oriente, e la conseguente perdita di peso e di egemonia delle economie del capitalismo occidentale.

Il rapporto prevede un aumento della domanda globale di energia da 275,4 mboe/d (milioni di barili di petrolio equivalenti per giorno) nel 2020 a 352 mboe/d nel 2045, nel contesto di una crescita demografica mondiale – da 7,79 miliardi di persone sul pianeta del 2020 a 9,48 miliardi nel 2045 – trainata da Africa, India e Medio Oriente.
Saranno i paesi non OECD a guidere la crescita economica, e la loro domanda andrà a costituire più del 70% della domanda primaria globale di energia a lungo termine. E’ li che si orienteranno i flussi.

Nonostante l’aumento del peso percentuale delle energie rinnovabili, l’OPEC prevede che il petrolio rimanga il combustibile con la quota maggiore del mix globale dell’energia al 2045, seguito dal gas in seconda posizione. Nelle previsioni cresce il nucleare, a dispetto dei disastri di Chernobyl e Fukushima,  mentre l’unica flessione è quella della domanda di carbone, su cui influiscono principalmente gli accordi per il clima.

In sostanza, ad esclusione del carbone, si prevede che la domanda di petrolio e gas (e quindi la relativa produzione ed emissione di gas climalteranti) crescerà in termini assoluti, e che le energie rinnovabili si andranno ad aggiungere, e non a sostituire, ai combustibili fossili.
Discorso estendibile alla mobilità elettrica, in nome della quale si sta massacrando il mondo a colpi di estrazione mineraria, anch’essa aggiuntiva e non sostitutiva del trasporto convenzionale.

Se questo è il quadro, non vi è alcuna prospettiva di poter mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C rispetto al periodo di riferimento (1850-1900), e di conseguenza contenere l’entità della catastrofe già in atto, che nelle previsioni descritte non viene nemmeno presa in considerazione.
E’ un quadro che rimanda anche a una serie di interrogativi, sulla capacità di incidenza dei movimenti per il clima in occidente, in un mondo dove le dinamiche principali da tempo hanno cominciato a svolgersi altrove.
Sulla capacità di costruire “resilienza dal basso” di fronte agli sconvolgimenti della natura dei territori, provocati dal disastro che viene e dal contemporaneo intensificarsi dell’aggressione del profitto e della competizione sulle risorse.
Ne ragioneremo ancora.
Per il momento, buona COP26, buona fiera dell’ipocrisia a tutt*.

Foto in apertura: “10/2/2013 Pollution” by barbourians is licensed under CC BY-SA 2.0 .

alexik

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