«La Vallée», un film da riscoprire

di Luca Cumbo

Barbet Schroeder è regista di film e documentari, nonché sceneggiatore, attore e produttore. Ai più è noto per le collaborazioni con i Pink Floyd, ma Schroeder è

 

ovviamente molto altro. Collaboratore in piena Nouvelle Vague di Jean Luc Godard, Jacques Rivette ed Eric Rohmer, ha diretto «More» (1969, con le musiche dei Pink Floyd), «Barfly» (1987), «Il mistero di Von Bulow» (1990) candidato all’Oscar come miglior regia nel 1991. In una vecchia intervista Schroeder racconta di aver pensato al soggetto di «La Vallée» nel 1969 durante le riprese di «More». Uno dei protagonisti del film, durante una scena, osserva un manifesto commentando: «Il cervello umano è come una mappa dell’Africa, in gran parte inesplorato, ed è in questi luoghi vuoti [della mappa] che le più alte funzioni della ragione e della creatività si svolgono». Da qui l’idea di fare un film sulla ricerca iniziatica di una valle sperduta e misteriosa, che rappresentasse in qualche modo le zone inesplorate della mente umana. Nel 1971, anno delle riprese del film, l’epopea hippy volge al termine, il Vietnam sta spazzando via una generazione intera, mentre il ’68 non ha appagato quel desiderio di rivoluzione che si riproporrà, con accresciuta crudezza, verso la fine degli anni ’70. E’ in questo contesto che molti hippies superstiti, un po’ ovunque in Europa e Usa, scelgono di abbandonare l’Occidente per andare in tutto il mondo alla ricerca di mete sperdute – e spesso improbabili – elette a paradisi iniziatici. «La Vallée» non è solo il racconto di questa fuga; è un autentico viaggio-ricerca personale dello stesso regista che, pur lucido e disincantato, ripropone ugualmente e con più forza i temi della liberazione sessuale, dell’uso rituale delle droghe come espansione della coscienza. Immersi nella foresta e imbottiti di allucinogeni è difficile non pensare a «Le Lettere dello Yage» di Allen Ginsberg e alle sue ruvide cosmogonie tribali come una delle fonti letterarie utilizzate da Barbet Schroeder.

Negli anni ’70 la cartina geografica della Nuova Guinea aveva ancora zone bianche (almeno per l’uomo occidentale) ed era anche uno degli ultimi luoghi dove era possibile incontrare tribù con stili di vita simili alle cosiddette “tribù preistoriche”. Per questo motivo Schroeder scelse di portare la troupe in quei luoghi ritrovandosi, assolutamente per caso, in mezzo a un raro raduno delle tribù da tutta la Nuova Guinea per una ricorrenza sacra. Nel film queste scene assolutamente autentiche sono inserite come parti integranti della trama, insieme a una serie di incontri totalmente improvvisati con le tribù locali (i Mapuga) così come sono improvvisati anche alcuni dialoghi fra gli attori che, figli del proprio tempo, sentivano il peso della Ricerca. Il metodo di lavoro di Schroeder era spesso partire da un improvvisazione per poi, eventualmente e non sempre, definire una struttura stabilita dalla scena. Per la fotografia Barbet Schroeder si avvale di Néstor Almendros (premio Oscar nel 1979 con «I giorni del cielo» di Terrence Malick), già collaboratore in «More» (1969) che va ricordato anche per le numerose e importanti collaborazioni con Francois Truffaut, Eric Rohmer e Martin Scorsese.

Sottovalutato dai critici musicali ma anche da molti appassionati, «Obscured by Clouds» (1972) – colonna sonora appositamente composta per il film di Schroeder – è fondamentale nella discografia dei Pink Floyd. L’intero lavoro musicale, che ha decisamente vita propria rispetto al film, è pervaso da un senso di struggente distacco e trasformazione, con lampi di luce improvvisi ma anche inquiete visioni crepuscolari. I testi dell’album raccontano di terre promesse svanite, patti non rispettati, ponti che bruciano, ed è lo stesso David Gilmour, chitarrista della band, con il brano «Childhood’s end» (cioè “fine della giovinezza”) a dire come stanno le cose: i Pink Floyd sono cresciuti, l’età psichedelica è finita, l’astronave interstellare che puntava fiduciosamente verso un luminoso cosmo infinito, sta diventando una poderosa arca spaziale che vaga in un universo inquieto fatto di lune oscure e macchine alienanti. «Obscured by Clouds» stravolge il suono dei Pink Floyd, abbandona senza alcuna pietà i celestiali mellotron e fa posto alle prime macchine elettroniche, come il leggendario sintetizzatore EMS VCS3 dalla inaudita potenza sonora, che si presentano subito sin dal primo brano dell’album (la title track) come a volere dettare subito quella nuova legge sonora che s’imporrà indiscussa con «The Dark Side Of The Moon» (1973) e «Wish You Were Here» (1975), per poi esplodere nella delirante e acida libidine cosmica di «Animals» (1977).

 

Luca

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