La vita non fa sconti

recensione a «E’ la vita dolcezza» di Gabriella Kuruvilla

L’unica volta («Matrimonio») che si affaccia un lieto fine ecco a sorpresa la seconda puntata («Neve») che lo smentisce. E’ assai difficile l’identità per chi migra come per le cosiddette seconde generazioni («Nero a metà»), con una sessualità fatta soprattutto di solitudine e rabbia («Dancehall») e l’incapacità di scegliere (come in «Sogno»). Meglio tacere in Italia: «ho imparato che in questa terra stare zitti è molto più conveniente che parlare». A volte (in «Aborto») la cattiveria verso l’io narrante è insopportabile: chissà se «questa ferita si rimarginerà, come le altre». Nelle pagine di «Stupro» non si vomita alcool o cibo ma «la vita». Forse «per non avere rimpianti non bisogna avere ricordi», forse «morire è meglio che regredire», forse Primavalle (quartiere periferico di Roma) è un pezzo di Sicilia, «ha lo stesso aspetto, sgarruppato e sfatto come se l’avessero messa in lavatrice con la centrifuga al massimo». Mentre «l’ipocrisia rende tutti contenti, è meglio dell’ecstasy» («Fratelli»). Molti soprattutto i destini segnati come in «Colf» («Inginocchiata davanti al mio stipino sfrego, sfrego, sfrego il più possibile») e in «E’ la vita dolcezza» che chiude l’antologia di Gabriella Kuruvilla e le dà il titolo.

Colpi di scena («Barbie») o no, nessun racconto delude. Ci riconosciamo nel «blu narcotizzante delle televisioni», siamo anche noi vittime potenziali della «violenza senza senso verso uomini e donne che hanno perduto un senso». Noi pure abbiamo imparato che felicità o amore si trovano sul dizionario, «anche se il loro significato ci sfugge». Indugiamo a volte nella pretesa che bisogna uccidere il passato per «ricominciare da capo, immaginare un futuro». O invece è il contrario? Cioè «voglio il tuo passato, quello che hai cancellato, per ancorarmi al presente, in cui non ci sei». Persino ci assale il dubbio più crudele, incivile: «che mischiare le razze è sbagliato, vuol dire dimenticarsi di chi eravamo e di chi siamo per creare uomini e donne senza storia lanciati come meteoriti impazziti, e scoloriti, nel futuro», che «un figlio meticcio è imporre la diversità, lo sgarro. E’ inquinare il passato in nome del futuro, non rispettare la terra perché si vuole il cielo»; o almeno così pensa lei «nera» che di lavoro scrive, sporca fogli cioè – socialmente inutile? – e sta con lui, «bianco, fa lo spazzastrade». Ce lo sbatte in faccia di nuovo, in un altro racconto: «splendide donne nere si intrecciano a insignificanti uomini bianchi, splendidi uomini neri si intrecciano a insignificanti donne bianche. E’ questo che intendete per integrazione razziale? A me sembra una forma meschina di discriminazione».

Non fa sconti Gabriella Kuruvilla, padre indiano e madre italiana, che sappiamo essere scrittrice e giornalista ma anche architetta e pittrice. «Nero a metà» è quasi il manifesto di una prossima, inevitabile rivolta. Spietata (in «Neve») anche sul recente passato, a ricordarci che «erano gli anni del femminismo e la donna andava sempre messa prima dell’uomo. Nelle parole. Perché nei fatti, come al solito, era tutta un’altra cosa». Ci guida per mano nei dolori insospettabili della domenica, «il non giorno» per gli immigrati. Basta una «g» – la differenza fra nera e negra – per renderci distanti, creare discriminazione. Certo «non si può essere sinceri con gli altri se si mente a se stessi». Dolorosamente veri questi racconti.

 

E’ LA VITA DOLCEZZA

di Gabriella Kuruvilla

Baldini Castaldi Dalai

pp. 160, euro 15

BREVE NOTA

Questa mia recensione è uscita, il 19 ottobre 2008, sul supplemento domenicale del quotidiano «Liberazione». (db)

 

Redazione
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