L’Afghanistan esiste ancora

articoli di Pasquale Pugliese, Danilo De Biasio, Maryam Jami, Arianna Egle Ventre, Alessandro Barba, Emergency, Amnesty International

Effetto farfalla. Un anno dopo la fuga da Kabul – Pasquale Pugliese

Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza

Tiziano Terzani

 

Quando il meteorologo Edward Lorenz – con la domanda “può il battito d’ali di una farfalla in Brasile generare un uragano in Texas?” – ipotizzò il principio che sarebbe diventato universalmente noto come “effetto farfalla”, forse non aveva del tutto chiaro che stava esprimendo un concetto che si applica a tutti i sistemi complessi, non solo – come ormai ci è drammaticamente chiaro – a quelli climatici. Ma anche, per esempio, al sistema delle relazioni internazionali tra gli Stati, nelle loro influenze reciproche, in particolare quando si pretende di esercitare – senza conseguenze e contraccolpi – politiche di potenza regionali o addirittura globali. Per questo, anche per comprendere pienamente alcune delle ragioni del ritorno della guerra aperta in Europa, con l’invasione russa del territorio ucraino, è necessario fare qualche passo indietro. Acquisire profondità e prospettiva, ossia complessità di visione, per sottrarsi al presentismo nel quale siamo immersi, nella bulimia del flusso informatico continuo dove notizia nuova scaccia notizia “vecchia”, in una sovrapposizione di istantanee semplificanti, nelle quali si perdono i nessi e le articolazioni. Cioè, precisamente, la capacità di comprendere pienamente ciò che accade qui ed ora.

20 anni di guerra in Afghanistan: per la rabbia e l’orgoglio o per lucida follia?

Quanto accaduto dal punto di vista mediatico a partire dal febbraio 2022, con l’improvvisa esplosione sui mezzi di comunicazione della guerra in Ucraina in riferimento all’aggressione russa, senza che negli otto anni precedenti fosse stato minimamente raccontato il conflitto armato in corso nella regione di confine tra Ucraina e Russa del Donbass, è sul piano comunicativo – mutatis mutandis – la riproposizione di quanto avvenuto solo alcuni mesi prima, nell’agosto del 2021, quando canali televisivi e piattaforme social sono stati inondati improvvisamente da drammatiche immagini e informazioni provenienti dall’Afghanistan, in riferimento alla ritirata statunitense ed occidentale dalla ventennale occupazione militare che non era stata raccontata negli anni precedenti, se non nei mesi iniziali. E, dunque, sostanzialmente rimossa dalla consapevolezza generale.

Per comprendere quanto accadde nei giorni della fuga da Kabul – e mettere a fuoco la cornice di quanto accade nei nostri – bisogna fare un flashback, un salto indietro di oltre venti anni, tra l’11 settembre e il 7 ottobre del 2001, quando si scatenò in Occidente la furia vendicatrice per l’attacco terroristico alle Twin Towers di New York che prevedeva per il presidente George Bush jr una guerra di occupazione contro uno Stato sovrano, in qualche modo riconducibile ai cosiddetti “nemici dell’Occidente”: la scelta cadde sull’Afghanistan, nonostante nessuno degli attentatori fosse cittadino afghano e il rifugio dove fu scovato e ucciso Osama Bin Laden, terrorista saudita che rivendicò quell’attentato, fu trovato dieci anni dopo nell’alleato Pakistan… Guerra alla quale – nonostante la contrarietà delle Nazioni Unite – i governi occidentali e la relativa stampa “libera” si accodarono, “senza se e senza ma”, guidati non dalla ragione e dalla saggezza ma da “la rabbia e l’orgoglio”, come il titolo di un famoso articolo sul Corriere della Sera – e poi del relativo libro – della giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, che ne sostenne e fomentò la crociata.

Furono ignorate, invece, tutte le voci ragionevoli e sagge contrarie alla guerra a cominciare da quella di Tiziano Terzani, il grande giornalista e scrittore che provò a rispondere così – profeticamente, direi – dalle stesse pagine del Corriere della Sera (che allora usava ospitare anche opinioni differenti), ad Oriana Fallaci ed a tutti i fondamentalisti della guerra:

“Quel che sta accadendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.”1

Fu ignorata anche la voce di Gino Strada, il fondatore di Emergency, che rispondeva così il 7 ottobre del 2001 da Kabul a Gianni Mura che lo intervistava telefonicamente per il quotidiano la Repubblica, sotto le bombe occidentali: “Senta, è da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei latini. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra”. Concetto che avrebbe ribadito venti anni dopo nel suo ultimo intervento su La Stampa dove, qualche giorno prima della morte2 – e pochi giorni prima della fuga statunitense da Kabul – ha fatto un tragico bilancio della ventennale occupazione:

“La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali. Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001”3

Furono ignorate anche le trecentomila persone che il 14 ottobre del 2001 marciarono da Perugia ad Assisi, sulle orme di Aldo Capitini, per manifestare il ripudio costituzionale della guerra; furono ignorate le cinquecentomila persone che manifestarono a Firenze il 9 novembre del 2002, anche contro l’ulteriore guerra di aggressione contro l’Iraq che già si stava preparando, con la costruzione delle false prove delle inesistenti “armi di distruzione di massa”; furono ignorate le tre milioni di persone che invasero pacificamente Roma il 16 febbraio del 2003, insieme a cento milioni di altre persone che manifestavano in tutte le capitali del pianeta, in quella che il New York Time definì “l’altra superpotenza mondiale”, contro entrambe le guerre che avrebbero funestato i primi due decenni del XXI secolo. E le cui conseguenze allungano le loro ombre sul presente e le allungheranno ancora sul futuro. Le tremende immagini di quei giorni delle persone cadute dagli aerei USA in fuga da Kabul ai quali si erano disperatamente aggrappate hanno simbolicamente chiuso – centinaia di migliaia di morti dopo – il girone infernale aperto con le persone che si gettavano disperatamente dalle Twin Towers per sfuggire alle fiamme. La follia di chi ha pensato che la guerra fosse il mezzo giusto per raggiungere il fine della giustizia è stato pari solo all’ignavia di tutti quelli che ci hanno creduto, alla debolezza di quelli che, evidentemente, non si sono opposti per tempo e abbastanza ed alla malafede di coloro che hanno giustificato e difeso quella fallacia logica, prima che morale.

Chi ha vinto e chi ha perso

Ma per comprendere fino in fondo come si è arrivati a quelle scene di fuga dell’agosto 2021, bisogna ulteriormente allargare lo sguardo sul rapporto degli Stati Uniti con i talebani che non cominciava ventuno anni fa con l’invasione armata dell’Afghanistan, bensì negli anni ’80 del secolo scorso quando il presidente Ronald Reagan incontrava ripetutamente allo “studio ovale” e finanziava abbondantemente i mujaheddin (i guerrieri santi) – compreso un certo Bin Laden, allora alleato – perché facessero la jihād (la guerra santa) contro la Repubblica Democratica dell’Afganistan, in funzione anti sovietica. Che questo avrebbe comportato la fine dell’emancipazione delle donne afghane, conquistata in quegli anni di governi filo-socialisti, era l’ultima delle preoccupazioni occidentali. Fino all’occupazione militare di quel martoriato paese nel 2001. Tutte le guerre del resto passano e si svolgono, anche, tragicamente sui corpi delle donne.

In quella guerra chiusa nell’agosto 2021, dunque, non hanno vinto gli statunitensi, che dopo vent’anni di occupazione militare e 2.300 miliardi di dollari bruciati sono tornati a casa lasciando il caos dietro di se. Non hanno vinto gli afghani, che hanno avuto centinaia di migliaia di vittime tra il terrorismo della guerra e la guerra del terrorismo e sono stati lasciati in balìa dei signori dell’oppio. Non hanno vinto i talebani, che hanno preso in mano il governo di un paese martoriato e devastato. Non hanno vinto le donne afghane, che erano state rigettate nel medioevo proprio da quelli che venti anni fa si erano imposti come “liberatori”, salvo abbandonarle al loro destino quando hanno deciso che era ora di andarsene. In Afghanistan hanno perso tutti, tranne coloro che nelle guerre vincono sempre: il complesso militare-industriale, quell’industria bellica che in vent’anni di guerra ha visto straordinariamente lievitare i propri profitti di morte, raddoppiandoli, e il proprio potere di influenza sulle decisioni dei governi.

Il fallimento della strategia bellica dichiarata e la nostra falsa coscienza

In quei giorni estivi di fuga si sviluppò sui quotidiani italiani, tra gli altri commenti più o meno “autorevoli”, anche un surreale confronto a distanza tra l’ex giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese4 e il politologo Gianfranco Pasquino5 sulla esportabilità o meno della democrazia, in riferimento al “fallimento della ventennale missione americana in Afghanistan” (Cassese), rispetto al quale c’erano almeno due punti deboli che hanno inficiato le rispettive argomentazioni, come spesso accade in questi casi, e che è utile riportare perché anticipano, per certi versi, questioni in ballo anche nella guerra in corso in Ucraina. Il primo punto debole è che si è trattato di un mero confronto accademico, seppur sviluppato sui quotidiani, senza alcun riferimento alla realtà concreta, perché – se in vent’anni non fosse stato sufficientemente chiaro – lo stesso presidente USA Joe Biden, con la franchezza che lo contraddistingue, si era incaricato nella conferenza stampa alla Casa Bianca del 17 agosto 2021 di chiarire definitivamente l’obiettivo della guerra afghana, annunciando l’imminente ritiro delle truppe di occupazione USA: “lo state-bulding non è mai stato l’obiettivo della nostra missione nel Paese, che era centrata su attività di anti-terrorismo e non sulla creazione di una democrazia”6. Il secondo punto debole è dato dall’assenza nel confronto di una riflessione sul rapporto tra mezzi e fini: il tema fondamentale di tutte le guerre, ossia – nello specifico della guerra in Afghanistan – non tanto la questione della legittimità o meno di esportare in astratto la democrazia e i suoi valori, ma se questo fine possa essere raggiunto attraverso il concretissimo e devastante mezzo della guerra. Era di questo che si trattava. Ed è di questo che, in fondo, si tratta ancora sui diversi scacchieri internazionali dove si confrontano per l’egemonia le superpotenze nucleari USA, Russia e Cina.

In verità, come hanno ulteriormente dimostrato anche gli attentati all’aeroporto di Kabul nei giorni della precipitosa smobilitazione statunitense, la guerra in Afghanistan non è stata efficace neanche nella mera “attività anti-terrorismo” indicata dal presidente Biden. Anzi le quasi 200 vittime dell’ultimo attacco dell’agosto 2021 a Kabul, mentre gli statunitensi prendevano letteralmente il volo, si sono andate ad aggiungere alle centinaia di migliaia di vittime del terrorismo, dilagato in tutto il mondo nei vent’anni di guerra globale al…terrorismo. Il terrorismo della guerra non solo non ha fermato ma ha potenziato la guerra del terrorismo: non solo non è servita ad esportare e costruire alcuna democrazia – né in Afghanistan, né in Iraq, né in Libia, né da nessun’altra parte dove questo era stato proclamato – ma, contraddicendo la retorica bellica, è stata contro-produttiva anche rispetto all’obiettivo minimo di combattere quel terrorismo che invece si è moltiplicato ed ha colpito ovunque, come registra anno dopo anno il Global Terrorism Index7. E’ stato il fallimento completo di una strategia irrazionale rispetto agli obiettivi dichiarati. La verità, dunque, è che – nonostante i fiumi di retorica versati per due decenni – i venti anni di guerra in Afganistan sono serviti, di fatto, solo a riversare migliaia di miliardi nelle casse dell’industria bellica internazionale. Che hanno prodotto sangue, terrore e caos, in un prevedibile – e previsto, come abbiamo visto – crescendo di tragedia e follia collettiva.

Infine, mentre nell’agosto del 2021 i media internazionali si sono meritoriamente preoccupati di raccogliere le drammatiche immagini e testimonianze dell’aeroporto di Kabul assediato da coloro che cercavano disperatamente di fuggire dal paese – come dal febbraio 2022 avrebbero fatto con i profughi ucraini in fuga dai territori di guerra – è opportuno ricordare che il Rapporto dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati proprio nel giugno precedente aveva comunicato che il numero di persone in fuga da guerre e persecuzioni in tutto il mondo nel 2020 aveva superato gli 82 milioni, di 3 milioni in più rispetto all’anno precedente, diventate 100 milioni l’anno successivo… Quindi sarebbe opportuno che agenzie, giornali e televisioni, uscissero dallo strabismo mediatico ed allargassero l’obiettivo sui profughi di tutte le guerre, delle quali sono i drammatici effetti collaterali e rispetto ai quali, di norma – invece di organizzare ponti aerei – tutti i giorni i governi alzano muri, fili spinati, lager ed onde del mare. Distinguendo talvolta tra profughi buoni, da accogliere, e profughi cattivi, da respingere. Lontani dalle telecamere e dalla nostra coscienza. Falsa coscienza, per lo più.

Violenza su violenza. Il ventennale dimenticato dell’inizio di una guerra vergognosa

Come insegna Johan Galtung, tra le diverse dimensioni dell’esercizio diretto e indiretto della violenza, la più profonda e pervasiva è la violenza culturale8, che genera l’immaginario simbolico e produce senso comune. Una delle “armi” più potenti della violenza culturale è la costruzione e l’uso selettivo della memoria pubblica condivisa, che decide e separa ciò che dev’essere ricordato da ciò che, invece, non deve esserlo. Per esempio, dopo l’agosto della fuga da Kabul, l’11 settembre 2021, nell’occasione del ventennale degli attentati terroristici a New York che, con il crollo delle Torri gemelle, hanno provocato 2977 vittime, la stampa internazionale per giorni ha ricordato quell’evento con dirette, edizioni straordinarie di magazine, approfondimenti di varia natura: una memoria giustamente celebrata dopo due decenni pieni. In conseguenza di quell’attacco kamikaze, poche settimane dopo, già il 7 ottobre 2001 cominciavano i bombardamenti anglo-statunitensi su Kabul con i quali iniziava la ventennale e illegale guerra di occupazione occidentale durata, appunto, fino all’agosto 2021: stesso e conseguente anniversario pieno ma memoria – al contrario – rimossa, senza alcun bilancio, valutazione pubblica o riconoscimento di responsabilità politiche per l’immane disastro globale.

Poiché quella occupazione militare, anziché la libertà duratura annunciata (Enduring freedom si chiamava la guerra), ha distrutto tutto per non cambiare niente – se non, ribadiamolo ancora, per i fatturati dell’industria bellica internazionale – è evidente che per i governi che l’hanno voluta e finanziata per due decenni e per i media maintream che ne hanno, inizialmente, sostenuto e legittimato l’avvio e, successivamente, ignorato crimini e misfatti, “è bene e pio si taccia ormai anche il nome” – come fa dire Umberto Eco ad Adso ne Il nome della rosa – ma, dopo la celebrazione mondiale del ventennale dell’11 settembre, l’osceno silenzio che ha avvolto quello conseguente del 7 ottobre, è una violenza culturale continuata nel tempo. Senza contare l’assenza di alcun minimo cenno di aver appreso la lezione paradigmatica dell’Afghanistan sul fallimento della guerra come strumento regolatore dei conflitti – in verità già ripudiata dalla Costituzione italiana – per la quale il ventennale dell’inizio dei bombardamenti avrebbe potuto/dovuto essere l’occasione. Ed, invece, da lì a poco la guerra sarebbe tornata anche sul territorio europeo, dando nuovo slancio all’industria bellica, orfana della guerra precedente, anziché impulso agli sforzi ed ai dispositivi di mediazione. Del resto, come scriveva Antonio Gramsci, “la storia insegna ma non ha scolari”9.

Si può ravvisare, inoltre, in quel silenzio anche la continuazione di un pesante e strutturale razzismo informativo in base al quale non tutte le vite sono ugualmente degne di lutto e di racconto: a fronte dei fiumi di retorica versati per le vittime occidentali dell’atto di guerra terrorista, le infinitamente superiori vittime afghane ed irakene di vent’anni di terroristici atti di guerra, delle quali non si conosce ne il nome ne il numero esatto, non solo non sono state degne di narrazione mentre i fatti accadevano – e chi lo ha fatto, come Julian Assange con WikiLeaks, oggi subisce anche un’incredibile ed esemplare tortura giudiziaria – ma non sono neanche degne di memoria. Del resto solo poche settimane dopo, tra gennaio e febbraio del 2022 – dopo aver ignorato i profughi afghani, irakeni, siriani e pachistani respinti nel gelo invernale ai confini tra Bielorussia e Polonia, vittime delle nostre guerre – il circo mediatico avrebbe trovato un’altra “guerra giusta” da raccontare, momento per momento, esplosa all’improvviso sugli schermi mediatici. Quella di difesa del governo ucraino dall’occupante russo, senza averne mai narrato in nessun modo gli “antefatti”, come si studiavano a scuola prima di affrontare con l’Iliade un’altra cronaca di guerra decennale, di alcune migliaia di anni prima.

Naturalmente, nessun antefatto può giustificare l’occupazione militare russa, ma le relazioni internazionali sono un sistema complesso, dove il “battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un uragano nel Texas”. Così come un missile nucleare lanciato da un continente può sortire effetti devastanti in un altro, come si è ripreso a minacciare tra le potenze atomiche, ma in modalità estremamente meno elegante – quanto più semplificata e distruttiva – di una farfalla. Meglio non dimenticarlo.

 

1 4 ottobre 2001, oggi si trova nella raccolta Lettere contro la guerra, 2002, TEA

2Avvenuta il 13 agosto 2021

3 La Stampa, 13 agosto 2021

4La democrazia e i diritti sono un <<valore universale>>, Il corriere della sera, 22 agosto 2021

5Perché non esiste alcun regime politico preferibile alla democrazia, Domani, 24 agosto 2021

6 Cfr https://www.rainews.it/archivio-rainews/articoli/biden-afghanistan-de3733d5-97d8-417a-9ab4-35a4c3295f6d.html

7 Vedi: https://www.visionofhumanity.org/maps/global-terrorism-index/#/

8Vedi, per esempio, Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie, GoWare, 2021

9 L’Ordine Nuovo, 11 marzo 1921, anno I, n. 70

da qui

 

 

Afghanistan: la nazione senza diritti per donne e minoranze – Danilo De Biasio

L’emozionante racconto di Fatima Haidari

Fatima Haidari è una giovane donna afgana. È minuta e si aggiusta in continuazione il velo leggero con cui copre la sua testa. Ha sempre il cellulare in mano, perché grazie a quell’oggetto parla con i parenti rimasti in Afghanistan, collabora con un sito turistico, segue le notizie, chatta con il suo fidanzato. Quel telefonino è diventato il legame con i suoi due mondi: quello del passato, cancellato dall’oscurantismo talebano, e quello del futuro che l’ha portata – un po’ casualmente – in Italia, fra poco la porterà alla Bocconi e domani chissà dove.

Quando insieme a Riccardo Noury (portavoce di Amnesty International Italia) e Elisa Marincola (portavoce nazionale di Articolo21 liberi di…) abbiamo cominciato a ragionare sul primo anniversario della «fuga» da Kabul cercavamo una storia comune da raccontare, a dimostrazione della forza d’urto che i talebani hanno sull’intera società afgana.

Fatima Haidari ha una storia comune.

Ultima figlia in una famiglia dell’Afghanistan rurale, vorrebbe studiare ma ci sono mille difficoltà. Le viene in aiuto una Ong religiosa che le insegna l’inglese.

Lo impara così bene che inizia a spiegarlo alle ragazze come lei. Poi realizza che quella lingua può essere lo strumento da usare per fare la guida turistica a Herat. Questa sua intraprendenza, questo «normale» desiderio di indipendenza e normalità diventano nel 2021 la sua condanna.

«Sei sulla black list dei talebani, ti conviene scappare», le dicono. E lei fugge. Non riesce a salire sul primo aereo, torna nel suo «rifugio» a Kabul e lo trova sbarrato, la sua valigia non c’è più. Il caso vuole che nel caos di quei giorni un soldato italiano riesce a imbarcarla su un volo diretto a Roma. Fatima Haidari ha solo 24 anni ma ha già vissuto tutto questo.

Cosa ci dice la sua storia.

Se non fosse troppo scomodare Hannah Arendt diremmo che è la banalità del male: sei donna, parli inglese, vuoi lavorare e questo basta alla macchina repressiva talebana per considerarla pericolosa. Se poi aggiungiamo che Fatima è della minoranza hazara – «quella con gli occhi da cinese», dice mostrando il taglio degli occhi – capiamo che per lei non c’era futuro in Afghanistan. Così come, per ora, non c’è neppure un presente per le donne afgane rese invisibili anche fisicamente dall’obbligo di coprirsi dalla testa ai piedi.

Ma la sua storia dice molto altro: che dove non arrivano le istituzioni pubbliche possono arrivare le Ong, che danno rifugio e speranze alla gente del posto. E ancora: che una guerra sanguinosa – quella di Putin all’Ucraina – non scaccia le altre guerre, altrettanto sanguinose in corso contemporaneamente.

«Non dimenticatevi dell’Afghanistan, non riconoscete quel governo», chiede Fatima Haidari.

Infine, la sua storia ci dice che le istituzioni italiane hanno saputo accogliere con efficienza e tatto donne e uomini come lei che scappavano da quella crisi, da quelle violenze, da quei pericoli. E queste sono – pardon, dovrebbero essere – le uniche condizioni su cui basare la concessione dell’asilo, e non, come accade, decidendo sulla base del clamore mediatico intorno alle nazioni da cui fuggono.

L’incontro di Fatima Haidari a Milano, una domenica di metà agosto, prima di un concerto (grazie alla sensibilità di Musicamorfosi e del Comune di Milano) ha richiamato davvero tante persone. L’applauso più lungo è arrivato quando lei ha spiegato che «femminista» in Afghanistan è un’offesa, quando non addirittura un’accusa; ma – ha aggiunto – «se essere femminista vuol dire battersi per i diritti delle donne, essere un punto di riferimento per le bambine e le ragazze, allora sì, io sono femminista».

Il momento per lei più emozionante è stato però un altro: a sorpresa le abbiamo fatto srotolare una grande bandiera dell’Afghanistan, «la bandiera più bella del mondo», ha detto al microfono prima di ritornare alla sua nuova vita di rifugiata.

 

L’articolo gentilmente concesso dall’autore è stato pubblicato sul sito Articolo21.org (Grazie a Angela Bartolo per la foto)

da qui

 

 

 

Essere donna in Afghanistan, venti anni di conquiste civili spazzate via dalla violenza talebana –  Maryam Jami

 

Il drammatico bilancio di un anno di regime talebano

È passato un anno dall’arrivo dei talebani, una presenza che non ha portato nulla alle donne se non l’essere respinte e represse, insieme al dover affrontare i cancelli delle scuole chiuse, la fine delle università miste, la depressione e il suicidio. Human rights watch ha definito il 2021 l’anno peggiore per le donne afghane sotto il profilo dei diritti umani.

Nella storia dell’Afghanistan – se si esclude l’era buia dei talebani – le donne, sebbene si muovessero in un ambiente chiuso, tradizionale e segnato dal più rigido patriarcato, hanno però affrontato le politiche antifemministe essendo in grado di lasciare impronte immortali, a livello nazionale e globale. Infatti, nonostante l’Afghanistan sia uno Stato dove tutti i giochi di potere si svolgono nella totale assenza di donne, le quali in definitiva sono costrette a venire a compromessi con le decisioni prese da politici uomini, le afghane sono scese nell’arena politica, sociale, intellettuale e letteraria chiedendo giuste condizioni e giungendo a traguardi significativi.

Di seguito mi concentrerò sugli ultimi vent’anni, a partire da quando, con la caduta del governo talebano nel 2001, venne firmata l’ottava Costituzione dell’Afghanistan. Per legge veniva riservata alle donne una quota in Parlamento del 25%, poi aumentata al 30%. Per le donne, stanche della guerra e delle ineguaglianze, era il più grande traguardo a cui si fosse mai assistito nella storia: equivaleva ad un nuovo inizio. Molte donne hanno iniziato a ricoprire ruoli chiave un tempo riservati agli uomini, come quello di ministro, viceministro della Difesa, viceministro degli Esteri, governatore di una provincia, capo della commissione indipendente per i Diritti umani, capo della commissione per i Reclami elettorali, fino ad occupare quasi un quarto del Parlamento, inoltre sono stati emanati dei provvedimenti che chiedevano la nomina di almeno una donna vicegovernatrice in ogni provincia, cosa che si verificò anche per altre cariche pubbliche o posizioni nel privato: tutto questo dimostra la forte presenza femminile ai più alti livelli politici e di governo.

Nell’ambito accademico, secondo statistiche pubblicate da media afghani, nel 2018 il numero di studentesse nelle università afghane era di 88mila contando solo i corsi triennali, e 300 di queste ragazze avevano anche ottenuto una borsa di studio estera. Il numero delle professoresse nelle università afghane aveva oltrepassato le due migliaia ed erano venti le donne impiegate ai più alti livelli manageriali delle istituzioni accademiche. A livello scolastico erano circa 80mila le insegnanti donne e più di tre milioni e mezzo di studentesse frequentavano le scuole afghane…

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«Ora semplicemente non viviamo più». Voci dall’Afghanistan, un anno dopo –  Arianna Egle Ventre

 

Le ragazze costrette ad interrompere gli studi. Le donne relegate alla vita domestica. La crisi economica e l’insicurezza alimentare che dilagano. Ma anche le speranze delle nuove generazioni e le forme di resistenza di chi non si arrende all’oscurantismo dei talebani al potere. Ad un anno dalla presa di Kabul, abbiamo raccolto le testimonianze di chi non ha lasciato il Paese

«Come possiamo non amare l’Afghanistan?» È già buio a Kabul, mentre Jamilah (nome di fantasia per proteggere l’intervistata) descrive con dolcezza il paesaggio afgano. «Non c’è niente di più speciale dell’aria pulita delle nostre montagne». Cerca le parole giuste, con cura. Poi sospira, lasciando un attimo di silenzio. Vuole farmi respirare quella freschezza insieme a lei, ma a Roma è ancora giorno e il caldo afoso rende difficile ogni tentativo di immaginazione. La connessione è intermittente, le parole di Jamilah arrivano spezzate. Cerco degli odori, dei sapori, delle tracce che mi permettano di capire un po’ dell’Afghanistan che racconta. E che vuole lasciare: «Le mie giornate passano con un unico pensiero costante. Andarmene via da qui con la mia famiglia».

La cucina di Reha e Anush profuma di kabuli palau. Carote, carne e uvetta ricoprono un vassoio di riso in mezzo al tavolo. Ogni chicco del piatto tipico afgano fa da aggettivo alle parole di Reha. Sta imparando l’italiano, ma preferisce parlare in pashto. È originaria della provincia di Paktika; la sua famiglia è per lo più pashtun. «Non capita spesso che pashto e persone che parlano dari si sposino», dice e guarda Anush mentre tiene in braccio il figlio di pochi mesi, nato in Italia. Lasciando Paktika si è presto spostata a Kabul dove ha studiato sociologia. È lì che ha conosciuto Anush, che insieme a lei fa parte di Hambastagi, il partito afghano della solidarietà, una forza politica laica, interetnica e democratica.

E poi di nuovo verso nord, da Kabul a Takhar, provincia di cui è originario Anush. Lì hanno vissuto per anni, prima della loro fuga verso Kabul nell’agosto 2021. «Pensavamo di essere sicuri almeno nella capitale, non ci aspettavamo che i talebani arrivassero così velocemente. Io ho lavorato a lungo per la difesa dei diritti umani, collaborando anche con associazioni straniere. Quindi non abbiamo più avuto scelta. Accettare il rischio o andarsene. Dopo la presa di Kabul del 15 agosto, molte persone sono state uccise, torturate o costrette a vivere in clandestinità. Ed è tutt’ora così». È da un anno che Reha è arrivata con la sua famiglia in Italia: è da un anno che la Repubblica islamica dell’Afghanistan di Ashraf Ghani è stata sostituita dall’Emirato islamico dei talebani.

Dopo il ritiro definitivo delle forze statunitensi e Nato dall’Afghanistan, il 7 settembre scorso è stato annunciato dai talebani un governo ad interim, monoetnico pashtun e interamente composto da uomini. Governo non riconosciuto dalla comunità internazionale. «La situazione è cambiata completamente. Come il cielo e la terra» ci spiega Jamilah. «Prima non sapevamo se saremmo tornati vivi o no a casa. Ora semplicemente non viviamo più. Non possiamo permetterci niente, tutto costa troppo. Le ragazze e le donne non escono e se escono devono indossare l’hijab. I mendicanti sono sempre di più, chiedono anche solo un pezzo di pane».

Jamilah ha 47 anni, ha sei figli, ma solo tre vivono ancora con lei e il marito. Mariam e Maliah (anche questi nomi di fantasia) sono sedute nel salone mentre ascoltano la chiamata in vivavoce e a volte sussurrano qualcosa alla madre. Mariam ha 18 anni, la mattina si alza, fa colazione, pulisce casa, scherza o litiga con la madre a seconda dell’umore. Non va a scuola da un anno. Jamilah parla dei figli con apprensione: «I miei figli qua non hanno futuro, voglio portarli fuori da questo Paese. Le mie figlie…vogliono un futuro». La voce in sottofondo di Mariam interrompe la madre: «Mariam vuole diventare dottoressa». Allora anche Maliah, la più piccola della famiglia, sussurra che vuole fare l’insegnante. L’educazione è preclusa alle ragazze dopo i sei gradi della scuola primaria (ossia dopo i 12 anni, ndr), ad eccezione di poche province. Più volte nel corso dell’anno sono state organizzate proteste per la riapertura delle scuole secondarie femminili. Lo scorso mese è stata lanciata una campagna sui social media, mentre a Herat alcune ragazze hanno allestito una mostra di pittura per rivendicare il diritto all’istruzione. Alle critiche che arrivano dagli afgani e dalla comunità internazionale, il governo talebano adduce giustificazioni legate a “questioni religiose”, asserendo la necessità di adattare il curriculum formativo ai valori islamici, assumere insegnanti donne e creare ambienti “sicuri” e separati tra i sessi.

Maliah non sa se potrà continuare a studiare: «Ho dodici anni, quindi è l’ultimo anno in cui posso andare a scuola. Ma spero tanto che le cose vadano meglio e di poter diventare una professoressa. Così i miei studenti diventeranno brave persone». Nel frattempo in videochiamata Ishan (ancora un nome di fantasia), il fratello maggiore, traduce le parole della sorella. Ha 22 anni ed è da quattro anni che ha lasciato l’Afghanistan. È richiedente asilo in Europa dopo un lungo viaggio di confine in confine. «No tu non vuoi essere un’insegnante, ma dieci insegnanti», dice Ishan a Maliah e tutti scoppiano a ridere. Non capisco subito la battuta, ma la risata della famiglia è contagiosa. Poi Jamilah si ricompone e poco dopo Ishan esprime a voce alta i suoi dubbi; difficile dire se scherzi o no: «Forse non dovremmo ridere in un’intervista sull’Afghanistan» ed esorta la madre a continuare. Non è preoccupata solo per le figlie, ma anche per il figlio sedicenne, l’unico figlio maschio ancora a Kabul. «È giovane, le idee dei talebani potrebbero influenzarlo e non voglio che succeda». Secondo Jamilah sono tanti i ragazzini che tra i 14 e i 16 anni si uniscono ai talebani. Non importa che governo ci sia, lavorare con il governo garantisce una minima entrata, sostiene.

La crisi economica che sta vivendo l’Afghanistan ha conseguenze disastrose sulla popolazione, che stava affrontando una crisi umanitaria già da prima dell’agosto scorso. Le sanzioni internazionali hanno isolato il Paese, messo in ginocchio da quarant’anni di guerra e dipendente dagli aiuti umanitari esterni. Il congelamento delle riserve afgane all’estero e il blocco dei trasferimenti economici ha portato alla crisi finanziaria, e quindi alla crisi di liquidità e all’aumento dell’inflazione. «Ho un unico pensiero appena mi sveglio. Cosa mangiamo oggi? Quanti soldi abbiamo? E poi cerchiamo di comprare quello che possiamo, prima che aumenti ulteriormente il costo. Se non avessimo Ishan che ci aiuta non so come faremmo a sopravvivere» racconta Jamilah. Ishan si incupisce mentre traduce. E si spiega poco dopo: «La speranza delle nostre famiglie è riposta completamente su di noi, in Europa». Ma non tutti hanno qualcuno che li supporti fuori dall’Afghanistan.

«Molte famiglie mandano i propri figli a lavorare per sfamarsi. Anche lontano da casa». Le parole di Jamilah confermano quel che riporta Save the children nel report pubblicato lo scorso 8 agosto, intitolato Punto di rottura: la vita per i bambini a un anno dalla presa di controllo dei talebani. Il 25 per cento dei bambini afgani lavora per apportare qualche entrata in casa, un bambino su dieci si allontana dal nucleo familiare per cercare una qualche forma di impiego, mentre a più del 5% delle bambine viene chiesto di sposarsi per supportare la famiglia.

L’insicurezza alimentare diffusa nel Paese non è conseguente solo ai recenti cambiamenti politici e all’instaurazione del nuovo regime. La comunità internazionale è pienamente responsabile della fame della popolazione afghana. Oltre a quarant’anni di guerra a cui direttamente o indirettamente hanno preso parte i governi occidentali e la Nato, a colpire l’Afghanistan sono anche gli effetti dello sviluppo non sostenibile alla base del sistema economico capitalista. Secondo quanto riporta Afghanistan analysts network, tra i dieci Paesi più vulnerabili alla crisi climatica e ambientale, vi è l’Afghanistan. Nell’ultimo mese molte province sono state colpite da alluvioni che hanno distrutto case, provocando morti e sfollati. Ettari di terreno agricolo e infrastrutture quali ponti, ospedali e scuole sono stati spazzati via da ingenti precipitazioni e piogge. Lo scioglimento dei ghiacci e delle nevi hanno influenzato il flusso dei fiumi, alternando periodi di piena a lunghi periodi di bassa portata e quindi di siccità.

«Quando parliamo con gli amici, nessuno di noi spera più di vedere un Afghanistan felice. Forse solo i figli dei figli dei nostri figli vivranno un Afghanistan con meno problemi e senza conflitti. Forse». Jamilah risponde alle parole di Ishan, ancora più sconfortata: «Ho vissuto quarant’anni di guerra. C’erano, ci sono e ci saranno sempre problemi. Non ho più speranza». Ishan sorride, sorpreso di aver ricoperto il ruolo dell’ottimista tra i due. Improvvisamente la connessione cade. Con Ishan rimaniamo d’accordo di provare a richiamare la famiglia più tardi, ma sarà impossibile riuscire a ricontattarli fino a due giorni dopo. Nel frattempo fonti locali avvertono dell’assenza di internet a seguito di attentati nei quartieri ovest di Kabul.

«La situazione è ottima ora, possiamo uscire di casa senza avere paura». Emran (nome anche questo di fantasia) ha 24 anni. Gira la videocamera e mostra il suo gatto e il suo cane nel giardino di Kabul. Fa caldo e riposano all’ombra. Le sue parole stonano con le notizie della settimana. Sono i giorni precedenti all’Ashura, importante cerimonia per la comunità sciita. Nel fine settimana del 6 e 7 agosto, sono 120 i morti e feriti a seguito delle esplosioni rivendicate dall’Isis Khorasan (Isis-K), branca locale dello Stato islamico, come riporta la missione di assistenza delle Nazioni unite in Afghanistan Unama. Già a giugno, la missione aveva pubblicato un report secondo il quale sarebbero 2.106 le vittime civili (700 morti e 1406 feriti) tra il 15 agosto 2021 e il 15 giugno 2022 causate da ordigni inesplosi (tra le vittime di questo tipo di armi, il 71% sono bambini) o a seguito di attacchi rivendicati o attribuiti a Isis-K. «In molti casi i target principali sono le minoranze etniche e religiose, ovvero gli Hazara sciiti, gli sciiti in generale e musulmani sufi» si legge nel report.

Mentre parla in videochiamata Emran si avvia verso l’alimentari sotto casa: «Da quando ci sono i talebani, la sicurezza è garantita. Ora chiunque può fare una passeggiata senza preoccuparsi troppo». Eppure non è un caso che il titolo del nuovo report di Amnesty international sia Death in slow motion. Women and girls under taliban rule (in italiano “morte a rallentatore. Donne e ragazze sotto il regime talebano”).

«Se c’è la guerra o no mi importa poco. Non posso vedere i miei amici, le mie giornate trascorrono dentro casa», dice Mariam e poi passa di nuovo il telefono alla madre Jamilah. Sono trascorsi due giorni prima di riuscire a stabilire un contatto. «Possiamo andare fuori solo in caso di necessità. Con l’hijab, in modo tale che appaiano solo gli occhi e il volto sia coperto. Non possiamo andare sole oltre 78 km e quindi nemmeno fuori dall’Afghanistan; non possiamo salire su macchine o taxi senza essere accompagnate da un guardiano, mahram», spiega Jamilah.

L’esclusione delle donne e ragazze dalla vita pubblica è iniziata fin dall’instaurazione del governo ad interim completamente maschile e seguita da numerosi decreti che hanno limitato l’accesso delle donne all’istruzione, al mondo del lavoro e più in generale alla vita quotidiana. Sono rari i casi in cui le donne afghane sono riuscite a mantenere il proprio impiego. «Non ho più una routine, il tempo passa e basta» dice Mariam. Anche nelle televisioni e nei media le donne appaiono sempre meno. Dall’agosto 2021, il 76,19% delle giornaliste ha perso il proprio impiego, secondo quanto denunciato in un dossier di Reporters without borders. Attività sportive e ricreative sono proibite per la popolazione femminile, che si trova a passare intere giornate in casa. Aumentano così le probabilità di violenza domestica, ma la dissoluzione di strutture atte alla difesa dei diritti delle donne, e quindi alla loro salute, ha reso impossibile denunciare la violenza subita per timore e per assenza di rifugi sicuri e di tutela.

Con il nuovo decreto del 7 maggio scorso, il ministro della Prevenzione del vizio e la promozione della virtù ha reso l’hijab obbligatoria negli spazi pubblici, sancendo definitivamente l’invisibilità della popolazione femminile, a cui era già stata proibita l’apparizione in film e altre attività artistiche. «Anche gli uomini più aperti sono confusi su come comportarsi rispetto al nuovo ordinamento sul’hijab» commenta Silvia Ricchieri del Cospe, associazione di cooperazione internazionale a lungo attiva in Afghanistan. Infatti, secondo il decreto verranno puniti gli uomini “responsabili” delle donne che non adempiranno alle regole relative all’abbigliamento. Mariti, padri e fratelli vengono messi contro le donne della propria famiglia. La distanza tra uomini e donne aumenta, e quindi la comprensione reciproca.

«Se usciamo per fare una passeggiata con tutta la famiglia, non sappiamo dove andare. Molti luoghi pubblici, come i parchi, sono frequentabili solo in maniera alternata: alcuni giorni sono per le donne e altri per gli uomini», racconta Jamilah. Quando va al parco vede impiegati talebani che controllano l’area. «Non ho capito, loro non sono uomini? Solo i nostri mariti e figli sono uomini?» chiede, alzando la voce. Jamilah ha parlato solo una volta con un giovane talebano, quando è andata a ritirare l’attestato scolastico del figlio. Per il resto rimangono figure piuttosto oscure, poco comprese e di cui ha paura. È la seconda volta che Jamilah vive sotto il regime talebano. Le figlie ne hanno sentito parlare fin da appena nate. «Sapevo che erano molto pericolosi. Ero spaventata, ma ora che li vedo tutti i giorni è diventato normale per me» dice Maliah. Le diverte molto truccarsi, fin da quando è piccola. Le dispiace che, ora che diventerà più grande, non potrà truccarsi in pubblico. Ripensa un po’ alla sua vita prima del regime, poi continua: «Finché senti parlare delle cose, ne hai tanta paura, ma una volta che le vivi quotidianamente, diventa tutto normale». Maliah ha impiegato poco tempo a normalizzare la situazione di paura e repressione in cui vive.

Ma, nonostante la violenza selettiva del governo talebano scoraggi ogni tentativo di cambiamento, qualcuno resiste alla normalizzazione. A pochi giorni dall’anniversario della presa di Kabul, il 13 agosto, alcune donne sono scese in piazza a manifestare nella capitale rivendicando il diritto all’istruzione e alla partecipazione sociale e politica. Pane, lavoro e libertà. Mentre urlano il loro slogan, le manifestanti vengono disperse con spari in aria da parte dei talebani. Poche ore dopo la protesta, arrivano già notizie di arresti da fonti locali, tra cui anche giornalisti e giornaliste.

Le misure volte alla repressione, alla censura e alla limitazione del dibattito interno rendono estremamente pericolosa ogni forma di reazione da parte della popolazione afghana. Nel report di Unama vengono denunciate esecuzioni extragiudiziali, torture, detenzioni e arresti arbitrari non solo a danno dei membri del forze armate del precedente governo, ma anche di giornalisti e attivisti. I dati dell’analisi di Reporters without borders parlano con chiarezza. Dei 547 organi di informazione presenti un anno fa nel Paese, 219 hanno cessato le proprie attività nel corso degli scorsi mesi. Ad oggi si contano 4.759 giornalisti rispetto ai 11.857 censiti prima dell’arrivo del regime talebano.

«Ora in Afghanistan l’accesso alle informazioni è controllato dai talebani, quindi al momento abbiamo solo le nostre fonti locali, anch’esse limitate» spiega Abdul Ghafoor Rafiey. È stato evacuato in Germania dopo l’arrivo del nuovo regime ed è direttore di Amaso (Organizzazione di consulenza e sostegno ai migranti dell’Afghanistan), fondata nel 2014 a seguito delle numerose deportazioni di afghani dai Paesi occidentali. «Non tutti sono riusciti a scappare, per cui abbiamo ancora del personale in Afghanistan. Stiamo cercando di lavorare a distanza, ma c’è molta paura e non possiamo mettere in pericolo la vita di chi lavora con Amaso. I talebani potrebbero incolparli di aver agito contro il regime e detenerli», conclude.

Tra la popolazione civile alcuni nuclei di resistenza cercano nuovi modi per agire e reagire, al sicuro dagli occhi del regime. Tra queste le donne di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane), organizzazione politica e indipendente che dal 1977 lotta per la pace, la democrazia e i diritti delle donne. «La loro volontà è di rimanere all’interno del Paese e come hanno fatto sempre di lottare a partire dai settori popolari più poveri. È una scelta politica molto chiara: hanno sempre sostenuto che non è possibile alcuna democrazia se si mantiene un tasso di analfabetismo così alto, soprattutto tra le donne», spiega Antonella Garofalo di Cisda, Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che fin dalla sua nascita sostiene il lavoro politico e sociale di Rawa. E continua: «Questa è sempre stata la loro prima attività e ancora adesso stanno facendo questo lavoro, clandestinamente, nelle case, attraverso le reti familiari».

Tuttavia non per tutti rimanere è stata una scelta…

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Violenze e promesse mancate: l’Afghanistan un anno dopo la presa del potere dei talebani – Alessandro Barba

 

Da quando hanno preso il potere in Afghanistan un anno fa, i talebani hanno lanciato un attacco a tutto tondo contro i diritti umani, perseguitando le minoranze, stroncando violentemente le proteste pacifiche, sopprimendo i diritti delle donne e ricorrendo alle sparizioni forzate e alle esecuzioni extragiudiziali per seminare paura tra la popolazione.

In un documento intitolato “Il dominio dei talebani: un anno di violenza, impunità e false promesse”, Amnesty International ha denunciato gravissime violazioni dei diritti umani e la massiccia impunità nei confronti di coloro che hanno commesso torture, uccisioni per motivi di rappresaglia, sgomberi forzati di oppositori: tutto questo sebbene all’inizio i talebani avessero promesso di rispettare i diritti delle donne e la libertà di stampa e di attuare un’amnistia per i funzionari del deposto governo civile…

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AFGHANISTAN UN ANNO DOPO: LA SITUAZIONE OGGI – Emergency

 

Un anno dopo l’uscita dal Paese delle forze internazionali e l’instaurazione del nuovo governo, il Paese è scomparso dai media. Ma cosa sta succedendo ora in Afghanistan?

Il 15 agosto 2021, l’Afghanistan ha assistito alla salita al potere dei talebani dopo settimane di escalation dell’offensiva lanciata in seguito all’abbandono delle forze internazionali.

Oggi il Paese si trova vicino al collasso, colpito da una crisi economia devastante, dall’aumento della povertà, del bisogno di servizi essenziali e della criminalità.

Più di 23 milioni di afgani sono a rischio di grave insicurezza alimentare a causa di oltre 40 anni di guerra, dei devastanti effetti del cambiamento climatico e disastri naturali, dell’isolamento e delle sanzioni internazionali, del congelamento delle riserve afgane all’estero e della conseguente crisi bancaria e finanziaria, dell’inflazione con l’aumento di circa il 50% dei prezzi di cereali e carburante.

Oggi, secondo UNAMA (Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan) almeno il 59% della popolazione necessita di assistenza umanitaria. 6 milioni di persone in più rispetto all’inizio del 2021.

EMERGENCY rimane e continua il suo lavoro di cura per tutti

Lo scorso agosto non ci siamo mai fermati: i nostri 3 ospedali, il Centro di maternità e oltre 40 Posti di primo soccorso e Centri sanitari hanno lavorato senza sosta per assistere i feriti.

Anche dopo il 15 agosto, siamo rimasti in Afghanistan, testimoniando la grave situazione in cui versa il Paese.

I numeri dei nostri ospedali

In questo ultimo anno abbiamo contato più di 16.000 ammissioni nei nostri ospedali di Kabul, Lashkar-gah, Anabah e oltre 90.000 visite nei 42 Posti di primo soccorso.

3.000 ammissioni solo a Kabul, dove ancora per più del 90% si tratta di vittime di guerra: feriti da arma da fuoco, da arma da taglio, da esplosioni di mine e ordigni improvvisati.

“Con l’uscita delle forze internazionali i problemi dell’Afghanistan non sono affatto terminati. In questo anno abbiamo continuato a vedere morti e feriti tra i civili, e una popolazione stremata dalla povertà e dalla certezza di essere stata abbandonata dalla comunità internazionale. EMERGENCY rimane e si impegna a fornire la propria assistenza agli afgani come ha sempre fatto per oltre 20 anni”.

Rossella Miccio, Presidente di EMERGENCY

Un anno dopo: la guerra si è formalmente conclusa, ma non sono sparite le vittime

“Nel nostro Centro chirurgico per vittime di guerra a Kabul riceviamo quotidianamente feriti da arma da fuoco, da proiettili a schegge, da arma da taglio, soprattutto coltellate, da esplosioni di mine e ordigni improvvisati. Il Paese soffre le conseguenze di un lunghissimo conflitto che ha minato il suo futuro.”

Stefano Sozza, Country Director di EMERGENCY in Afghanistan

Cosa succede a Kabul

Sulle oltre 3.000 ammissioni nell’ospedale di Kabul da agosto 2021 le vittime di guerra rappresentano ancora il 93,5% dei pazienti.

Per l’80%, oltre 2.000 casi, si tratta di feriti da arma da fuoco, ma si registrano anche feriti da armi da taglio, ricollegabili all’aumento della criminalità; per il 5% continuano a essere ammessi anche feriti da mine e ordigni inesplosi.

Per il 30%, oltre 400 casi, si tratta di bambini e ragazzi con età inferiore ai 18 anni

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Afgani in fuga respinti alla frontiera di Iran e Turchia a colpi d’arma da fuoco. – Amnesty International

 

Uomini, donne e bambini in fuga dall’Afghanistan sono stati ripetutamente respinti dalle forze di sicurezza dell’Iran e della Turchia, che hanno anche aperto il fuoco contro di loro. È la denuncia contenuta in un rapporto di Amnesty International che riferisce di numerose occasioni in cui, soprattutto al confine con l’Iran, le forze di sicurezza locali hanno sparato alle persone che cercavano di scavalcare muri o di strisciare sotto le trincee. Coloro che riescono a entrare in Iran e in Turchia vengono regolarmente arrestati e sottoposti a maltrattamenti e torture prima di essere rimpatriati illegalmente e con la forza.

Una missione di ricerca di Amnesty International ha visitato l’Afghanistan nel marzo 2022 intervistando, nelle città di Herat e Islam Qala, 74 afgani respinti dall’Iran e della Turchia, 48 dei quali raggiunti da colpi di arma da fuoco. Nessuna di queste persone è riuscita a chiedere asilo nei due stati e la maggior parte di esse è stata rimandata in Afghanistan in violazione del diritto internazionale.

“Un anno dopo la fine delle evacuazioni attraverso il ponte aereo, molte delle persone rimaste in Afghanistan rischiano la loro vita nel tentativo di lasciare il paese. Coloro che hanno raggiunto la frontiera iraniana e turca sono stati respinti con la forza, anche con armi da fuoco. Dall’agosto 2021 le forze di sicurezza iraniane hanno ucciso e ferito decine di afgani, persino sparando ripetutamente contro automobili stracariche di persone. Le guardie di frontiera turche, a loro volta, hanno usato proiettili veri, non solo sparando in aria ma a volte anche colpendo le persone”, ha dichiarato Marie Forestier, ricercatrice di Amnesty International sui diritti delle persone migranti e rifugiate.

“Ma i pericoli non finiscono alla frontiera. Molti afgani con cui abbiamo parlato sono stati arrestati, sia in Turchia che in Iran, e sottoposti a maltrattamenti e torture prima di essere illegalmente rimpatriati. Chiediamo alle autorità turche e iraniane di porre immediatamente fine ai respingimenti e ai rimpatri degli afgani, di cessare di sottoporli a maltrattamenti e torture e di garantire ingressi sicuri e accesso alle procedure d’asilo a tutti gli afgani che chiedono protezione. Chiediamo inoltre che sia posta fine all’uso illegale delle armi da fuoco contro gli afgani alla frontiera e che i responsabili delle violazioni dei diritti umani nei loro confronti, comprese uccisioni e torture, siano chiamati a rispondere delle loro azioni”, ha aggiunto Forestier.

Oltre alle richieste a Iran e Turchia, Amnesty International ha sollecitato la comunità internazionale a fornire sostegno finanziario e materiale agli stati che ospitano un gran numero di afgani, inclusi Iran e Turchia. Nel farlo, la comunità internazionale dovrà però evitare di contribuire a violazioni dei diritti umani: l’Unione europea ha già erogato fondi alla Turchia per costruire un nuovo muro alla frontiera con l’Iran nonché svariati centri di espulsione nei quali si trovano molti afgani. Altri stati dovrebbero aumentare le opportunità di reinsediamento per gli afgani che necessitano di protezione internazionale…

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Redazione
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Un commento

  • Alberto Campedelli

    E’ , direttamente salvo poi fuggire lasciandoche per più di 20 anni un popolo, quello afgano, sia in guerra sia interna che esterna, conducendo la popolazione alla disperazione, senza anche il minimo per vivere, Le colpe di tutto questo ricadono sull’occidente capitalista che ha voluto fare dell’Afganistan terra di conquista, Di che cosa rimane un mistero. Dopo il ritiro delle truppe NATO (dove in qualche modo era implicata anche l’Italia) si e’ scatenata la guera civile di breve durata visto la preponderante forza dei talebani che godono anche dell’appoggio della popolazione. Siamo al disastro più completo…! Senza che nessuno abbia voce in capitolo. Dobbiamo solo inviare aiuti umanitari a quei disperati, primi fra tutti donne, bambini e vecchi. Ora i talebani si fanno forza di una pace imposta più simile a una dittatura, e noi siamo completamente impotenti. Ecco a cosa portano le guerre per procura dell’occidente capitalista, condotte alcune volte anche direttamente. E’ scandaloso…!

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