L’alba dei vivi viventi

Un racconto di Riccardo Dal Ferro

viventi viventi2Vi presento Samantha.

Samantha ha 14 anni, e di fronte a lei un bel piatto di cervello caldo, fumante, la mamma amorevole eppure inespressiva le poggia sulla tavola scarsamente imbandita quel pasto succulento, lo taglia in quattro pezzi, ne porge un lembo a papà e a Gomi, il fratellino di 6 anni. Si avventano sul molliccio piatto prelibato, ficcando la faccia nei risvolti inerti delle meningi, e scompaiono nel tentativo di saziare una fame senza nome.

Fuori da quelle mura scrostate la folla dei vicini è in cerca di un altrettanto lauto pasto, ma ormai la crisi si sente per tutti, il contagio spaventa, i corpi interrati cominciano a scarseggiare. Alcuni si accontentano di qualche morso ad un animale lento a sufficienza per poter essere catturato, ma la condizione della gente di questo piccolo paesino del nord-est (di cui per decenza eviterò di fare il nome) non permette di saziarsi con un coniglio o un piccolo cane moribondo.

La famiglia di Samantha, lontana da occhi indiscreti, consuma quel cervello in famelici bocconi attenti, è il primo cervello dopo quasi tre settimane di digiuno.

La vita di Samantha trascorre pacifica, come pacifica è la comunità nella quale vive. Il padre porta avanti un’attività di demolizione manuale, sbriciolando qua e là muretti e muriccioli con la forza dei pugni. Lui non vuole accettare il contagio, è uno di quelli che con maggior determinazione cerca di evitare di cadere in quella maledizione così cruenta, ed è sempre molto attento al benessere della propria famiglia. La mamma passa almeno la metà della propria giornata osservando vacuamente una parete bianca della casa, il grembiule che indossa ha ormai almeno 30 anni, consunto e macchiato di sangue. Ma la famiglia di Samantha non bada granché alla moda.

Gomi è un bimbo dai gusti semplici, il suo hobby preferito è camminare in mezzo alla strada, insieme a sua sorella, mettendo faticosamente un piede davanti all’altro, evitando al tempo stesso di inciampare e sbattere contro le carcasse delle auto ammucchiate sull’asfalto, circondati da edifici abbandonati nei quali, di tanto in tanto, cerca rifugio uno degli abitanti di quel paesino dimenticato, conficcato in mezzo a una delle valli tra il Friuli e il Veneto, popolate da letti di fiume ormai aridi e privi di vita.

Ora, fatte le dovute presentazioni, io devo raccontarvi una storia, signore e signori. Perciò mettetevi comodi, sarà una difficile traversata, perché vi racconto di come Samantha è diventata umana.

Di com’è iniziato il contagio esistono versioni discordanti. Certo è che la velocità con la quale esso si è diffuso ci ha presto portati a questo punto della situazione. Ovviamente, la memoria è un sintomo da poco conquistato, perciò pochi tra i nostri eroi potranno davvero raccontarvi di com’era la vita, se così la possiamo chiamare, prima dell’epidemia.

Samantha sta camminando lenta e inesorabile, la giornata soleggiata non lascia spazio al sospetto che qualche cosa di terribile stia per accadere. Gli occhi della nostra ragazza sono come sempre vuoti e bianchi, la pelle si sfalda un centimetro alla volta, il respiro affannato è un rantolo di ingiustizia. Nella sua mente c’è solo nebbia, è come un televisore sintonizzato su un canale privo di segnale. Trascina i piedi sul selciato, circondata da altri personaggi in tutto e per tutto simili a lei: alcuni privi di capelli, altri la cui pelle è butterata da intemperie e infezioni, alcuni privi di arti, occhi, naso, piedi. Nessuno parla, la parola richiede pensiero e profondità, ma la mente di tutti è costantemente proiettata a un eterno presente, è il loro puro esserci, nient’altro. Niente passato, niente futuro.

A ben guardare, sembra quasi un ritratto di serenità, quello che abbiamo di fronte.

Dimitri cammina storto e si affianca a Samantha. Il suo passo è goffo, un ginocchio fratturato gli impedisce di mantenere un’andatura snella, una mano è penzolante, come se un cane si fosse divertito a mangiucchiarne le membra, stufandosi poi di martoriarle. La ragazza non si accorge del suo simile che le si avvicina; di solito si accorge solo dell’odore di carne, dell’aroma di cervello fresco o di sangue, perché tra tutti i cinque sensi, solo l’olfatto è rimasto un efficace mezzo di contatto con l’ambiente circostante. È proprio per questo che, quando quello strano suono poco familiare le si insinua nelle orecchie, Samantha reagisce come se una lama affilata e ghiacciata le si fosse conficcata nelle carni. Ha uno spasmo, trema, non comprende cosa è successo, e non lo comprenderà ancora per qualche tempo. Dimitri al suo fianco muove la bocca screpolata e insanguinata, gli occhi meno grigi, la pelle più rosea. Samantha continua ad essere cadaverica, morta come lo sono tutti quelli che camminano su questa strada, ma ciò che sente la scuote, anche se non riesce a decifrare che cosa sia, come un uomo che d’un tratto cade in un fresco e impetuoso torrente, dopo essere stato privato dell’acqua per decenni.

Samantha non sa che il contagio ha appena colpito anche lei. Riprende a camminare, e anche se è appena cambiata radicalmente, non lo sa.

Samantha osserva il piatto di cervello che ha di fronte. Sono passate due settimane dall’ultima volta in cui ha sbocconcellato meningi e morso un ipotalamo. Sono passati cinque giorni dal momento in cui è stata contagiata, ma ancora non se ne rende conto. Osserva la corteccia prefrontale che giace morta sul tavolo e non la tocca, mentre papà, mamma e Gomi si divorano le rispettive porzioni di quella gustosa prelibatezza. Samantha non si muove, una smorfia di disgusto le attraversa improvvisamente il viso e, nella nebbia che regna nella testa, un pensiero le si fa strada: «Che schifo!» Le fa quasi male, un lancinante dolore illuminato cui non sa dare nome. Si chiama “pensiero”, ma lei non può saperlo, non ha mai pensato. Papà si accorge che la figlia non ha intenzione di mangiare il cervello, e lui, che proprio non pensa affatto, non ci pensa di certo due volte: con una mano afferra la molle preda e se la ficca nella bocca deformata dalla lebbra e dalle infezioni, la morde, se la inghiotte, con sguardo vitreo.

Non ha la forza di sospettare della figlia, ma lei è quasi sollevata di aver evitato di ficcare i denti nell’aracnoide che per la prima volta non le ha fatto salire acquolina e bile alla bocca.

Ma quella stessa sera capita qualcosa di ancora più strano. Mentre Samantha sbadiglia (e si chiede che cavolo sia quel gesto, quello stiramento di nervi, ma forse la cosa più incredibile è proprio il fatto che se lo stia chiedendo!), sente un fruscio fuori dalla finestra. Si alza, la sera è scesa e pochi zombie sono ancora in giro per le strade, quelli che hanno più fame e ancor meno speranza di saziarla. Dimitri sta in piedi davanti alla finestra di quello che un tempo poteva essere un salotto, tiene in mano qualcosa, sembra una mattonella, ma in realtà non lo è. Senza sapere bene perché, la ragazza apre la finestra e si affaccia al davanzale, osserva il suo strano spasimante al chiaro di luna, i vestiti gualciti e strappati, il naso penzolante verso destra, ma la pelle più bella che avesse mai visto. «Bella? Che significa bella?» si chiede Samantha, ma viene distratta da una cosa straordinaria. Dalla bocca butterata di Dimitri esce un suono che lei ha sentito qualche giorno prima, ma che allora non aveva decifrato. Il suono esce dalla gola del ragazzo che, dopo aver aperto tra le mani quella strana mattonella, recita: «Non è morto ciò che riposa in eterno, e in epoche strane anche la morte può morire.» Dimitri chiude il libro e dice, con quella voce roca e fastidiosa: «Hai mai letto Lovecraft?»

Quello che accade dopo ha un che di straordinario. Samantha percepisce chiaramente un crepaccio che le si apre proprio dentro la testa, come il crollo di un pavimento sotto il quale erano seppelliti tesori inestimabili. Mentre si accorge di comprendere perfettamente quegli strani suoni pronunciati da Dimitri, nonostante non avesse mai sentito prima alcuna “parola” in morte sua, sente le ferite della pelle che si rimarginano, e la vista le si rischiara, mostrandole con più autenticità l’immagine del ragazzo che di fronte a lei si staglia. I suoi lineamenti sono graziosi, e forse ha qualche anno in più di lei. Samantha si accorge che sul suo volto c’è un sorriso, e lei lo ricambia sottilmente, per la prima volta nella sua vita.

Quando alcuni crudeli rantoli in lontananza segnalano che gli zombie si sono accorti dell’anomalia, Dimitri nasconde il libro sotto la camicia sudicia, si volta verso Samantha e le fa l’occhiolino.

«Che avrà voluto dire con quel gesto? Non lo so, ma mi è piaciuto.» Samantha chiude la finestra, si volta verso il centro del soggiorno e scorge a terra una cosa che non aveva mai notato prima, probabilmente perché non le interessava. Nella polvere dei calcinacci c’è un altro di quegli strani oggetti. Lo solleva, si siede e lo apre sulle gambe. Incredibilmente riesce a leggere, e sulla rigida copertina c’è scritto “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Al suo interno, mentre mamma, papà e Gomi stanno al piano di sopra a sbattere la testa contro le pareti, mal sopportando l’astinenza da carne umana, la ragazza ci trova un mondo senza fine, e legge avidamente, ritornando a pensare alcune cose a lungo dimenticate.

Non voglio raccontarvi che tutto è stato rose e fiori. Spesso il risveglio è più traumatico di qualsiasi sonno in cui siamo caduti.

Ad esempio, ora potete osservare Samantha che viene scoperta da papà mentre sfoglia un altro libro trovato sotto una catasta di ossa umane: “Finzioni”, di Borges, e uno zombie di famiglia non è contento di vedere che la propria figlia si intrattiene con compagnie poco raccomandabili. Il rantolo di papà diventa una specie di urlo roco, la ragazza si scansa mentre lui cerca di afferrarla con una mano, e al piano di sotto mamma zombie chiude le orecchie al piccolo Gomi perché non senta la furia omicida che imperversa, ma Samantha è più agile e veloce da quando la muscolatura ha preso a tonificarsi, abbandonando l’atrofia a causa del contagio. Dopo qualche salto e piroetta per non farsi afferrare dalle mani putrefatte di papà, la ragazza esce dalla finestra e si cala giù per la grondaia, accorgendosi che nel giardinetto Dimitri l’attende. Lui la afferra per la mano e scappano via veloci, inseguiti da alcune orde di zombie che hanno annusato l’odore di una carne non macilenta come quella cui sono abituati.

Ma i ragazzi, più veloci dei morti viventi, riescono a fuggire.

«Che cosa sono questi?» chiede Samantha, una volta che sono in salvo dai famelici zombie. Il tugurio di Dimitri è in tutto e per tutto simile alla casa della ragazza, le pareti scrostate e rovinate dal tempo, il pavimento coperto di calcinacci, ma sui muri sono appese strane immagini colorate. «Sono dipinti, risponde il ragazzo, sono un’altra prova del fatto che non siamo sempre stati così.» La voce di Dimitri è più limpida della volta scorsa, ma anche la ragazza ha preso un colorito diverso, e gli occhi non sono più grigi, ma di un azzurro intenso (vi posso assicurare che Dimitri se n’è accorto, di questo).

«Com’è iniziato tutto?»

«Non so, esistono versioni discordanti, noi untori crediamo che sia stato il ritrovamento casuale di qualche libro o dipinto, ma non sappiamo chi è stato il primo», risponde Dimitri, euforico per essere riuscito a contagiare una ragazza come quella.

«Ma come, ne esistono… altri?» La voce di Samantha è spezzata, combattuta tra l’eccitazione di una comunità di risvegliati, e la paura che costoro possano rappresentare una minaccia per la sua famiglia.

«Certo, siamo in tantissimi, sempre di più!» La risposta audace di Dimitri infonde improvvisamente in Samantha una sicurezza profonda, quella cioè di star facendo la cosa giusta, perché ciò che percepisce ora nella sua testa è finalmente qualche cosa di concreto, non la nebbia offuscata che le impediva di sentire altro al di fuori dell’odore di sangue e cervello.

Purtroppo, come il ragazzo ben spiega alla sua nuova amica, non tutti là fuori possono essere risvegliati. Dobbiamo ucciderne molti, quelli refrattari alle parole che abbiamo da legger loro, quelli più aggressivi che non hanno intenzione di ascoltarci, perché hanno perduto anche l’ultimo briciolo di possibilità di essere salvati. «Ricominceremo, ma in pochi, e da pochi ricostruiremo tutto», dice Dimitri, mentre una leggera lacrima gli scende sul viso ancora leggermente butterato dalle infezioni che stanno mano a mano scomparendo.

La mano di Samantha incontra quella di Dimitri, per la prima volta dopo tutta una morte, la pelle dei due è calda, il sangue ha ricominciato a circolare e, senza essere troppo audaci, possiamo dire che sono tornati ad essere vivi; ritrovano finalmente il contatto con un’altra anima e, se non vi dispiace, ora li lasciamo soli, in silenzio a guardarsi per un po’.

Mentre un’orda di zombie mi rincorre, io recito loro alcune poesie di T.S. Eliot ad alta voce, il libro nella mano sinistra, un’accetta nella destra, per allontanare a colpi di lama quelli poco interessati alla lettura. «The butterfly that lives a day / has lived Eternity», io recito, quasi cantando, e alcuni tra i miei aguzzini cadono per terra, come intontiti, assaliti da qualche pensiero di bellezza, o forse di curiosità, inesorabilmente contagiati da ciò che è più umano. Altri continuano ad avanzare per fermare quello che ai loro occhi è uno scempio, io sono l’untrice, ma sono più veloce, e la fame non permette loro di essere lucidi e svelti quanto basta. Dimitri ne colpisce alcuni con una mazza, staccando la testa di defunti, e nel frattempo, a trenta metri da me, recita passi di Shakespeare e Kafka, canta Pink Floyd e Turandot, diffondendo il virus ormai inesorabile.

Stiamo diventando umani, pian piano, un’infezione alla volta.

Mamma e papà hanno dovuto arrendersi alla mia ascia, ed è stato doloroso constatare che i versi offerti loro non avrebbero sortito l’effetto sperato. Ma il piccolo Gomi, quando ha sentito la mia citazione dal Piccolo Principe «Si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere le farfalle… Dicono siano così belle», si è come destato, e i suoi occhi hanno preso colore, un verde smeraldo che non avevo mai visto. Ora lui sta riposando, a casa di Dimitri, e sarà uno dei più giovani risvegliati.

Ecco, vi ho raccontato di come sono diventata umana. Mi chiamo Samantha e ho 14 anni, ero zombie, ma Lovecraft mi ha risvegliata. Anzi, è stato Dimitri, il mio untore preferito.

Ora ti leggo queste parole proprio per contagiare anche te, vedo che i tuoi occhi diventano mano a mani più chiari, la tua pelle purulenta e infetta sta riprendendo colore, i tuoi rantoli mano a mano più simili a una risata cristallina. Vedo che ti stai svegliando, penso tu sia sulla strada giusta. Continua a leggere, ad ammirare, a stupirti, ma soprattutto a “sentire” il mondo che ti circonda, e tornerai ad essere umano.

Noi siamo gli untori, e rimetteremo in piedi il mondo, uno zombie in meno alla volta, una citazione di Dumas alla volta.

Il contagio è iniziato, e non si può fermare.

Perché quando il mondo finisce, in realtà lo fa solo in attesa che qualcuno ricominci da capo.

Riccardo DAL FERRO

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