L’anima e il muro

di Alexik

lanima-e-il-muroSe vi dovesse succedere di finire in carcere, guardate cosa c’è nelle celle. Sappiate che per ogni cosa che vedete, il fornelletto, il libro, la penna … è stato pagato un prezzo”. Nel prezzo, le vite di Gerhard Coser, Marcello Mereu, Enrico Delli Carri, bruciati vivi a vent’anni in una cella, durante una protesta del luglio 1970 a San Vittore.

Chi li ricorda è Sante Notarnicola, durante una delle numerose presentazioni del suo “L’anima e il muro”, edito l’anno scorso dalla Odradek. L’anima e il muro è una raccolta di poesie scritte prevalentemente in prigionia dal 1955 al 2012, impreziosita dai disegni di Marco Perroni. La lunga introduzione e le note di Daniele Orlandi la rendono però anche un libro di storia. È la storia dei “Dannati della terra”, di quell’intensa stagione di lotte che riuscì, in pochi anni, a rivoluzionare il carcere, qualche volta a distruggerlo.

Una storia di segrete medioevali, come quella di Volterra, costruita dai Medici nel 1334, o Castel San Giacomo di Favignana, ex colonia penale borbonica, la cui prima pietra posero i Normanni nel 1074 (entrambe, peraltro, ancora pienamente in funzione). Celle dalle finestre murate, tombe per i vivi, al cui interno il fatto di esistere era già di per se un reato perseguibile. Inferni strutturati per piegare, annichilire, così descritti in una lettera del 1970: “mancanza di servizi igienici, topi che salgono dalle fogne e passeggiano per le celle, scarafaggi, cimici che disegnano coreografie sulle pareti e sulle lenzuola, mancanza di spazio vitale, ossigeno insufficiente d’estate, freddo e umidità d’inverno, celle che sembrano bare per cadaveri viventi, degradazione fisica e psichica, trattamento terroristico, pestaggi, letti di contenzione, insufficienza sanitaria, privilegi, discriminazioni di ogni tipo, assenteismo e noncuranza per migliaia di uomini che raggiungono il completo sfacelo della propria personalità1.

Clandestina era la carta e il mozzicone di matita, così come l’aiuto al compagno analfabeta, perché insegnargli a leggere e a scrivere poteva costarti le celle di rigore.

Marco Perroni: ritratto di Sante Notarnicola.

Marco Perroni: ritratto di Sante Notarnicola.

In queste carceri siffatte, alla fine degli anni ’60, le mille insubordinazioni individuali – tragiche, sempre sconfitte – cominciarono ad unirsi in un’unica grande, ribellione collettiva. Una trasformazione, che per quanto lui si schermisca, avvenne anche grazie all’autore di questo libro. Notarnicola portò fra quelle mura, prima di altri, la sua esperienza di organizzatore politico e combattente sociale, quella capacità cresciuta al suono dei racconti partigiani, e maturata poi nel lavoro di base nei quartieri operai di Torino, negli anni durissimi di Scelba e di Valletta.

Non fu da solo: “Io ebbi la fortuna di essere arrestato nel momento giusto, di trovare i ragazzi giusti”. Nel ’67, l’anno in cui venne preso, la composizione sociale del carcere non differiva in maniera sostanziale da quella della fabbrica. L’umanità su cui lavorare era la stessa, e proveniva da contesti familiari e sociali non estranei all’organizzazione collettiva del conflitto.

Bisognava smuoverla, trovare le parole adatte per farla riconoscere in una comunità solidale, tanto più unita quanto più era assoluto l’arbitrio e la violenza a cui veniva sottoposta. Notarnicola queste parole seppe trovarle.

E furono le prime fermate all’aria, i mattoni divelti da sbattere, in centinaia, sulle sbarre, contro il regolamento penitenziario di epoca fascista. Nei processi, trasformati in occasioni di pubblica denuncia, era il sistema penitenziario a salire sul banco degli imputati.

Fuori da quelle mura nel frattempo tutto veniva messo in discussione: la fabbrica, la scuola, l’intera società. Le prigioni non potevano rimanerne immuni. Presto in quelle celle arrivarono gli anarchici, vittime dell’infame montatura che seguì la strage di Piazza Fontana, e cominciarono ad entrare in massa anche i ragazzi del movimento studentesco, per gli arresti che seguivano, puntuali, ogni manifestazione.

Vennero accolti dalla solidarietà galeotta, sempre pronta a medicargli le ferite, a fargli coraggio. E loro ricambiarono, all’uscita, portando il carcere fuori dai cancelli, sui loro giornali, negli slogan dei cortei, nelle priorità delle organizzazioni di appartenenza. Ruppero l’isolamento, e questo fu di vitale importanza, perché le rivolte dentro quelle mura non fossero soffocate nel silenzio.

A pieno titolo esse divennero parte integrante di un movimento generale. Con una variante: là dentro lo scontro non aveva vie di fuga, il prezzo da pagare era molto più alto. Costava sangue conquistare il tetto, arrivare in alto, dove da fuori potevano vederti. Lunga la strada dal cortile alle celle, dove i reparti speciali ti ricacciavano colpendoti senza pietà. E poi i trasferimenti continui, improvvisi, i pestaggi, nudi, nel cortile di Volterra, e mesi di isolamento, le celle distrutte dalle perquisizioni, lettere e foto strappate. Nuovi anni di galera da scontare.

Eppure non riuscirono a fermarli. Con le rivolte vennero anche i primi risultati: prima la penna, poi i libri, i giornali non più ridotti in coriandoli dai tagli della censura, il fornello, la stampa politica, ma soprattutto sempre maggiori spazi di libertà … fino a quella vera: nel 1974 evasero 221 detenuti dalle carceri italiane, nel ‘75 furono 300, nel ‘76 443.

Nel 1975 la Riforma penitenziaria sostituì definitivamente il regolamento del ’31, passando (nella teoria) da una concezione unicamente punitiva ad un’altra imperniata sulla rieducazione e reinserimento sociale del detenuto. Poteva sembrare una vittoria, ma durò poco. Due anni dopo venne affidata a Dalla Chiesa una ricognizione delle peggiori carceri italiane, da riservare principalmente alla detenzione politica. Con decreto interministeriale, si istituirono le carceri speciali.

Marco Perroni: ballerini sulla spiaggia.

Marco Perroni: ballerini sulla spiaggia.

L’anima e il muro ripercorre questa storia, ma anche gli aspetti più intimi del vissuto in prigionia. Canta Notarnicola, l’amore ai tempi delle sbarre: la separazione, l’attesa, l’assenza riempita di sogni. Canta frammenti di vita, frammenti di cielo sottratti a una grata di ferro, frammenti di luce nel sorriso di lei, dietro un vetro divisorio. Canta le umiliazioni inflitte ai familiari, l’orizzonte negato, il sottile sadismo e le risa sguaiate dei guardiani.

Canta del pianto di Antonio Salerno, il più piccolo prigioniero di Badu’e Carros, rinchiuso assieme a sua madre. Antonio che fu accudito dalla comunità delinquente, il giorno che tacquero i televisori, e i litigi e le urla della galera, perché il bambino stava male e nessuno mandava un soccorso. E si fece silenzio, spaventoso silenzio, fino a quando un dottore dovette arrivare di corsa per evitare che il carcere esplodesse di odio.

Canta degli antifascisti, passati un tempo in quelle stesse celle, dei compagni perduti lungo la strada. Delle ferite più profonde, quelle che non guariscono.

(questa recensione è stata pubblicata anche su Carmilla On Line)


  1. Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, 1973, p. 22 ↩
alexik

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