L’apartheid degli afroboliviani

di David Lifodi

La storia boliviana è caratterizzata dalle lotte di contadini, comunità indigene, minatori, movimenti sociali a difesa dei beni comuni, a partire dall’acqua, ma spesso passa in secondo piano una storia drammatica, quanto poco conosciuta, relativa agli afroboliviani, gli schiavi neri provenienti dall’Africa.

Sotto il dominio coloniale spagnolo, un sistema sociale basato sulla schiavitù e la servitù, gli schiavi africani da cui discendono gli attuali afroboliviani, erano considerati alla stregua delle bestie. Lo stesso Bartolomé de las Casas, che pure è noto per il suo impegno a favore delle comunità indigene, altrettanto vessate al pari degli schiavi africani, non fece niente per quest’ultime. Non solo: i colonizzatori spagnoli (ma anche inglesi e portoghesi), credevano che la forza fisica di un nero equivalesse a quella di quattro indios, per questo li utilizzavano in lavori sfiancanti e costituirono delle compagnie dedicate esclusivamente alla tratta degli schiavi africani. Tra il 1510 e il 1791, l’anno in cui fu abolita la tratta degli schiavi, furono milioni gli africani rapiti a forza dalle proprie terre e condotti in America Latina, incatenati come animali e sottoposti a traversate in alto mare in condizioni disumane fino a condurli nella città boliviana di Potosí, dove furono utilizzati nell’estrazione del rame, dell’argento e dell’oro. Potosí divenne il maggior centro di sfruttamento nei confronti degli schiavi neri, vittime del colonialismo occidentale: nemmeno il libertador Simón Bolívar, che pure aveva proclamato la lotta contro la schiavitù, fino a promulgare un decreto che sanciva la libertà degli schiavi africani, riuscì a migliorare le condizioni di vita di neri e indios in un paese dominato dalle elites di criollos (i bianchi nati in America Latina) e meticci. La cosiddetta Bolivia negra tuttora non esiste nemmeno sui libri di storia, dove peraltro si continua  a raccontare esclusivamente la versione dei vincitori, i colonizzatori, ma se si parla degli indios, anche soltanto allo scopo di dimostrarne la loro inferiorità in chiave razziale, gli afroboliviani, semplicemente, non esistono, vittime di una sorta di apartheid durata almeno fino alla rivoluzione nazionalista del 1952. Fino a quel momento, neri e indios non potevano entrare nei luoghi pubblici, né camminare per le strade dei quartieri residenziali delle grandi città, per volere della minoranza bianca e meticcia. Nel corso dei secoli gli afroboliviani non avevano nemmeno diritto ad un documento d’identità e non erano iscritti all’anagrafe nazionale, anche se il 25 settembre 1840 il trattato tra Bolivia e Gran Bretagna sanciva l’abolizione del commercio degli schiavi. La rivoluzione del 1952 concesse ai neri il diritto di voto e quello di essere eletti, ma è stato solo con lo stato plurinazionale proclamato da Evo Morales che deputati neri si sono seduti sugli scranni dell’Assemblea legislativa. La presenza africana in Bolivia rivive oggi soprattutto nei festeggiamenti per il carnevale, a partire da quello più celebre, che si tiene a Oruro, dove una serie di danze ricordano la tratta e lo sfruttamento degli schiavi africani nei giacimenti d’oro e d’argento. Per anni gli afroboliviani, i cui antenati furono condotti nel paese andino soprattutto dal Senegal, hanno continuato ad incoronare simbolicamente il loro re all’interno della comunità contadina di Mururata: i cinquecento anni di resistenza indigena, nera e popolare furono celebrati da una cerimonia speciale nell’ottobre 1992. Purtroppo, anche ai giorni nostri, l’ignoranza sulla drammatica storia degli afroboliviani ha alimentato miti e credenze di stampo razzista. Ad esempio, era diffusa l’idea che gli afroboliviani avessero dei poteri magici e che tutto ciò che toccavano sarebbe stato di pessimo auspicio, tanto che le espressioni pasarlas negras o tener la suerte negra erano collegate proprio all’identificazione con la malasorte o, ancora peggio, con la cattiva salute, l’enfermedad. Tuttora, nonostante gli afroboliviani godano dei diritti civili, politici e sociali pari a quelli di tutti gli altri cittadini boliviani, nelle classi dominanti la popolazione nera del paese andino è comunque guardata con un certo disprezzo e la stessa teoria che i bianchi sono geneticamente superiori ai neri continua a tenere una certa cittadinanza.

In America latina, dall’epoca coloniale, neri e indios sono stati sempre emarginati socialmente per volere dei criollos, che hanno sempre goduto di vantaggi sociali ed economici, a partire dai possedimenti terrieri: lo stato plurinazionale, tra i suoi compiti, ha anche quello di rimuovere qualsiasi forma di razzismo e promuovere una versione storica che non sia più quella dei vincitori o delle elites dominanti.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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