L’arresto di Julian Assange e Wikileaks

Due articoli di Gennaro Carotenuto e Franco Berardi

Wikileaks: la vera storia della pubblicazione senza filtri degli archivi
di Gennaro Carotenuto (settembre 2011)

Nei giorni dell’arresto di Julian Assange a Londra, ripubblico su Academia.edu una mia breve nota del 2011. Chi scrive fu all’epoca delegato dal settimanale Brecha di Montevideo a viaggiare a Londra, firmare il contratto con Wikileaks, ritirare i documenti in quel momento segreti, e collaborare a collazionarli. Sono pertanto cosciente che nessun giornale, neanche il mio, rispettò quel contratto predisposto da Wikileaks, che garantiva tutti i soggetti interessati. Oggi Julian Assange viene massacrato da quella stessa grande stampa che, all’epoca, fece la fila per ottenere ciò che oggi stigmatizza.

La decisione di Wikileaks di rendere disponibile per intero e senza filtri il suo archivio di 250.000 documenti diplomatici statunitensi, rappresenta una delle più grandi sconfitte nel- la storia del giornalismo. Julian Assange e il suo gruppo aveva infatti per mesi creduto che la stampa, i più grandi giornali del mondo nella fattispecie, dal New York Times al Guardian a El País, avrebbe rispettato i patti, sanciti in un preciso contratto firmato da tali me- dia e presentato anche da questi come grande fattore di democratizzazione dell’informazione. Non è andata così.

Da sempre, in tutti i paesi, gli archivi diplomatici sono filtrati da alcune specifiche profes- sionalità, archivisti, diplomatici, uomini dei servizi di sicurezza che agiscono sulla base del criterio di interesse nazionale, nella forma declinata da tali apparati. Tali funzionari stabili- scono, in genere a distanza di 30 anni, quali documenti sia di interesse nazionale divulgare e quali siano ritenuti così sensibili da essere, in parte o del tutto, necessario rinviare ai po- steri, apponendo segreti di 50 o 100 anni, se non essere addirittura distrutti con procedure al di fuori della legge.

Il sogno di Wikileaks (informato di molta retorica sulla libera stampa e accecato dal dogma della pubblicità) era sostituire tali burocrazie statali con presunti rappresentanti di un inte- resse pubblico in perenne contrasto con l’interesse di “poteri forti”. Tali rappresentanti del pubblico interesse furono individuati nei giornalisti di grandi testate per lo più liberal- progressiste. Queste si impegnavano contrattualmente ad editare i documenti e inserire filtri (comunque considerati necessari dal gruppo di Assange), con l’unico criterio del ga- rantire la sicurezza delle persone nominate rispetto ad eventuali persecuzioni politiche. Ovvero: Wikileaks era cosciente che i filtri fossero necessari ed individuarono nei giornalisti i portatori di interesse pubblico in grado di apporveli. In cambio chiedevano che i giornalisti svolgessero tale ruolo onde permettere la pubblicazione dell’intero archivio. Le testate si impegnarono in tal senso.

I giornali contattati (chi scrive conosce in prima persona tale procedura per averla realizza- ta la scorsa primavera a Londra per il settimanale uruguayano Brecha, che mi delegò a firmare il contratto con Wikileaks) firmarono un contratto nel quale si impegnavano ad editare TUTTO il pacchetto di documenti a loro consegnati, e pubblicarli TUTTI sul sito di Wikileaks, indipendentemente dall’usare (e citare) il singolo documento in uno o più articoli. In cambio della prima esclusiva (l’unica cosa giornalisticamente rilevante) le testate si impe- gnavano così alla creazione di un enorme archivio pubblico che poteva essere consultato da privati cittadini ma anche da studiosi di varie discipline, storici, economisti, sociologi, politologi, specialisti di diritti umani. Per quanti dubbi si possano avere sulla sottrazione dell’archivio da parte di Bradley Manning [oggi Chelsea Manning, ndr], resta una fonte di straordinaria importanza.

Sulla base di tale preciso impegno di collazione e verifica integrale, sancito in due fitte pa- gine di contratto, le testate ricevevano i documenti su normali archivi Excel, passati brevi manu su pendrive ai delegati inviati a Londra dalle testate, tra i quali chi scrive. A seconda dell’importanza delle testate, e sulla base di criteri di suddivisione nazionale prima che te- matica, gli archivi contenevano molte migliaia di documenti, fino a 25.000 mi risulta.

La grande stampa però, una volta ottenuti i preziosi file, selezionò e pubblicò solo quello che alle singole testate sembrava interessante, qui e ora. Quindi iniziò una lunga scherma- glia con Wikileaks. Tutte le testate, dopo essersi impegnate diversamente, sostennero di poter da sole interpretare un interesse pubblico in grado di stabilire quali fossero i soli do- cumenti dell’archivio meritevoli di pubblicazione (neanche l’1%) per condannarne all’oblio (ricensurandoli di fatto) la stragrande maggioranza, senza procedere affatto a quell’opera di collazione alla quale si erano impegnati.

Chi scrive ne ha a lungo dibattuto tra gli altri con il presidente della FNSI, Roberto Natale, in un convegno dello scorso aprile all’ “Istituto Universitario Europeo” di Fiesole. In quella e in altre occasioni non è mai stato possibile convincere la stampa che vi potessero essere alternative all’esclusività del loro ruolo di mediatori del pubblico interesse. I giornali, che non avevano dubitato un attimo nell’accettare l’impegno contrattuale preciso a rendere disponibile l’intero rispettivo spezzone di archivio, una volta utilizzati i documenti, si scher- nivano dietro un presunto diritto di stabilire loro cosa fosse d’interesse pubblico e cosa non lo fosse. Il mondo dell’informazione – senza mettere all’epoca affatto in discussione la legittimità della diffusione dell’archivio – ne valutava in maniera presentista un esclusivo valore d’uso immediato, disinteressandosi a questioni come quella della completezza, del divenire storico dello stesso concetto di human interest che ritenevano di incarnare, o dell’analisi da parte di ulteriori professionalità, quali in particolare quelle dei professionisti delle scienze umane e sociali.

D’altra parte per Wikileaks, un’organizzazione quasi clandestina, far valere le proprie ra- gioni contrattuali in un processo sarebbe stato oltre l’immaginazione e sicuramente oltre l’ingenuità e il pressapochismo di chi la dirige che, nel mettere in discussione il potere dei media tradizionali, non trovava nulla di meglio che affidarsi a questi.

Ho provato senza successo a segnalare a Julian Assange e al suo gruppo più ristretto come il giornalismo commerciale non fosse compatibile col realizzare un progetto di tal portata, ma fosse solo utile a dare la massima risonanza mondiale all’evento Wikileaks. Questi hanno usato Wikileaks per spigolare alcune note di colore (i giornali italiani amarono per esempio rivelare cosa pensasse davvero Hillary Clinton di Silvio Berlusconi) e non molto al- tro, senza cogliere la sistematicità documentaria e d’insieme di quegli archivi. Ho provato a prospettare che gruppi di accademici selezionati in giro per il mondo avrebbero potuto, con più comprensione per l’idea stessa di archivio pubblico, assolvere al compito di colla- zione. Non sono stato ascoltato, temo innanzitutto per il fattore fretta con la quale il grup- po di Wikileaks ha sempre pensato fosse indispensabile pubblicare. Presentisti anche loro. Lo scorso marzo, con meno del 5% di documenti editati dai giornali, ancora si dicevano fi- duciosi di terminare tutta la pubblicazione entro giugno. Sbagliavano, ma soprattutto si erano affidati alle persone sbagliate: la stampa mainstream.

Insipienza, mancanza di risorse e di personale formato, malafede nel pensare di aver già ottenuto quello che volevano senza poi rispettare i patti, incapacità di comprendere la dif- ferenza tra l’interrogazione di un archivio da parte di un pubblicista e quella che oggi e nel futuro possano voler fare degli studiosi, erano alla base del tradimento dei patti. I giornali semplicemente – una volta realizzati i loro scoop – non avevano interesse né risorse per compulsare, editare, eliminare i dati sensibili, pubblicare, inserire tag, parole chiave e altri elementi di classificazione su una quantità di documenti che, per ogni testata, andava dalle 5.000 alle 25.000 unità.

Adesso i giornali si scandalizzano del fatto che Wikileaks dia in pasto al volgo documenti sensibili, saltando il loro sacrale ruolo di mediatori tra notizia e opinione pubblica. È evi- dente che in tale divulgazione vi sono dei rischi e delle responsabilità gravi da parte di Wikileaks. Nel leggere l’ipocrisia del comunicato di Guardian, New York Times, El País e Der Spiegel coglie un moto di disgusto. Scrivono: “difendiamo la nostra collaborazione con Wikileaks, ma siamo uniti nel condannare la non necessaria pubblicazione dei dati completi. La decisione di pubblicare l’intero archivio senza un previo controllo è di Julian Assange, e sua soltanto la completa responsabilità delle conseguenze”. Chiunque può invece farsi un’idea precisa sulla quota di responsabilità di Wikileaks e su quella dei grandi giornali.

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Perchè perseguitano Julian Assange15 aprile 2019

di Franco Berardi

Di quale colpa lo accusano? Perché i potenti della terra sono così arrabbiati con lui da perseguirlo in modo implacabile, o perfino auspicare (la democratica Clinton) che un drone lo possa ammazzare?

La colpa di Julian Assange consiste nel fatto che ha preso sul serio le parole e i concetti che stanno a fondamento della democrazia liberale e della cultura politica occidentale: verità trasparenza e democrazia.

Oltre a violare le regole fondamentali dell’etica dell’informazione, la prolungata aggressione contro Assange è un ripugnante atto di ipocrisia.

La filosofia di Wikileaks e l’avventura personale di Julian Assange sono fondate sulla incrollabile fiducia nella trasparenza e sull’efficacia dell’informazione.

Qui sta la forza di Wikileaks, qui sta la sua debolezza.Dico che la fiducia nella trasparenza è il punto debole di Wikileaks perché non credo nell’onnipotenza della verità. Il rapporto tra i segni e la realtà è diventato molto confuso, e la mente collettiva è sopraffatta da un flusso di stimoli info-nervosi, al punto che la trasparenza annega nella trappola del rumore bianco.

Il mondo sta ripiombando nel buio per eccesso di luce.

La vecchia età buia, che gli europei chiamano Medio Evo, era un effetto dell’estrema rarefazione delle interazioni sociali: regno del silenzio.

L’oscurità del nostro tempo è invece l’effetto della proliferazione illimitata delle fonti di informazione e dei flussi info-stimolanti, dello scintillare accecante di innumerevoli schermi. La facoltà di discriminazione critica e decisione cosciente è paralizzata, e prevale la tempesta di merda.

La censura, che un tempo fu il carattere essenziale dei regimi autoritari, è sostituita da un’esplosione semiotica che satura lo spazio di attenzione.

Dark Enlightenment è la formula che meglio cattura la percezione diffusa di un’imminente estinzione del progetto umanista.

Potere e segreto

L’azione di Wikileaks – irreprensibile dal punto di vista giornalistico – si fonda sulla premessa che il potere media-politico sia fondato sul segreto, e che perciò la verità sia sovversiva, liberatrice.

L’azione di Wikileaks si è ispirata al principio di trasparenza, e Julian Assange è perseguitato perché ha preteso di rivelare la verità (su certi bombardamenti americani in Afghanistan e su moltissime altre cose).

Rivelare il segreto, rendere trasparente l’azione del potere politico e militare è il fondamento della democrazia liberale.

Ma la democrazia liberale morta, quel fondamento è sgretolato, per cui la premessa da cui parte Wikileaks è filosoficamente discutibile, anzi a mio parere francamente sbagliata.

Cos’è il segreto? E’ il contenuto nascosto da un atto di occultamento. Da qualche parte sta la verità, nascosta in un cassetto. Se possediamo la chiave e possiamo aprire il cassetto dissolveremo il segreto e riveleremo la verità.

Ma il potere contemporaneo non si fonda più sul segreto.

Non c’è alcuna verità, alcun segreto nascosto in qualche cassetto.

Nella passata modernità il segreto giocava un ruolo preminente nell’elaborazione delle strategie dei poteri sovrani, il potere contemporaneo si fonda invece sull’esplosione della verità, sull’illimitata inflazione semiotica.

Il segreto è stato rimpiazzato dall’enigma infinito della tempesta di merda.

Se il segreto è l’effetto di un occultamento della verità l’enigma si fonda invece sull’infinita complicazione della verità che sfugge a ogni presa critica.

Nel regno del falso

Nella sua carriera di media-attivista e whistleblower Julian Assange ha svolto con efficacia eccezionale la sua missione di assertore della verità: ha denunciato i crimini militari, la corruzione economica, le menzogne dei potenti.

Ma al tempo stesso, e forse contro le sue stesse intenzioni, è diventato strumento del Caos, che è il vero imperatore del mondo contemporaneo.

Il retroterra culturale di Wikileaks è l’illusione puritana: il linguaggio è uno strumento della verità o uno strumento della menzogna, e le enunciazioni possono essere identificate in modo non ambiguo come vere o false, corrette o scorrete, buone o cattive.

Ma questa premessa non serve per capire il panorama psichico e sociale contemporaneo.

La mera identificazione di quel che è vero e quel che è falso può produrre effetti politici nefasti. Per esempio rivelare le frodi avvenute nel partito democratico durante la campagna elettorale del 2016 fu legittima dal punto di vista strettamente morale. Ma il contesto politico in cui avvenne quella rivelazione trasformò la verità fattuale in un servizio all’Imperatore del Falso, Donald Trump.

L’astratta adorazione della verità può condurre a effetti paradossali: in nome della purezza, Wikileaks è stata usata da coloro che mirano a distruggere le strutture e le condizioni culturali della civiltà umana.

Il panorama culturale della società semio-capitalista, invaso da flussi innumerevoli di info-stimolazione si può descrivere come un labirinto iper-barocco. Nella relazione tra il puritanesimo e il barocco il barocco è inevitabilmente vincitore, perché il Caos sempre prevale sull’ordine, e il rumore artificiale vince contro le distinte voci umane.

La persecuzione di Assange deve finire, perché la sola cosa di cui Assange è colpevole è la sua ingenuità filosofica: ha creduto nella forza dell’etica, della verità e della democrazia, proprio quando etica verità e democrazia hanno fatto naufragio.

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Redazione
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Un commento

  • Daniele Barbieri

    Sono più d’accordo con Carotenuto che con Berardi: credo che (anche senza perseguire il feticcio della Verità con la maiuscola) le notizie continuino a servirci pur nella “tempesta di merda” che ogni dì ci affligge. La selezione ognuna/o se la fa con l’esperienza e le verifiche possibili; magari anche tornando a discutere collettivamente. Come in parte già accade: c’è chi perde tempo dietro ogni commento (o tg) e chi invece seleziona le fonti e studia per conto suo. Anche per questo io credo – ma qui Berardi mi pare d’accordo – sia giusto tentare di tirar fuori Assange dalle grinfie dei potenti, mobilitandoci in vecchi e nuovi modi. Intanto come non far finire nel cestino i più preziosi materiali di Wikileaks? Per ora l’unica cosa che mi viene in mente è di fare una selezione delle denunce più importanti e scomode di Wikileaks chiedendo a una “ragnatela” di siti e blog di partire con “una settimana Assange” cioè di pubblicarne uno al giorno; e poi si vedrà. Chi può fare la selezione dei materiali? Io l’ho proposto al gruppo di «giornalisti-indipendenti-attivisti» che sta prendendo forma grazie a due incontri organizzati da PRESSENZA. Ma se la rete si allargherà (o se altre proposte verranno) questo piccolo blog volentieri darà una mano.

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