L’articolo 18 brucia

di Gian Marco Martignoni

Con una manifestazione oceanica, conclusasi a Roma nel Circo Massimo, la Cgil il 23 marzo 2002 stroncò sul nascere il tentativo del governo Berlusconi di cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970) che come ha sostenuto Carlo Smuraglia su «il manifesto» del 22-3 «equivale nel sistema del diritto del lavoro – mediante il diritto alla reintegra nel caso di licenziamento ingiustificato – al principio di uguaglianza nella Costituzione».

A dieci anni di distanza, in un contesto economico segnato da una crisi epocale, la cui durata è assolutamente non prevedibile, l’articolo 18 è ritornato sul banco degli imputati, poiché mistificatoriamente si vuole fare credere, attraverso una campagna mediatica ben orchestrata, che la permanenza della reintegra nel caso di licenziamenti “economici” sia d’impedimento agli investimenti; o, peggio, che la reintegra sia di freno addirittura alle assunzioni, contrapponendo garantiti a non garantiti, lavoratori “anziani” a quelli più giovani, come è nello stile dell’ideologia neoliberista, che in realtà mira ad aprire la strada ai licenziamenti facili sia nel settore privato che in quello pubblico, stante la spirale recessiva che ha investito l’Europa.

Pertanto, ha fatto bene la Cgil a ribadire la sua contrarietà all’ipotesi avanzata dal ministro del lavoro Fornero, proclamando 16 ore di sciopero, perché il diritto del lavoro non può essere mercificato con l’introduzione della conciliazione obbligatoria e il risarcimento economico, in quanto paradossalmente si tornerebbe al 1966, ovvero a prima della conquista dello Statuto dei lavoratori.

La reazione negativa della Cgil ha costretto Cisl-Uil e anche l’Ugl a riposizionarsi sulla bontà del modello tedesco, ove è il giudice che dirime l’eventuale contenzioso in materia di licenziamenti individuali ,mentre la Cei con monsignor Bragantini ha esplicitamente dichiarato che «il lavoro non è una merce».

Nel frattempo Giorgio Squinzi, che è diventato il nuovo presidente di Confindustria, prevalendo nella contesa interna su Alberto Bombassei sostenuto dalla Fiat di Marchionne, ha dichiarato su «La Stampa» del 24.03 «Comunque, non credo che sia l’articolo 18 a fermare lo sviluppo del Paese».

Si tratta di una dichiarazione importante, in quanto Marchionne ha svolto il ruolo di apripista rispetto alla rottura dei rapporti sindacali con la Fiom e la Cgil, contando rispetto al suo progetto autoritario di governo degli stabilimenti Fiat sul consenso subalterno delle altre organizzazioni sindacali.

Senonché la pratica anti-sindacale della Fiat è stata ripetutamente sanzionata dai pronunciamenti della magistratura, in particolare con la recente sentenza di reintegro dei tre lavoratori licenziati a Melfi e quella relativa all’estromissione della Fiom alla Magneti Marelli a Bologna, per via dei ricorsi promossi a valanga dalla Fiom, che si ritiene discriminata quale organizzazione più rappresentativa del settore metalmeccanico sia a livello nazionale che nel comparto dell’auto.

Che la Fiat non abbia di fatto ancora reintegrato i tre lavoratori a Melfi, pagandoli per non lavorare, è la cartina di tornasole di come il potere dell’impresa privata mal sopporti un potere a essa oggettivamente sovraordinato qual è quello assegnato alla magistratura dal nostro ordinamento costituzionale; e quindi prema sul potere politico, come nel caso del nuovo corso prospettato per l’articolo 18, per operare senza alcun freno legislativo e giudiziario di sorta .

Perciò, in questo quadro il Pd, che è approdato con l’infelice teorizzazione dell’equidistanza fra capitale e lavoro a un orizzonte compiutamente liberal-democratico, deve tenere in debita considerazione gli orientamenti e soprattutto gli interessi materiali della sua base elettorale.

Altresì, in ragione anche delle mobilitazioni spontanee che si sono sviluppate nei luoghi di lavoro tradizionalmente sindacalizzati, anche il decisionismo di Monti- Napolitano deve fare i conti, dopo la pessima controriforma delle pensioni, con il problema della riduzione del consenso popolare, giacché il governo dei presunti tecnici si è dimostrato e si dimostra tutt’altro che attento ed equo con il mondo del lavoro ed i pensionati.

D’altronde, gli scioperi effettuati in Grecia, quello del 23 marzo in Portogallo e quello del 29 marzo in Spagna contro le liberalizzazioni in materia di licenziamenti sono la testimonianza che l’articolo 18 non costituisce un’anomalia del nostro Paese, ma che vi è una linea organica promossa dal capitale a livello internazionale per ridurre le tutele del lavoro e riformare il sistema di contrattazione del salario, come si evince dalle raccomandazioni contenute nell’ultimo rapporto Ocse del 27-3 e inviato a tutti i Paesi membri (comprese Germania e Francia).

In ultima analisi, stante l’approfondirsi delle diseguaglianze sociali a ogni livello, bisogna essere ciechi o ingenui per farsi ingannare dai pronunciamenti favorevoli degli organismi sovranazionali alle misure contro il lavoro, non solo perché le tecnocrazie sono storicamente in conflitto con l’esercizio della democrazia, ma perché, in ragione della crisi di accumulazione che ha investito il mondo globalizzato dal biennio 2007-2008, il capitale deve rispondere alla caduta tendenziale del saggio di profitto con la progressiva svalorizzazione del fattore lavoro.

 

Redazione
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2 commenti

  • pian piano hanno risalito la Costituzione e sono arrivati a smantellare, se non formalmente, materialmente l’articolo 1 con la complicità di PD e CGIL che ora tentano di nascondersi dietro al dito, almeno la CGIL. Mi dispiace ma guardando la condizione materiale mia e di chi conosco non posso più credere a questa organizzazione e ai suoi leader che siedono ridenti a pranzo con un governo golpista

  • Da sindacalista della Cgil ti posso solo dire di aspettare e vedere cosa decidono gli organismi preposti in ultima istanza a espriemersi definitivamente.
    Personalmente penso che la nuova stesura non cambi PRATICAMENTE nulla (come ha segnalato Monti alla Marcegaglia) e che quindi sia da ritenersi irricevibile.

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