L’azzurro intenso del lapislazzuli che fa dannare l’Afghanistan

di Marina Forti (*)

MarinaForti-Lapislazzuli

Commercianti controllano lapislazzuli a Kabul, il 28 marzo 2016. (Rahmat Gul, Ap/Ansa)

 

Per secoli è stato il blu più ricercato nella pittura europea. Ha colorato il manto di infinite madonne rinascimentali e i drappeggi dell’età barocca. Era chiamato blu oltremare e nei trattati di pittura quattrocenteschi era definito “il più perfetto di tutti i colori”. Però era dannatamente costoso. Infatti è ottenuto dalla povere del lapislazzuli, pietra semipreziosa nota fin dall’antichità proprio per il suo azzurro intenso.

Pare che per abbassare i costi molti pittori usassero pigmenti meno pregiati, con solo un piccolo strato di “oltremare” in superficie. Ma oltre alla mano del maestro conta la qualità del colore: si dice per esempio che Tiziano non si sia mai abbassato a usare altro che il colore puro, che del resto arrivava attraverso il porto della sua Venezia, un hub del commercio globale dell’epoca.

Il lapislazzuli infatti veniva dall’Afghanistan. Era così fin dall’antichità, che fosse usato come pietra o come pigmento colorato, nelle decorazioni delle tombe reali nell’Egitto di cinquemila anni fa, la maschera funeraria di Tutankamon, o nei monili dei nobili. Dall’inizio dei tempi e almeno fino al diciottesimo secolo, ogni lapislazzuli in Egitto o in Europa arrivava dalle montagne del Badakhshan, in quello che oggi è l’Afghanistan nordorientale.

 

Una guerra d’impresa

Solo là si trovava la pietra blu intenso, a volte con venature dorate di pirite. Anche se ora si conoscono giacimenti nella regione andina del Cile, e in quella del lago Baikal in Russia, gran parte delle pietre (le migliori) arriva sempre da quelle montagne, brulle e aspre.

Ancora oggi dunque il lapislazzuli è la principale ricchezza del Badakhshan. Le miniere afgane sono gallerie scavate nella montagna per lo più con la dinamite, nulla di altamente tecnologico. Dalle miniere, i blocchi di pietra azzurra sono portati a valle, da uomini carichi come muli e poi in camion; prendono la via di Kabul e infine, in blocchi ancora grezzi, vanno per lo più in Cina, in parte anche in India.

Solo che l’esportazione di lapislazzuli non ha contribuito a rendere la provincia né più ricca né più pacifica. Piuttosto ha arricchito alcuni “signori della guerra” che si contendono da decenni il controllo del territorio. E poi, un’indagine recente conferma che i lapislazzuli fruttano milioni di dollari anche ai ribelli taliban. Global witness, l’organizzazione che ha condotto questa ricerca, dice che i lapislazzuli sono un nuovo caso di “minerali di guerra”: proprio come i “diamanti insanguinati”, quelli estratti nelle zone dell’Africa teatro di guerre civili, che finiscono per finanziare le parti in conflitto.

Nel gioco e nel Badakshan sono entrati i taliban che pretendono una parte del ricavato dalla vendita di lapislazzuli

Intendiamoci: qui parliamo di ribelli, “signori della guerra” e taliban, ma l’ideologia e le fedeltà politiche non c’entrano molto. “Questa è una guerra d’impresa”, una business war, spiega un commerciante ai ricercatori di Global witness (che per due anni ha studiato una delle maggiori miniere attive, intervistando autorità locali, imprenditori, commercianti, lavoratori, comandanti di milizie, “anziani” dei villaggi, operatori sociali e giornalisti).

La “guerra d’impresa” ha opposto prima due comandanti locali, Abdul Malek e Zulmai Mujadidi, entrambi allineati con il governo di Kabul e perfino appartenenti allo stesso partito (Jamiat-e islami, il più antico partito islamista del subcontinente indiano). Dopo la caduta del regime taliban, nel 2001, il primo è divenuto capo della polizia, l’altro comandante delle forze di sicurezza del Badakhshan.

 

La maledizione delle risorse

Per dodici anni la miniera è stata feudo personale di Mujadidi, anche se era in concessione a un’azienda privata. Poi nel 2014 il rivale Malek ha fatto un “golpe”, con i suoi miliziani. In zona, Mujadidi era malvisto: dicono che accumulava solo profitto personale. Di Malek invece molti intervistati dicono che fa lavorare la gente del luogo e aiuta tutti – anche se pare che tutto si limiti a un po’ di carità ai più poveri e qualche offerta alle moschee locali. In ogni caso, il padrone ora è lui.

Una bottega dove si lavorano i lapislazzuli a Kabul, 5 giugno 2016. (Mohammad Ismail, Reuters/Contrasto)

 

Poi però nel gioco sono entrati i taliban. Dopo il ritiro delle truppe occidentali (alla fine del 2012) il movimento ribelle ha aumentato la pressione, infiltrando anche il Badakhshan. E quando è arrivato a controllare la zona che dà accesso alla miniera, un anno fa, Malek ha dovuto scendere a patti. Secondo Global witness ci sono prove che di recente abbia accettato di dividere con i taliban i ricavati dei “suoi” lapislazzuli.

L’indagine stima che nel solo 2014 i lapislazzuli di quella singola miniera abbiano fruttato oltre 18 milioni di dollari a Malek e circa un milione ciascuno alle milizie dei Mujadidi e ai taliban, che però in seguito hanno aumentato la loro parte. Questo significa anche che ogni anno lo stato centrale perde royalty e tasse su quei circa 20 milioni di dollari (ma questo era vero anche senza i taliban).

In definitiva, “il più perfetto dei colori” finora ha portato a chi lo estrae solo violenza e corruzione. Si dice che sia la “maledizione delle risorse”.

 

(*) Ripreso, con le foto, da «Internazionale»; Marina Forti ha un suo blog: www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». (db)

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