Le donne sotto assedio
di Gloria Steinem e Lauren Wolfe («Can we end rape as tool of war?» per Cnn, 8 febbraio 2012; traduzione di Maria G. Di Rienzo). Gloria Steinem è scrittrice, editrice e attivista femminista: ha co-fondato «Ms Magazine» e «Women’s Media Center». Lauren Wolfe, giornalista, è la direttrice del progetto «Donne sotto assedio».
Dapprima avevamo pensato di cominciare questo pezzo con la storia di Saleha Begum, una sopravvissuta alla guerra in Bangladesh del 1971 nella quale, dicono alcuni rapporti, almeno 400.000 donne sono state stuprate. Begum fu legata ad un banano, ripetutamente stuprata da un gruppo e bruciata con sigarette per mesi, sino a che le spararono e la lasciarono per morta in una pila di altre donne. Tuttavia lei non morì, e fu in grado di tornare a casa, devastata e incinta di cinque mesi. Come ci arrivò, a casa, fu marchiata come “sgualdrina”.
Avevamo anche pensato di cominciare con la storia di Ester Abeja, una donna dell’Uganda che fu tenuta forzatamente come «moglie della foresta» dal Lord’s Resistance Army (Esercito della resistenza del Signore). L’essere continuamente stuprata con oggetti ha distrutto i suoi organi interni. I suoi catturatori l’hanno anche costretta a uccidere la propria figlioletta di un anno sfasciando la testa della bimba su un albero.
Ci siamo imbattute in dozzine di storie di donne come Begum e Abeja e infine abbiamo capito che era troppo difficile trovare quella giusta, e cioè la storia che avrebbe espresso esattamente come e in che modi la violenza sessualizzata è usata come arma di guerra per devastare le donne e distruggere comunità in tutto il mondo, conflitto dopo conflitto, dalla Libia alla Repubblica democratica del Congo. E’ a causa di questa complessità che dobbiamo capire come viene usata la violenza sessualizzata. Dobbiamo capire per poterla fermare: proprio come quando si cerca di disinnescare una bomba è cruciale conoscere i suoi componenti.
Sia l’Oms (Organizzazione mondiale per la sanità) sia il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno riconosciuto che manca una ricerca sulla natura e l’estensione della violenza sessualizzata nei conflitti, nonostante vi sia una crescente richiesta di migliori analisi da parte dei corpi delle Nazioni Unite, dei donatori e di altri per poter lavorare alla prevenzione e alla guarigione. E’ per tutto ciò che abbiamo dato inizio a un nuovo progetto a Women’s Media Center che sistematizza le specificità della violenza sessualizzzata nelle aree delle sue motivazioni e dei suoi schemi, delle sue ricadute, delle attitudini di genere e culturali che hanno condotto ad essa. Abbiamo chiamato il nostro progetto «Donne sotto assedio», perché quando si stuprano quattro donne al minuto solo in Congo, possiamo dire che non è nulla di meno di un assedio continuato. Ed è ora che cominciamo a metterci fine.
La violenza sessualizzata può essere la sola forma di violenza nella quale si biasima la vittima o si dice persino che la vittima ha invitato la violenza stessa. In guerra, lo stupro diventa la vergogna di donne, uomini, bambini, intere società. Lo stigma imposto su tutti colori che sono toccati da tale violenza rende quest’arma incredibilmente efficace come mezzo di distruzione del nemico.
Ma è fondamentale ricordare che non è sempre stato così. La violenza sessualizzata non è parte “naturale” di un conflitto. Per il primo 90% e più della storia umana, femmine e maschi hanno assunto ruoli bilanciati e flessibili. Le nostre posizioni sociali non erano basate sulla dominazione delle femmine da parte dei maschi. Esseri umani e natura, donne ed uomini, erano connessi piuttosto che sistemati in ranghi. Il cerchio, non la gerarchia, fu il principio organizzatore del nostro pensiero.
Analizzando come la violenza sessualizzata è stata usata come pulizia etnica, come in Bosnia; per forzare gravidanze che avrebbero letteralmente cambiato volto alla generazione successiva; o, come in Egitto, per arrestare il dissenso, possiamo guardare al futuro e possibilmente prevenire che ciò accada di nuovo. Per generazioni abbiamo ignorato o negato di aver conoscenza della violenza sessualizzata di massa inflitta alle donne ebree durante l’Olocausto. Le donne che sono sopravvissute ad aggressioni brutali sono state accusate di collaborazionismo per la propria sopravvivenza, proprio come, per esempio, una donna stuprata in Congo può non venire mai più riaccettata nel villaggio o in famiglia perché considerata colpevole.
Lo scorso anno, un libro dal titolo «Violenza sessuale contro le donne ebree durante l’Olocausto» ha gettato luce su come i nazisti perpetrarono stupri e umiliazioni sessuali su scala enorme. Pure, nulla di tutto questo è stato discusso o processato a Norimberga. Se lo avessimo saputo prima, ciò avrebbe aiutato a prevenire i campi di stupro nell’ex Jugoslavia? O lo stupro come arma di genocidio in Congo?
Nominare la violenza sessualizzata come arma di guerra la rende visibile – d una volta che sia visibile, perseguibile. Ciò che è accaduto agli uomini nel passato era politico, ma ciò che è accaduto alle donne era culturale. Il politico era pubblico, e poteva essere cambiato; l’altro era privato, persino sacro, e non poteva o persino non doveva essere cambiato. Chiarire che la violenza sessualizzata è politica e pubblica rompe questo muro. Riconosce che la violenza sessualizzata non è destinata a succedere. Quando la mascolinità non è più definita dal possesso e dal dominio di donne, quando la femminilità non è più definita dall’assenza di esperienze sessuali o dall’essere possedute, allora si ha un inizio. Ma prima, dobbiamo smettere di dire che la violenza sessualizzata è inevitabile e smettere di permettere che le vittime vengano biasimate.
Dobbiamo immaginare il cambiamento, prima di poterlo creare.