Le guerre (invisibili) del fascista Erdogan
Articoli di Murat Cinar e Chiara Cruciati. A seguire link su Nudem Durak (e altro)
La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara?
di Murat Cinar (*)
Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?
L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…
Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?
Le prime scelte
La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.
Atlantismo
La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).
Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.
Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.
Caro amico Putin
Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.
Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.
Con la Nato ma…
La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.
Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.
… It’s the economy…
La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.
… l’intermediario
Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.
Mediazione
Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».
La diplomazia di Twitter e le telefonate private
Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno
Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca
In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.
La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.
La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.
Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.
Mediatori sì ma non da soli
La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.
Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan
Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.
«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.
Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.
«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)
Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.
L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».
Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.
Oligarchi e oppositori già in Turchia
Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.
La storica attrazione per Istanbul
Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar”, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da Aytug Ozcolak su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?
I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.
Politica interna appesa ai colpacci internazionali
Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.
(*) ripreso da ogzero.org
Ai margini della Turchia
di Murat Cinar (**)
Dal fallito “golpe” del 2016 oltre 125mila fra militari, accademici, dipendenti pubblici sono stati licenziati. Esclusi dalla società e accusati di tradimento, per loro trovare lavoro è un’utopia
Durante lo stato d’emergenza, dal 2016 al 2018, in Turchia sono state sospese, licenziate, denunciate e arrestate più di 125mila persone. Mentre qualcuno è riuscito a tornare a condurre la vita di prima, per la maggior parte iniziava una nuova vita da morte civile.
CROCIATA NEL MONDO accademico. Come disse in diretta tv già nel mese di febbraio del 2016 Cem Küçük, giornalista/propagandista del governo centrale: «Non c’è bisogno di rivolgersi alla giustizia, dobbiamo attivare quei meccanismi che portano queste persone alla morte civile». Nella sua dichiarazione Küçük si riferiva a quei 2.212 accademici universitari firmatari dell’«appello per la pace», diffuso a gennaio del 2016 in cui invitavano lo Stato turco e le forze armate del Pkk a fermare gli scontri in atto da circa sei mesi e a riaprire il canale del dialogo. Da quel momento fino ad oggi una buona parte degli «accademici per la pace» vive in quello stato da morte civile che gli aveva augurato Küçük.
Cansu Akbas Demirel è una dei firmatari dell’appello: «Siamo stati definiti come dei traditori della patria, abbiamo subito diversi attacchi verbali e fisici da alcuni colleghi e studenti. Siamo stati licenziati». Anche Asli Davas è una dei firmatari e descrive così la situazione in cui si trova: «Restare senza lavoro comporta un danno economico e l’esclusione sociale è una situazione terribile. Siamo stati definiti terroristi e siamo diventati bersagli grazie al linciaggio mediatico e politico che abbiamo subito». Feride Aksu Tanik, un’altra firmataria: «Ci hanno impedito di lasciare il Paese. Siamo stati espulsi da diversi comitati accademici e dalle commissioni di ricerca internazionale. In più siamo stati privati dell’accesso a fondi e bandi».
A TUTTO QUESTO va aggiunta l’esclusione totale dal sistema della provvidenza sociale, la fedina penale sporca (anche se non condannati in via definitiva), l’impossibilità a ottenere un impiego pubblico e, come unica soluzione, un lavoro senza nessun tipo di contratto e assicurazione. Secondo una relazione preparata dalla Fondazione per i Diritti umani di Turchia (Thiv), un «accademico per la pace» su tre si trova in depressione e coloro che sono tornati a lavorare hanno subito mobbing ed esclusione anche nel mondo accademico.
Forse Mehmet Fatih Tras è l’esempio più estremo di ciò che affrontano queste persone. Dopo l’espulsione dall’Università di Cukurova, per la firma messa a quell’appello, per un lungo periodo è rimasto senza lavoro ed è entrato in una depressione che l’ha portato, nel febbraio 2017, a soli 34 anni al suicidio.
EX ALLEATI, NUOVI NEMICI. La repressione avviata prima del fallito golpe del 2016 ha trovato una base legale grazie allo stato d’emergenza. Le misure radicali sono state giustificate per motivi di «sicurezza nazionale». Ovviamente a finire nel mirino c’era anche la comunità religiosa guidata da Fethullah Gulen, imam e predicatore anticomunista nonché ex alleato del Partito dello Sviluppo e della Giustizia (l’Akp del presidente Erdogan) che strozza la Turchia da ormai quasi 20 anni. Il fallito golpe del 2016, secondo il governo centrale, era opera di Gulen e dei suoi fedeli presenti in diversi apparati del sistema burocratico, come l’esercito. Inoltre secondo l’Akp, Gulen si era mosso in collaborazione con diversi attori stranieri e locali, come gli Stati uniti e gli Emirati.
La situazione senz’altro è stata frutto di una resa dei conti tra Gulen e Akp, i due attori di un progetto fascista e mafioso in corso da parecchi anni. In ogni caso, lo stato d’emergenza dichiarato dopo il fallito golpe è stato una grande occasione per il governo per far fuori numerosi membri della comunità di Gulen. Ma ad essere colpite sono state numerose persone che non c’entravano con questa faida interna.
PIÙ DI 20MILA MEMBRI dell’esercito e più di 16mila studenti delle scuole militari sono stati sospesi e/o arrestati. Ragazzi minorenni, in diversi casi trascinati fuori nella notte del 15 luglio con svariati raggiri, da quasi sei anni conducono una vita molto difficile. 355 di questi sono tuttora in carcere, anche se in vari casi i giudici hanno confermato la mancanza di relazione tra questi e la comunità di Gulen. Umit Can Ozorman è uno dei giovani colpiti dai decreti di legge (Khk) emessi durante lo stato d’emergenza direttamente dal Presidente della Repubblica.
«Abbiamo una macchia su di noi, nessuno ci dà lavoro, ci sono ancora diverse inchieste di sicurezza contro di noi. Io pretendo un risarcimento dei danni e rivoglio la mia vita». Ozorman è anche l’autore del libro Soffro di sclerosi multipla, signore, in cui racconta ciò che ha vissuto e la malattia che l’ha colpito dopo quello che gli è capitato. «Sono ormai invalido al 48%. In questo libro cerco di spiegare la situazione in cui ci troviamo noi, ex studenti dei licei militari». Ozorman la sera del golpe è rimasto nel dormitorio del liceo militare e dice di non aver mai fatto parte né della comunità di Gulen né di altre: «Sono alla ricerca della giustizia e di una vita normale, come quella di prima. Lotto anche perché regni la meritocrazia in questo Paese».
KHK, UN’ ARMA anche contro la sinistra. Con i decreti legge, il governo centrale è riuscito a zittire anche le voci dell’opposizione di sinistra. Un esempio: 1.602 insegnanti appartenenti al sindacato Egitim-Sen sono stati sospesi e licenziati. In totale, durante lo stato d’emergenza, sono stati chiusi definitivamente 19 sindacati.
Per protestare contro questa ondata di repressione, in Piazza Yuksel a Ankara da circa cinque anni diverse persone scendono in strada. La risposta della polizia è sempre la stessa: portare in commissariato i manifestanti e rilasciarli lo stesso giorno oppure il giorno dopo. Le proteste vengono spesso accerchiate da transenne alte per impedire la partecipazione dei passanti. Azioni di questo genere si sono diffuse in diverse città e sotto diverse forme in questi anni.
TURKAN ALBAYRAK è una di queste persone, lavoratrice nel settore della sanità e sindacalista. Il 15 luglio del 2018 ha scoperto di essere una delle vittime dei Khk, così ha perso il suo lavoro. Ha quasi immediatamente deciso di fare un presidio permanente dentro il parco cittadino Ogretmenler, nel Comune di Sariyer a Istanbul, località in cui lavorava. Albayrak per 22 mesi ha resistito con 200 proteste, finendo in detenzione provvisoria 102 volte. Dopo questa lunga lotta ha ottenuto l’annullamento della sua sospensione e tre anni dopo, il 28 dicembre del 2021, la Corte costituzionale ha risposto al suo ricorso definendo ciò che ha subito come un «tentativo per impedire la libertà di espressione» e condannato il ministero della Giustizia a pagarle 8mila lire turche di risarcimento danni (516 euro).
OSMAN ZABUN, presidente provinciale dell’Akp per la città d’Isparta, a ottobre 2016, in diretta tv pronunciò queste parole, in merito alle persone colpite dai decreti emessi durante lo stato d’emergenza: «Questo paese non ha nulla da offrire loro, possono andarsene oppure mangiare le radici degli alberi per sopravvivere».
Le parole di Zabun rappresentano la situazione in cui si trovano migliaia di persone oggi in Turchia, private di una serie di diritti, emarginate, rese povere, depresse, invisibili e spinte verso la morte civile.
(**) pubblicato sul quotidiano “il manifesto” del 19 febbraio 2022
Le donne ezide durante il Newroz, tra abiti tradizionali e uniformi dell’autodifesa
© Nayera El Gamal
Torna la primavera, versione Shengal
Medio Oriente. La regione nord-occidentale dell’Iraq riscopre l’antica festa del Newroz, diventata negli ultimi decenni la manifestazione politica dell’autodeterminazione curda. Tra le macerie lasciate dall’occupazione dell’Isis e i tentativi dei governi di Erbil e Baghdad di soppiantare l’autogestione ezida
di Chiara Cruciati – INVIATA A SHENGAL (***)
I colori brillanti degli abiti tradizionali ezidi spezzano l’ocra della terra, i minuti sprazzi d’erba e gli ammassi di pietre disseminati nella piccola valle nel villaggio di Solax. Il letto di un torrente separa la piana da una collina dove più di una famiglia ha sistemato a terra i teli per un picnic.
È il 21 marzo, giorno di Newroz. Equinozio di primavera e nuovo anno, la rinascita contro la tirannia come fu nel 612 a.C. È lì che affonda la leggenda: il fabbro Kawa uccide il re degli assiri Dehak, devastatore della flora, della fauna e dei campi del popolo dei medi. Con il suo tirannicidio, sulla terra dei medi torna la primavera e torna il sole, ricompaiono le aquile, i frutti, i fiori.
A SHENGAL non si festeggiava da tempo, un oblio autoimposto da una chiusura verso l’esterno vista come ultima difesa della propria identità di fronte al soffocante autoritarismo del governo di Erbil, Kurdistan iracheno. Lo stesso responsabile della fuga dei peshmerga del clan Barzani che nell’agosto 2014 abbandonarono mezzo milione di ezidi della regione nord-occidentale irachena in balia delle squadracce dell’Isis.
Si eclissarono lasciandoli senza armi e senza difesa e segnandone il destino: 250mila profughi, migliaia di donne rapite e schiavizzate per anni dai miliziani di Daesh, migliaia di uomini uccisi.
Le celebrazioni del Newroz a Shengal (Foto di Nayera El Gamal)
Il Newroz è riapparso tre anni fa, in sordina, risvegliato dalle forze di autodifesa curde del vicino Rojava che in solitaria hanno sostenuto la resistenza ezida contro l’Isis e hanno ispirato un modello politico di autogestione che oggi Shengal applica a modo suo, facendolo aderire a quella che è la particolare cultura dell’etnoreligione ezida.
Insieme alla liberazione è tornata la primavera e la voglia di festeggiarla. «Questo è il primo anno in cui il Newroz viene organizzato dall’Amministrazione autonoma di Shengal – ci spiega Ibrahim – Si è festeggiato anche nei due anni precedenti, fuochi accesi nei villaggi, ma stavolta è un rito collettivo».
Nei giorni passati, fuochi e marce hanno accompagnato verso la fine dell’inverno, il suo freddo ancora pungente e la neve che copre le cime dei monti. Hanno marciato le organizzazioni di donne e dei giovani, i falò hanno intiepidito i quartieri.
OGGI CI SI INCONTRA a Solax. Il villaggio mostra di sé i segni dell’occupazione islamista: la strada che conduce alla piccola piana è un cimitero di edifici, case ripiegate su se stesse, macerie, pianoterra sbriciolati dal peso dei tetti, qualcuno miracolosamente intatto.
Qui nell’ottobre 2020 è stata ritrovata una fossa comune, una delle decine che ancòrano Shengal al dolore del dominio di Daesh: c’erano sepolti i corpi di 80 donne e 12 bambini, è intervenuta l’Onu.
Lo stesso non si può dire delle altre fosse comuni. Fin dall’ingresso nella regione ezida, la terra nasconde cadaveri. Ne sono state individuate oltre 70, gli ezidi le hanno rese riconoscibili circondandole di sassi, ma non hanno i mezzi per riesumare i corpi. Spetterebbe al governo centrale di Baghdad, non ci ha mai nemmeno provato.
«Io ero nel gruppo dei 14 abitanti di Solax rimasto qui nonostante Daesh – ci racconta un trentenne, cappellino nero in testa, felpa nera – Quando ad agosto del 2014 gli islamisti sono arrivati, ci siamo nascosti nelle case e abbiamo provato a difenderle. Siamo rimasti qui per tutto il tempo dell’occupazione. Poi sono arrivati i bombardamenti della coalizione, degli americani».
LE BOMBE che spiegano la massiccia distruzione. «Ma bombardavano solo dalla parte dell’esercito iracheno e delle milizie sciite irachene, le Hashd al-Shaabi. Dalla parte nostra, quella dei compagni, no».
Solax è alle pendici del monte Sinjar, la lunga catena montuosa che attraversa Shengal con i suoi panorami in contraddizione, rocciosa e desertica e poi verde e rigogliosa, segnata dai terrazzamenti dove gli ezidi hanno coltivato la terra e vissuto per secoli prima che, negli anni Settanta, Saddam Hussein avviasse una politica di urbanizzazione e trasferimento verso pianure inospitali ma più controllabili.
Al villaggio arriviamo con un pulmino, fendendo la montagna. Incontriamo svariati checkpoint, tutti controllati dalle forze di autodifesa maschili e femminili di Shengal, le Ybs e le Yjs, ma anche posti di blocco dell’esercito iracheno, comunque presente sulla base di un accordo con l’Amministrazione autonoma, un’intesa ancora in piedi sebbene né Baghdad né Erbil nascondano i piani comuni di riappropriazione della regione ribelle.
LO HANNO FATTO con l’Accordo di Shengal dell’ottobre 2020, intesa bilaterale che punta al disarmo di Ybs e Yjs e al ritorno dello Stato centrale per soppiantare le strutture politiche dell’Autonomia. E lo fanno oggi, con frequenza regolare, inviando soldati, facendo pressioni militari sui confini, interrompendo i servizi pubblici e tentando di isolare fisicamente Shengal dal resto del paese.
E anche tacendo di fronte ai bombardamenti con i droni con cui la Turchia, con precisione aritmetica, da anni tenta di decapitare l’Amministrazione autonoma mirando e uccidendo i leader politici ezidi, “colpevoli” di aver messo in piedi un modello che ricalca il confederalismo democratico teorizzato dal fondatore del Pkk, Abdullah Ocalan.
Al nostro passaggio i soldati salutano, dietro di loro container con lo stemma inconfondibile dei servizi segreti di Baghdad, un occhio dentro uno scudo.
Gli Sheikh e il palco del Newroz egida (Foto: Nayera El Gamal)
Ma nel pulmino è già festa: al Newroz ci accompagnano le donne della stampa di Shengal, ognuna vestita a modo suo, jeans, abiti tradizionali, fazzoletti a fiori da cui cadono morbide file di perline. E cantano, tutto il tempo, battono le mani e provano a danzare nello spazio costretto, dove si sono infilate in 15 per 10 sedili.
ALL’ARRIVO, il palco per i musicisti e i discorsi di rito è già pronto. Sono pronti anche due bracieri, poco dopo li accenderanno – kefiah bianca in testa e sigaretta in bocca – gli sheikh di Shengal, le guide spirituali della comunità ezida, tuttora divisa in caste tramandate di generazione in generazione.
«Il fuoco continua ad ardere – dicono i rappresentanti dell’Amministrazione dal palco – Chi prova a spegnerlo, si brucerà». Alle loro spalle un manifesto con i volti dei martiri ezidi e un messaggio in arabo e curdo: «Il momento è arrivato per la libertà e l’autonomia di Shengal».
Sotto si fa festa. Le donne più anziane si siedono ai bordi della “pista”, foulard bianco in testa, discutono tra loro, fanno il gesto della vittoria con le dita. I bambini giocano, qualcuno è vestito con l’uniforme dell’autodifesa, altri con gli abiti della festa. Al lobo dei maschietti l’orecchino d’oro della tradizione ezida.
Gli adulti ballano, mignoli uniti, in cerchio. I vestiti delle donne fanno luce: con le loro tinte accese e le perline, risaltano accanto al verde militare delle partigiane e i partigiani di Shengal.
In Turchia festa sotto attacco della polizia: 488 arresti
A Diyarbakir la polizia turca ha provato a fermare il più grande Newroz del Kurdistan, oltre un milione di curdi del sud-est della Turchia riuniti a festeggiare e chiedere la liberazione del leader del Pkk Ocalan e dei prigionieri politici. La polizia ha cercato di impedirlo con transenne (i manifestanti le hanno travolte), cannoni ad acqua e proiettili di gomma.
Newroz anche nel resto del Bakur, il Kurdistan turco, anche qui prese di mira: il bilancio è di 488 arresti, di cui 173 minori. A decine i fermati tra il 19 e il 20 marzo, vigilia del Newroz, a Diyarbakir, mentre svariati artisti curdi che avrebbero dovuto cantare sul palco sono stati bloccati prima di arrivare in piazza. Fermi anche ad Aydin, Konya, Mardin (dove sono stati condotti raid anche dentro le case), Sirnak, Adana e Istanbul (86 arresti).
ALTRI LINK
Sarà in Alessandria venerdì 25 marzo la deputata kurda NURSEL AYDOGAN, co-presidente del partito HDP (Partito della democrazia dei popoli), eletta al Parlamento turco per tre legislature, arrestata e incarcerata per il processo Kobane, infine liberata ed esiliata in Germania.
Alle 17 – alla Casa di Quartiere di via Verona, 116 in Alessandria – si terrà un incontro a cui parteciperà NURSEL AYDOGAN e il giornalista turco residente a Torino, MURAT CINAR.
Vi aspettiamo.
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SU NUDEM DURAK
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http://uikionlus.org/unoffesa-insopportabile-donna…/
IN “BOTTEGA” NE AVEVAMO SCRITTO – DUE ANNI FA – QUI: Turchia: campagna per Nudem Durak; i minareti…
Ogni guerra ci coinvolge. Il silenzio è complice, l’indifferenza un insulto per le vittime.
Alcune associazioni, che ci hanno aiutato ad inviare medicinali in Siria, ci hanno chiesto di attivarci e lo faremo secondo le nostre possibilità.
Staffetta sanitaria
http://www.staffettasanitaria-rojava.it/2022/02/26/a-chi-serve-una-guerra-perche-non-terminano-mai/
Siria – da Anbamed, notizie dal Sud Est del Mediterraneo (25 febbraio 2022)
Continuano ad Afrin i rastrellamenti dell’esercito di occupazione turco e delle milizie affiliate contro la popolazione curda. Nei giorni scorsi sono avvenuti arresti di decine di persone con l’accusa di collaborazione con la resistenza. Più ad est, nella provincia di Deir Azzour, operano invece le cellule clandestine dei jihadisti di Daiesh (Isis). Un gruppo armato ha compiuto un’imboscata contro un’auto di combattenti delle Forze Democratiche Siriane a guida curda, in una strada provinciale che conduce dal capoluogo al villaggio di Hajeen. Sono rimasti uccisi due combattenti e un terzo è stato ferito gravemente. Il gruppo assalitore è riuscito a dileguarsi.
La situazione nei territori autonomi del nord est della Siria è aggravata anche dal peso della presenza di oltre 20 mila ex miliziani daieshisti nelle prigioni, tra i quali circa 4000 sono stranieri, ma che i loro paesi si rifiutano di riprenderli. Questo rifiuto non riguarda soltanto i jihadisti, ma colpisce anche i bambini. La Commissione ONU per i Diritti dell’Infanzia ha emesso un duro giudizio sul rifiuto da parte della Francia di riprendersi 49 bambini figli di jihadisti con nazionalità francese.
Turchia – da Anbamed, notizie dal Sud Est del Mediterraneo (16 febbraio 2022)
Ieri ad Ankara, cinque giornalisti sono entrati in carcere. Sconteranno condanne a diversi anni di reclusione, per aver scritto articoli sulla morte di militari turchi in Libia. Nel febbraio 2020, il presidente Erdogan, in un comizio del suo partito, ha parlato di martiri turchi caduti in Libia. I 5 giornalisti, di diverse testate, hanno pubblicato nomi, foto e informazioni sui luoghi dove sono rimasti uccisi. Sono stati fermati per diversi mesi fino alla condanna, in primo grado, lo scorso settembre, “per divulgazione di segreti di Stato”. Il loro ricorso è stato rigettato e quindi quelle condanne sono diventate definitive. Prima di consegnarsi in commissariato, Mourad Jibril ha scritto: “Ho fatto il mio dovere. Volevo commemorare i nostri martiri caduti. Entro in carcere per aver obbedito alla mia coscienza. Non state in silenzio! Non abbiate paura!”.
PASQUA DI PACE PER IL KURDISTAN E IL MEDIO ORIENTE
Parte la Campagna delle Uova di Pasqua, finalizzata alla raccolta fondi per la realizzazione del progetto “Un ospedale attrezzato a Shengal”, regione del governatorato di Ninewa, Iraq nord occidentale.
Le uova – mezzo chilo di cioccolato purissimo – sono disponibili presso la sede dell’Associazione Verso il Kurdistan, via Mazzini 118, in Alessandria, al prezzo di euro 15.
Per quantitativi significativi, siamo disponibili a portarveli a domicilio, purchè trattasi di un ambito territoriale circoscritto
Info e prenotazioni:
Lucia (333 5627137), Antonio (335 7564743), Sonia (331 3290229)
E’ un’iniziativa di Associazione Verso il Kurdistan (20 anni) e Rete Kurdistan Italia
Campagna del 5 per Mille
Anche tu puoi dare una mano devolvendo il 5 x 1000 della tua Dichiarazione dei Redditi alla nostra Associazione. Quest’anno, tutti i proventi del 5 per mille, saranno destinati alle famiglie di Cizre, la Guernica kurda, vittime dei bombardamenti e dei massacri dell’esercito turco.