Le ignobili verità di Merkel, con qualche ritardo

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LA MERKEL HA RIVELATO LA DOPPIEZZA DELL’OCCIDENTE – Scott Ritter

La guerra, a quanto pare, era l’unica opzione che gli oppositori della Russia avessero mai preso in considerazione.
I recenti commenti dell’ex cancelliere tedesco Angela Merkel hanno fatto luce sul doppio gioco attuato da Germania, Francia, Ucraina e Stati Uniti in vista dell’invasione russa dell’Ucraina a febbraio.

Mentre il cosiddetto “occidente collettivo” (Stati Uniti, NATO, UE e G7) continua a sostenere che l’invasione russa dell’Ucraina sia stata un atto di “aggressione non provocata”, la realtà è ben diversa: la Russia era stata indotta a credere c’era una soluzione diplomatica alla violenza scoppiata nella regione del Donbass dell’Ucraina orientale all’indomani del colpo di stato di Maidan del 2014 a Kiev, sostenuto dagli Stati Uniti.
Invece, l’Ucraina e i suoi partner occidentali stavano semplicemente guadagnando tempo fino a quando la NATO non avesse potuto costruire un esercito ucraino in grado di catturare il Donbass nella sua interezza, oltre a sfrattare la Russia dalla Crimea.
In un’intervista della scorsa settimana a Der Spiegel , la Merkel ha accennato al compromesso di Monaco del 1938. Ha confrontato le scelte che l’ex primo ministro britannico Neville Chamberlain ha dovuto fare riguardo alla Germania nazista con la sua decisione di opporsi all’adesione dell’Ucraina alla NATO, quando la questione è stata sollevata al vertice NATO del 2008 a Bucarest.

Tenendo a bada l’adesione alla NATO, e in seguito spingendo per gli accordi di Minsk, la Merkel credeva di far guadagnare tempo all’Ucraina in modo che potesse resistere meglio a un attacco russo, proprio come Chamberlain credeva di far guadagnare tempo al Regno Unito e alla Francia per raccogliere le loro forze contro La Germania di Hitler

Il risultato di questa retrospettiva è sbalorditivo. Dimenticate, per un momento, il fatto che la Merkel stesse paragonando la minaccia rappresentata dal regime nazista di Hitler a quella della Russia di Vladimir Putin, e concentratevi invece sul fatto che la Merkel sapeva che invitare l’Ucraina nella NATO avrebbe innescato una risposta militare russa.

Piuttosto che rifiutare del tutto questa possibilità, la Merkel ha invece perseguito una politica progettata per rendere l’Ucraina capace di resistere a un simile attacco.
La guerra, a quanto pare, era l’unica opzione che gli oppositori della Russia avessero mai preso in considerazione.

Putin: Minsk è stato un errore
I commenti della Merkel sono paralleli a quelli fatti a giugno dall’ex presidente ucraino Petro Poroshenko a diversi media occidentali. “Il nostro obiettivo”, ha dichiarato Poroshenko, “era, in primo luogo, fermare la minaccia, o almeno ritardare la guerra, assicurarci otto anni per ripristinare la crescita economica e creare potenti forze armate”. Poroshenko ha chiarito che l’Ucraina non si è presentata in buona fede al tavolo dei negoziati sugli accordi di Minsk.

Questa è una consapevolezza a cui è arrivato anche Putin. In un recente incontro con le mogli russe e le madri delle truppe russe che combattono in Ucraina, comprese alcune vedove di soldati caduti, Putin ha riconosciuto che è stato un errore accettare gli accordi di Minsk e che il problema del Donbass avrebbe dovuto essere risolto con la forza di armi in quel momento, soprattutto in considerazione del mandato che gli era stato conferito dalla Duma russa in merito all’autorizzazione a utilizzare le forze militari russe in “Ucraina”, non solo in Crimea.
La tardiva realizzazione di Putin dovrebbe far venire i brividi a tutti coloro che in Occidente operano in base all’idea sbagliata che ora possa in qualche modo esserci una soluzione negoziata al conflitto russo-ucraino.

Nessuno degli interlocutori diplomatici della Russia ha dimostrato un briciolo di integrità quando si tratta di dimostrare un genuino impegno per una soluzione pacifica alla violenza etnica scaturita dai sanguinosi eventi del Maidan nel febbraio 2014, che ha rovesciato un Presidente ucraino. eletto democraticamente e certificato dall’OSCE.
Risposta alla Resistenza
Quando i russofoni nel Donbass hanno resistito al colpo di stato e hanno difeso quell’elezione democratica, hanno dichiarato l’indipendenza dall’Ucraina. La risposta del regime golpista di Kiev è stata quella di lanciare contro di loro un feroce attacco militare durato otto anni che ha ucciso migliaia di civili. Putin ha aspettato otto anni per riconoscere la loro indipendenza e poi ha lanciato un’invasione su vasta scala del Donbass a febbraio.
In precedenza aveva atteso nella speranza che gli Accordi di Minsk, garantiti da Germania e Francia e approvati all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (compresi gli Stati Uniti), risolvessero la crisi dando autonomia al Donbass pur rimanendo parte dell’Ucraina. Ma Kiev non ha mai attuato gli accordi e non è stata sufficientemente pressata a farlo dall’Occidente.

Il distacco mostrato dall’Occidente, mentre ogni pilastro della legittimità percepita si sgretolava – dagli osservatori dell’OSCE (alcuni dei quali, secondo la Russia, stavano fornendo informazioni mirate sulle forze separatiste russe all’esercito ucraino); all’accoppiamento di Germania e Francia nel formato Normandia, che avrebbe dovuto garantire l’attuazione degli accordi di Minsk; agli Stati Uniti, la cui autoproclamata assistenza militare “difensiva” all’Ucraina dal 2015 al 2022 è stata poco più di un lupo travestito da agnello – tutto sottolineava la dura realtà che non ci sarebbe mai stata una soluzione pacifica delle questioni alla base del Conflitto russo-ucraino.
E non ci sarà mai.
La guerra, a quanto pare, era la soluzione cercata dall’«Occidente collettivo», e la guerra è la soluzione cercata dalla Russia oggi.
Semina vento, raccogli tempesta.
Riflettendoci, la Merkel non aveva torto nel citare Munch 1938 come antecedente alla situazione in Ucraina oggi. L’unica differenza è che questo non era un caso di nobili tedeschi che cercavano di tenere a bada i brutali russi, ma piuttosto di doppi tedeschi (e altri occidentali) che cercavano di ingannare i russi creduloni.

Questo non finirà bene né per la Germania, né per l’Ucraina, né per nessuno di coloro che si sono avvolti con il mantello della diplomazia, nascondendo alla vista la spada che tenevano dietro la schiena.

Fonte: https://scheerpost.com/2022/12/05/scott-ritter-merkel-reveals-wests-duplicity

Traduzione: Luciano Lago

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dice l’indegno Borrell: “in fondo cosa hanno fatto gli americani? Hanno solo ucciso 4 indiani”

 

 

Ucraina, per il Prof. Mearsheimer “siamo fottuti” – Roberto Buffagni

Ucraina, prospettive: “we’re screwed”. Come dice Mearsheimer nella sua ultima intervista: “We’re screwed”, siamo fregati.

Non c’è spazio per l’apertura di una trattativa.

I russi si sono bruciati le navi alle spalle con l’annessione, gli americani hanno impegnato per intero il loro prestigio. Se la Russia rinuncia a combattere e accetta un compromesso al ribasso si destabilizza, con conseguenze imprevedibili e forse gravissime se si attivano le forze centrifughe incoraggiate dal campo avverso; se gli americani accettano le annessioni e la neutralità dell’Ucraina dichiarano la propria sconfitta, l’impotenza della NATO, e subiscono insomma una pesante sconfitta politica che compromette la loro egemonia, incrina o peggio il loro sistema di alleanze, e delegittima la sua classe dirigente. Se gli USA escalano, intervenendo direttamente nel conflitto, ad es. con la “coalition of the willing” proposta da Petraeus, vanno incontro a due serie di eventi possibili:

a) una guerra di grandi proporzioni sul territorio europeo e russo, per la quale non sono preparati, che ha sicuramente un alto costo in perdite umane, e il cui esito vittorioso non è affatto certo

b) se lo scontro diretto si annuncia chiaramente vittorioso per gli USA, e la Russia ritiene di essere sull’orlo della sconfitta, è possibile, anzi probabile e coerente con la loro dottrina nucleare, l’impiego dell’arsenale atomico, con conseguenze catastrofiche.

Se gli USA non intervengono, è probabile che la guerra si concluda con una vittoria decisiva dei russi, per il differenziale di risorse strategiche fra i due contendenti e nonostante le difficoltà e i difetti messi in mostra dalle FFAA russe. Conseguenza, la perdita di prestigio e la sconfitta politica per gli USA. In sintesi, chi ha le chiavi strategiche del conflitto, ossia Washington, si è messo in una situazione in cui qualsiasi cosa faccia, sbaglia.

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Quando “uomo dell’anno Time” era Hitler – Sara Reginella

Alle ore 12.44 di giovedì 8 dicembre, ho pubblicato un meme (nella foto in alto, ndr) con le immagini di Adolf Hitler e Volodymyr Zelensky.

Non da tutti è stato compreso.

Commentando il meme, alcune persone han fatto notare che il “Time” aveva messo in copertina, oltre a Zelensky nel 2022 e ad Afolf H. nel 1938, anche altri personaggi come Obama, Putin, Biden e Stalin, ritenendoli influenti, nel bene o nel male.

Lo sappiamo: da giorni non si parla d’altro.

Le riflessioni che il meme voleva suscitare, riguardavano altro, ovvero:

-il concetto di allineamento delle masse, pericolosamente prone nei confronti di entrambi i leader;

-la comunanza dei simbolismi tra Adolf H. e Volodymyr Zelensky.

Nelle organizzazioni politiche e nelle forze armate che facevano/fanno capo ai due leader, spopolano gli stessi simboli.

Quelli odierni riportati in calce al meme, di fatto, ripescano sia gli emblemi della nazi Germania (il sole nero, la runa dente di lupo) sia quelli dell’Ucraina collaborazionista di Hitler (i colori rosso-nero dell’Upa, l’esercito insurrezionale ucraino).

A ciò, voglio aggiungere un’ulteriore riflessione, al di là del meme: che il “Time” reputi un personaggio influente nel bene oppure nel male, si coglie dalla grafica, attraverso la quale, alcuni leader vengono presentati come “buoni” e altri come “cattivi”; è anche in questo modo che le masse vengono manipolate.

Un esempio: nel caso del personaggio Putin 2007, lo scialbo pacchetto grafico che utilizza colori algidi, è teso alla sua svalorizzazione.

Nel caso del personaggio Zelensky 2022, l’enfatico pacchetto grafico è teso alla valorizzazione dello stesso: in un tripudio di bandiere, Volodimir ha il piglio di un eroe rivoluzionario, che guarda a destra, verso il futuro.

Mentre il suo esercito bombarda le aree civili di Donetsk e Gorlovka.

Da otto anni.

Ora con le nostre armi.

Sotto l’egida dei simboli nazisti.

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Lo scopo della guerra è un’Europa sottomessa – Gian Giacomo Migone

Quella che Papa Francesco da tempo descrive come la Terza Guerra mondiale continua a mietere vittime e sofferenze in tutto il mondo. Quelle inflitte all’Ucraina ci sono particolarmente vicine, non solo per ragioni geografiche e culturali, ma perché ci troviamo in qualche modo in guerra contro noi stessi.

L’Ucraina è incontestabilmente parte dell’Europa e qualsiasi soluzione passata, presente o futura della guerra in atto deve prevedere la sua collocazione nell’Unione Europea, purché in coerenza con i principi cui essa s’ispira e che risultano indeboliti dalla logica di guerra.

Risultano sempre più insostenibili le sofferenze causate dalle carenza di riscaldamento, di acqua e anche di cibo, determinata da bombardamenti russi mirati, che si aggiungono alle devastazioni indiscriminate precedenti e ai rischi derivanti dagli attacchi ucraini alla centrale nucleare più grande d’Europa, ora in mani russe. Per non parlare del pericolo di una guerra nucleare per errore, sempre possibile in presenza di imperi in declino (Sarajevo, 1914, insegna).

La priorità della popolazione colpita, dell’Europa di cui fa parte, di due terzi della stessa opinione pubblica italiana, è che cessi il massacro in atto e si determinino le condizioni per una soluzione diplomatica del conflitto. Invece, ci comportiamo, si comportano le istituzioni comunitarie e i governi europei che ci rappresentano, come se, al contrario, lo scopo sia quello di prolungare ad infinitum la durata della guerra. La risoluzione del Parlamento Europeo, approvata martedì scorso, qualifica la Russia quale “stato sponsor del terrorismo e che usa mezzi terroristici”. Il giorno precedente l’Assemblea Parlamentare della Nato – organismo meno rappresentativo, ma meglio rispondente ai dettami di Washington – senza ambagi ha dichiarato che “lo stato della Russia, con il suo regime attuale, è uno stato terrorista”.

I pochi parlamentari che, con coraggio, hanno espresso il loro voto contrario, vengono accusati di essere dei traditori, amici di Putin (cfr. a questo proposito Massimiliano Smeriglio, il manifesto, 25 novembre), come se non sia del tutto legittimo schierarsi dalla parte di coloro che della guerra subiscono le conseguenze. Si osservi come si qualifichi quale terrorista la Russia attuale, in quanto stato, e non più soltanto il suo capo, Vladimir Putin, a suo tempo denunciato quale criminale di guerra dal presidente degli Stati Uniti, peraltro successivamente corretto da suoi collaboratori che escludevano un cambiamento di regime quale esito e scopo della guerra in corso.

Invece, ad oggi, proprio di regime change si tratta, soprattutto di continuazione della guerra, perché non occorre un Talleyrand o un Kissinger per comprendere che ogni passo anche minimo nella direzione di un arresto delle ostilità, se non di una soluzione diplomatica, peraltro in linea teorica tutt’altro che irraggiungibile, diventa impossibile, se si squalifica ab ovo la controparte.

Tutto ciò in un momento in cui una sorta generale di eterogenesi dei fini sembrava avere determinato le condizioni per un negoziato: da una parte la resistenza ucraina, con la riconquista di Kherson e la ritirata strategica delle truppe russe; dall’altra, il bombardamento sempre ucraino di un bersaglio polacco, riconosciuto come tale dagli alleati, ma anche benevolmente liquidato come un errore di mira, dal segretario generale della Nato.

E se fosse giunto il momento di denunciare che questa guerra, voluta, preparata e incubata da Washington e attuata da Mosca, in violazione di ogni principio di legalità internazionale e umanitaria, costituisce una lesione di diritti e d’interessi dell’Europa in quanto tale, colpita nella sua parte più esposta?

La formuletta banale, con cui i nostri politici locali – di maggioranza e di gran parte dell’opposizione – assicurano la loro fedeltà “europea ed atlantica” nega una realtà sempre più evidente. Che tra gli scopi di questa guerra, forse la principale, vi è quella di tenere l’Europa divisa e sottomessa, alleata subalterna e non potenziale concorrente e rivale, in un mondo non più bipolare, di continuo alimento dell’industria delle armi e della guerra. Una ragione in più per contrastarla con numeri e determinazione in continua crescita.

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La Leonardo DRS punta sulla produzione di droni-kamikaze – Antonio Mazzeo

Il loro nome tecnico è loitering munitions o munizioni circuitanti; sono piccoli droni dotati di una testata esplosiva che possono essere teleguidati contro l’obiettivo anche a decine di chilometri di distanza. Si tratta cioè di veri e propri velivoli-kamikaze il cui impiego sta crescendo rapidamente e irresponsabilmente nei principali scenari di guerra internazionali. Leonardo SpA, l’holding militare-industriale a capitale pubblico, ha deciso di puntare sulla loro produzione ed esportazione, consapevole che nei prossimi anni i profitti saranno ragguardevoli. A curare l’affaire è stata delegata la società controllata che ha sede e stabilimenti negli Stati Uniti d’America, in stretta collaborazione con un’azienda del comparto bellico di Israele.

 

I dirigenti di Leonardo DRS (Arlington, Virginia) hanno reso noto che l’unità commerciale dei sistemi terrestri di St. Louis, Missouri, ha stipulato il 6 ottobre scorso un accordo con la SpearUAV Ltd. di Tel Aviv per sviluppare una versione delle munizioni aeree Viper su scala nanometrica “per andare incontro alle richieste emergenti di molteplici clienti militari statunitensi”.

“SpearUAV ha sviluppato Viper rapidamente in risposta alle lezioni apprese durante i recenti grandi conflitti”, spiegano i manager del gruppo israeliano. “Il sistema a lancio verticale fornisce agli operatori in linea di combattimento munizioni aeree convenienti, semplici da usare ed efficaci contro una varietà di bersagli, compresi quelli in posizione defilata. Piccole munizioni aeree come le Viper stanno rivoluzionando le piccole unità tattiche assicurando una precisione veramente letale nelle mani del singolo combattente”.

Ancora SpearUAV Ltd. afferma che queste nuove munizioni “forniscono una potenza di fuoco reattiva per distruggere minacce immediate come cecchini nemici e gruppi operativi”, riducendo “al minimo” i danni collaterali in terreni urbani complessi. Il Viper richiede un addestramento minimo all’uso, si adatta a tutte le tipologie di munizionamento esistenti e può essere equipaggiato con il sistema di controllo terrestre Ninox compatibile con Android, Microsoft Windows e Linux.

“Siamo molto entusiasti di questa nuova partnership che sfrutta la vasta esperienza di integrazione della piattaforma e sviluppo del carico utile di Leonardo DRS con le sinergie tecnologiche di SpearUAV”, ha dichiarato Aaron Hankins, general manager di DRS Land Systems. “Abbiamo riconosciuto la Spear come un’azienda all’avanguardia nel campo dell’intelligenza artificiale e della tecnologia dei sistemi a pilotaggio remoto. Viper espande i nostri attuali sforzi nel campo dei droni”. Più raccapriccianti le parole di Gadi Kuperman, a capo del consiglio di amministrazione di SpearUAV. “Vogliamo fornire agli utenti la possibilità di utilizzare Viper allo stesso modo con cui farebbero con qualsiasi altro pezzo di equipaggiamento da combattimento o munizione, come un proiettile o una granata”, ha commentato Kuperman. “Si tratta di uno strumento da campo di battaglia; è pronto e pensato per essere usato in qualsiasi momento e senza esitazione. E potrebbe esserlo da un soldato di fanteria o dagli equipaggi di piattaforme terrestri o navali“.

I mini-droni kamikaze sono stati lanciati ufficialmente all’inizio di ottobre quasi in contemporanea all’accordo tra Leonardo e SpearUAV. Una ventina di giorni dopo, come riportato dal sito specializzato Israeldefence, il ministro della difesa dell’Azerbaijan, Madat Guliyev, ha incontrato l’amministratore dell’azienda Gadi Kuperman per discutere sulla possibilità di rifornire le forze armate azere proprio con le nuove munizioni circuitanti Viper.

SpearUAV Ltd. opera dal 2017 nella progettazione e sviluppo di esplosivi e sistemi aerei a pilotaggio remoto per fini militari o di controllo sicuritario. La società annovera tra i principali clienti il ministero della difesa israeliano e i corpi militari di alcuni paesi partner. Gli azionisti e i manager provengono tutti dalle forze armate o dai servizi segreti di Israele: Gadi Kuperman è un ex colonnello dell’aeronautica militare che ha coordinato diversi programmi di riarmo aereo, mentre nel board di SpearUAV compaiono pure i nomi di Yossi Cohen (presidente), già direttore della famigerata agenzia di intelligence Mossad; Moshe Maor, ex direttore del gruppo aerospaziale e missilistico  Rafael Advanced Defense Systems; Yaakov Barak, già generale e comandante delle forze terrestri; Shai Bar, ex colonnello a capo della divisione sistemi d’arma / engineering e conflitti a bassa intensità, poi ufficiale di collegamento della missione israeliana presso l’esercito USA.

In vista dell’espansione nei mercati internazionali, nel maggio 2022 SpearUAV ha rastrellato cospicui finanziamenti tra gli investitori privati ottenendo ben 17 milioni di dollari da una delle società israeliane specializzate nella produzione di droni da guerra e munizioni auto esplodenti, UVision Air Ltd.. Quest’ultima è stata fondata nel 2011 nella città di Tzur Yidal (distretto centrale) ed è presieduta dall’ex generale Avi Mizrachi, già capo del Comando centrale delle forze armate di Israele e successivamente responsabile vendite per l’area del sud-est asiatico di un’altra importante azienda bellica israeliana, Elbit Systems Ltd…

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Odessa, la strage che l’occidente vuole censurare – Francesco Santoianni

Davvero vergognosa su Wikipedia la trasformazione della voce “Strage di Odessa”(definita fino a pochi mesi fa: “un massacro avvenuto il 2 maggio 2014 ad Odessa presso la Casa dei Sindacati, in Ucraina, ad opera di estremisti di destra, neonazisti e nazionalisti filo occidentali ucraini ai danni dei manifestanti sostenitori del precedente governo filo russo”) in un “Rogo di Odessa” (“un incendio verificatosi a seguito di violenti scontri armati fra fazioni di militanti filo-russi e di sostenitori del nuovo corso politico ucraino”. Un travisamento del passato già descritto nel romanzo “1984” di George Orwell dove il “lavoro” del protagonista al Ministero della Verità era tagliar via e sostituire da giornali ed enciclopedia notizie scomode al regime. Attività oggi svolta su Internet dove, ad esempio, su Google risultano irraggiungibili notizie inerenti i crimini delle guerre condotte dalla Nato mentre su Internet viene negato l’accesso a siti di informazione russi.

Contro questa cancellazione della memoria, l’impegno di una compagna di Odessa – Olga Ignatieva – tra i pochi sopravvissuti alla strage, che sta completando un libro-inchiesta che, anche attraverso numerose testimonianze, ricostruisce la strage e la dinamica che l’ha determinata. L’abbiamo intervistata durante una iniziativa, tenutasi a Napoli, per far partire n movimento contro la guerra che, in Italia, stenta a decollare.

Non è stato affatto un “incendio nato accidentalmente” come oggi vogliono far credere. La strage era stata pianificata da tempo. Basti dire che, ore prima del lancio delle molotov veniva interrotta nell’edificio l’erogazione dell’acqua e dell’elettricità e che i criminali nazisti che vi hanno fatto irruzione per uccidere i pacifici manifestanti già conoscevano perfettamente gli interni.

Tu come hai fatto a salvarti?

Prima che fosse appiccato l’incendio, la strage era già stata “preparata”, con l’uccisione – nel centro città, tramite cecchini mimetizzati sui tetti – di due attivisti “pro-Maidan” almeno 4 attivisti “anti-Maidan” e innumerevoli poliziotti. E questo per far salire la tensione e, quasi, “giustificare” l’incendio della Casa dei sindacati con tante persone dentro.

Nonostante ciò, ad aiutarmi ad uscire dall’edificio in fiamme e inondato dal fumo di copertoni lì messi a bruciare e da uno strano gas, sono stati proprio alcuni attivisti “pro Maidan” di Odessa inorriditi da quello che stavano facendo le bande di criminali nazisti. Criminali nazisti, fatti giungere da Kiev e da altre città ucraine, mimetizzati come “tifosi” arrivati per una partita di calcio. Criminali nazisti che, appiccato l’incendio, sparavano e lanciavano bottiglie incendiarie contro gli occupanti della Casa dei sindacati che cercavano di mettersi in salvo.  

E tutto questo era documentato da video, realizzati quasi tutti dagli assalitori e messi su Youtube. Video rimossi nel febbraio di quest’anno. Anche per questo ho messo su un crowfunding per recuperare le documentazioni originali di questo crimine, raccogliere testimonianze e pubblicare un libro.

 


Quale è stata la reazione della popolazione non russofona di Odessa davanti alla strage?

Odessa, la mia città, è una città meravigliosa dove, da secoli, convivono pacificamente numerose etnie, inclusi gli Italiani. Un mosaico di culture che ha cominciato ad incrinarsi già nel 2004 con il tentato colpo di stato aizzato dagli Usa che già pretendeva di mettere al bando la lingua russa, così come è stato nel 2015. Una assurdità considerando che la stragrande maggioranza della popolazione in Ucraina usa comunemente la lingua russa o il cosiddetto “Suržik” (un idioma di russo, ucraino e chissà quante altre lingue il cui termine significa letteralmente “pane impastato con diversi cereali”). In realtà, il vero scopo della proibizione della lingua russa è il voler fare dimenticare la Storia e identificare la Russia come responsabile della miseria nella quale è precipitato il mio Paese dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica. Un inganno, purtroppo, fatto proprio da alcuni, non certo la maggioranza, di miei connazionali che credono che solo asservendoci completamente agli Usa e all’Unione europea potremmo risalire la china.

 

Quale è stata la tua esperienza dopo la strage alla Casa dei sindacati?

Dopo la strage, licenziata dal lavoro, per un anno e mezzo, ho dovuto subire le persecuzioni dell’SBU, inclusi interrogatori con la “macchina della verità”. Infine sono scappata in Italia dove, dopo un anno, ho ottenuto lo status di “rifugiata”. Fino al febbraio di quest’anno, qui, mi sentivo circondata dalla solidarietà della gente; poi con la valanga di falsità diffuse dai media sulla “guerra di Putin” molto è cambiato. E, ancora oggi c’è chi mi crede una “quinta colonna del Cremlino” solo perché denuncio un crimine impunito.

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A che gioco gioca Zelens’kijFulvio Scaglione

Volodymyr Zelens’kij: ci è o ci fa? La domanda è un po’ brutale ma alzi la mano chi non si è chiesto la stessa cosa dopo che per giorni il presidente ucraino ha ripetuto che il missile caduto in Polonia, con la morte di due sfortunati agricoltori, era stato sparato dai russi e non era, come invece ammettevano i polacchi, gli americani e i generali della Nato, un ordigno della contraerea ucraina finito fuori rotta. È una domanda, peraltro, che rimbalza da mesi tra i sostenitori del “ci è”, cioè chi ritiene che Zelens’kij sia ormai prigioniero del proprio personaggio e di una sorta di esaltazione autoreferenziale ai limiti del patologico (per non parlare dei media russi, che lo descrivono come un cocainomane), e i sostenitori del “ci fa”, quelli che lo vedono come l’interprete di un ruolo politicamente utile al proprio Paese.

Per quanto mi riguarda, sono un convinto sostenitore della seconda tesi. E a costo di dispiacere a qualcuno, lo dico in senso positivo, persino con un filo di ammirazione. Per una semplice ragione: la propaganda, soprattutto nell’epoca moderna, è un elemento importante in qualunque guerra. Dal 24 febbraio possiamo confrontare la propaganda russa con quella ucraina. Non v’è dubbio che quella di Kiev sia molto più moderna ed efficace di quella di Mosca e che abbia al centro proprio Zelens’kij. Gli ingenui pensano che tutto dipenda dal fatto che la stampa occidentale riprende e amplifica, e spesso “vende” al pubblico come notizie, tutte le uscite dalla comunicazione ucraina. Questo indubbiamente conta molto, ci mancherebbe. Ma è più accattivante l’immagine di un presidente come Zelens’kij, che in tenuta paramilitare visita zone vicine al fronte (e lo faceva anche nel Donbass, già prima del 24 febbraio), o quella di Vladimir Putin che inaugura un nuovo monumento a Fidel Castro?

L’ostilità e il disprezzo che molti riservano all’interpretazione zelenskiana del “presidente di guerra”, proprio perché la giudicano una recita, deriva da due fattori. Il primo è aver a lungo considerato Zelens’kij un parvenu della politica, un personaggio arrivato “da fuori” e quindi privo delle malizie del politico di carriera. Errore, grosso errore. Dal nulla è arrivato al vertice nel 2019, è vero, ma ha sempre mostrato di padroneggiare tutti i trucchi del nuovo mestiere. Il suo breve ma intenso percorso da presidente può essere diviso in due stagioni. La prima, dall’elezione all’invasione russa del 24 febbraio scorso, è stata un disastro: alla fine del 2021, il suo indice di gradimento presso gli ucraini era più o meno pari a quello, bassissimo, dell’ex presidente Poroshenko. E quasi metà degli elettori dichiarava che, in caso di elezioni presidenziali anticipate, di certo NON avrebbe votato per lui. La seconda, dal 24 febbraio in poi, è stata invece un trionfo: il suo rating è oggi superiore al 90% e non v’è ucraino che non lo riconosca come il leader della nazione. Nell’una come nell’altra stagione, approfittando prima delle leggi d’emergenza per la guerra nel Donbass e poi della legge marziale, Zelens’kij si è man mano liberato di tutti coloro che potevano fargli ombra o sui quali poteva essere scaricata la responsabilità di qualche insuccesso. Per esempio lo speaker del Parlamento Dmytro Razumkov (uno degli artefici della sua ascesa politica, peraltro) o il premier Oleksy Honcharuk. Al culmine del calo di consenso, nell’inverno scorso, Zelens’kij ha pure tirato fuori dal cappello un tentativo di golpe di cui non c’è prova alcuna ma che gli è servito per mettere sotto tutela l’oligarca Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco d’Ucraina.

Nei mesi seguiti all’invasione russa, Zelens’kij ha proseguito sulla stessa strada. Sulla lista dei personaggi accusati di tradimento (in regime di legge marziale…) sono finiti l’ex procuratrice generale Venedyktova, l’ex capo dei servizi segreti Bakanov, l’ex governatore della Banca Centrale Shevchenko, l’amministratore delegato della più grande fabbrica di motori per aereo Boguslayev, la proprietaria (e figlia di un ex ministro della Difesa ucraino) di una grande società per la produzione di armamenti Lebedeva, oltre a decine di alti gradi delle forze armate e funzionari dei servizi di sicurezza. Quindi, liberiamoci dell’idea che Zelens’kij sia un “eroe per caso”. Quando si tratta della gestione e conservazione del potere, sa perfettamente quel che fa.

Secondo. È ovvio che Zelens’kij recita: è un attore! Ma, di nuovo, si è calato perfettamente nella parte, a cui si è ben preparato. Qualcuno davvero crede che la maglietta grigioverde da soldato, i video, le ambientazioni, le dichiarazioni, siano stati frutti di un’improvvisazione? Che la rete fittissima di finti twittatori spontanei, Osint a senso unico, idealisti con la smania della comunicazione sia nata solo per lo sdegno nei confronti dell’invasione russa? Nessuno ha mai sentito parlare della Cyber Unit che, con preveggenza, prima della guerra l’Ucraina ha dislocato in Estonia, a poca distanza dal Centro di difesa informatica della Nato? O che sia un caso se il ministro ucraino della Trasformazione digitale sia un trentenne  di nome Mikhaylo Fedorov, che già il 27 febbraio arruolava “talenti digitali” (si sa, gli hacker esistono solo in Russia) disposti a combattere la cyberguerra contro i russi?

Per queste, e diverse altre ragioni ancora, mi pare evidente che Zelens’kij “ci fa”. Il problema per la Russia è che “ci fa” piuttosto bene.

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GUERRA, PATRIA, GAS E NUCLEARE – Mario Agostinelli

Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa  USA ( DNS), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare (v. https://www.defense.gov/News/Releases/Release/Article/3201683/department-of-defense-releases-its-2022-strategic-reviews-national-defense-stra/ ). Decisivo lo sarà, credo, perché incombono sul pianeta tre emergenze indifferibili se irrisolte: il brusco cambiamento climatico, la possibilità di una guerra nucleare, una crescente e insopportabile ingiustizia sociale. Ma, se si guardano i nostri telegiornali o si ascoltano le dichiarazioni finali dei summit sul clima o dei G20, sembrerebbe che il tema di fondo del prossimo decennio debba essere quello della contesa per la supremazia militare ed economica tra USA e Cina, con la Russia ridotta a potenza regionale o peggio. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un ignobile spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. La pace, che è il diritto sociale da cui dipende la fruizione di ogni diritto individuale, sociale ed ambientale, viene collocata ai margini, forse perché i governanti della parte più ricca dell’umanità arrivano a pensare che non ci sia spazio per tutti nel futuro del Pianeta.

Nel solco di una così terrificante ipotesi, mai palesemente esplicitata, la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina non troverà fine ed anzi si allargherà a nuovi cobelligeranti, mentre la società, sotto il segno di atroci sofferenze, distoglierà lo sguardo dal fare di dove abitiamo un luogo vivibile, ben oltre il prossimo decennio.

E’ in atto una potentissima “distrazione” dell’opinione pubblica, che si rivela anche attraverso un lessico profondamente incisivo che passa addirittura dalle istituzioni. Ormai il nazionalismo riarmato è la forma di competizione proposta ai popoli dentro i loro confini: nella Defence National Strategy USA  (DNS) la parola “nostra patria” compare 59 volte ed i nemici sono chiamati “concorrenti”, mentre i militari sono definiti “forza lavoro” ed è l’esercito che deve occuparsi di “resilienza al clima”; da noi, più timidamente, il Governo titola i nuovi Ministeri con parole come “sicurezza energetica”, “sovranità alimentare”, “merito”, che non alludono certo all’inclusione e alla fraternità universale. Ne segue che la democrazia liberale e lo spirito imprenditoriale diventano l’orizzonte da estendere, ma non superare, affinché “tutti la pensino allo stesso modo” e la crescita prosegua per i più attrezzati.

In un cambiamento così denso di potenza è l’energia che la fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. Così, se la bomba nucleare non è più solo un elemento di deterrenza – come lo è stata fino ad ieri dopo Hiroshima e Nagasaki – allora entra in gioco sia come dissuasore tattico che addirittura come occorrenza di “first strike” quando le minacce del nemico mettono in discussione una supremazia affermata e da esibire (“deterrenza integrata” è la ridefinizione nella DNS). Nella prospettiva di un mondo caratterizzato dalla presenza della vita una tale discontinuità è enorme. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi- fino a quella atomica.

(Si pensi che il presidente della Lombardia Fontana ha dichiarato di essere disponibile a valutare un reattore nucleare in Lombardia). Assunto questo rischio, la guerra locale assume già dimensione globale. E il rilancio dei fossili fa parte di un “ritorno a prima”, che la pandemia sembrava avere esorcizzato. Pertanto, mentre viene sanzionato e tolto di mezzo il gas russo, non si programma affatto il rilancio delle rinnovabili, ma si acquista addirittura metano liquido estratto da pozzi oltremarini e localmente rigassificato, con un bilancio energetico ed economico disastroso (il prezzo che gli europei pagano per il gas è quattro volte quello quotato negli stati Uniti).

 

Ci si accorge solo ora che la transizione energetica in tempo di guerra sta diventando anche una guerra commerciale USA -UE (v. F.Saraceno su “Domani” del 4 Dicembre).  Che l’energia sia un bene pubblico strategico è diventato chiaro con lo scoppio della guerra in Ucraina, che ha rotto le cuciture con la Russia del modello energetico tedesco e italiano e di altre regioni continentali, mentre un’estate di siccità e problemi di manutenzione in vari impianti hanno messo in discussione anche la riproducibilità del modello francese, progettato attorno al nucleare.

L’energia più economica è diventata un enorme vantaggio competitivo per le aziende americane. Biden ha varato una legge che prevede 800 miliardi di aiuti federali per un volume di investimenti industriali da 1.700 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Si tratta di un grande sforzo nella direzione della manifattura, per tutto ciò che ha a che fare con la transizione energetica: pannelli, turbine eoliche, idrogeno, nucleare, batterie, auto elettriche, cattura delle emissioni, biocarburanti, estrazione e raffinazione delle materie prime strategiche, auto elettriche, semiconduttori. Al confronto, il Recovery europeo da 800 miliardi – di cui gran parte solo per acquistare e installare tecnologie fatte all’estero – sparisce. Le aziende europee di grandi dimensioni stanno pianificando nuovi investimenti negli Stati Uniti o addirittura trasferendo le loro attività esistenti alle fabbriche americane: Enel (Italia). Safran (Francia), Northvolt (Svezia). Iberdrola (Spagna), e la multinazionale tedesca Basf ne sono un esempio.

C’è bisogno di un robusto ritorno della politica sul lavoro, l’occupazione, la riconversione ecologica, inserito nella ricerca ostinata della pace. Robert Habeck, vice-cancelliere tedesco ha dichiarato all’adnKronos “È finita la fase in cui molti pensavano che i mercati comandassero e la politica dovesse starne fuori (…). Quando si tratta di energia, commercio, infrastrutture, non esistono decisioni impolitiche”. (v. https://metronews.it/2022/11/24/ucraina-habeck)

In Italia, invece, si discute al più di condoni e mini-cunei fiscali, soglie del contante, quota 103 per la pensione, al più di aiuti in bolletta, perdendo di vista le politiche industriali e, per insana abitudine, cancellando il giorno dopo quel che è accaduto il giorno prima, come è avvenuto per la grande manifestazione del 5 Novembre a Roma per il cessate il fuoco.

 

La RAI mostra le immagini dei bombardamenti ucraini su Donetsk spacciandoli per russi – Enrica Perucchietti

«È l’ennesima strage di civili quella del mercato di Kurakhove nel Donetsk, ci sono 8 morti e almeno 5 feriti ma colpi di artiglieria russi sono arrivati anche sulle fermate degli autobus al centro della città». Esordisce così Rosanna Fabrizi corrispondente da Odessa per il TG3 in un servizio del 7 dicembre. Riprendendo una fonte esclusivamente ucraina e immagini della Ukainska Pravda, secondo l’inviata della RAI l’esercito russo avrebbe bombardato la città di Kurakhove, colpendo anche l’area dello stadio “Donbass Arena” e del Mercato Coperto.

A smentire questa ricostruzione sono stati i russi che hanno diffuso sui social il video del bombardamento nel distretto Voroshilovsky di Donetsk, mostrando come gli attacchi fossero stati lanciati dai nazionalisti ucraini. La RAI ha utilizzato le immagini del bombardamento ucraino sul mercato di Donetsk per accompagnare i servizi che denuncerebbero i bombardamenti russi sul territorio sotto il controllo di Kiev, ribaltando la dinamica e attribuendo così la colpa all’esercito russo.

Similmente la BBC ha usato le immagini di un edificio di Donetsk colpito dagli ucraini facendole passare per immagini dell’Ucraina bombardata dai russi, come riportato da Roman Kosarev, corrispondente di RT.

A smascherare la propaganda ucraina anche il canale War Fakes che ha divulgato su Telegram le immagini e i video in cui si analizza la dinamica dell’accaduto e si sottolinea l’assurdità secondo cui l’esercito russo dovrebbe bombardare i territori annessi in seguito al referendum.

A perdere la vita sotto i bombardamenti ucraini anche la giornalista Maria Pirogovadeputata del Consiglio del popolo dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk. Pirogova era stata sanzionata dall’Ucraina e da alcuni Paesi occidentali. L’ufficiale delle forze armate ucraine Anatoly Shtefan ha commentato la notizia sui social: «Ciao Masha. Ufficialmente smobilitata».

A scagliarsi contro il servizio pubblico italiano per l’ennesima fake news, è Giorgio Bianchi su Visione TV: l’inviata della RAI – accusa – avrebbe proposto le immagini dei bombardamenti ucraini su obiettivi civili spacciandoli per russi. Vittorio Rangeloni, invece, si trovava a poca distanza, per cui è riuscito a raggiungere subito le zone colpite: «Da dieci giorni – denuncia sul suo canale Telegram – i lanciarazzi “Grad” ucraini, a “porzioni” di 6-10 razzi alla volta, stanno distruggendo una città ammazzando civili senza alcun senso… e come al solito il mondo è girato di spalle, insensibile al terrore dimostrato da Kiev».

Il giornalismo italiano non è nuovo a questo genere di falsificazioni e la catena di disinformazione è lunga: il 16 marzo scorso La Stampa utilizzò una foto, in questo caso decontestualizzata, che mostrava un uomo anziano disperato che si copriva il volto con le mani. Intorno a lui una distesa di cadaveri straziati: braccia mutilate, arti smembrati, urla di dolore. Lo scatto faceva pensare alle conseguenze di un attacco russo contro l’Ucraina, perché nelle colonne che affiancavano la copertina si parlava di Leopoli e Kiev. Il titolo a corredo della fotografia era: “La carneficina”. Attorno a quella foto venivano richiamati articoli sui “traumi dei bambini in fuga da Leopoli”, su come Kiev si preparasse all’“assalto finale” dei russi, sulla strategia di Biden, sulle reazioni dell’Occidente o le gesta della giornalista anti-Putin a Mosca. Facile, dunque, dedurre dalla prima pagina del quotidiano torinese come i cadaveri nell’immagine fossero persone di nazionalità ucraine vittime dei bombardamenti russi. Eppure, non era così. Quell’immagine drammatica non era stata immortalata a Kiev o a Leopoli, ma a Donetsk, e quei corpi maciullati a terra erano i cadaveri di 23 civili russofoni, caduti sotto le schegge di un missile Tochka-U abbattutosi nelle strade centrali della città. Anche in quel caso si sfruttarono le immagini e l’orrore della guerra a senso unico, per indirizzare il lettore a credere che si trattasse di un massacro subito dai civili ucraini.

Non era tecnicamente una fake news, bensì una forma di mistificazione che, attraverso il potere evocativo delle immagini, voleva “orientare” le persone ad abbracciare una versione falsificata della realtà.

L’ennesimo, ma non ultimo, imbroglio nei confronti dei lettori e della verità.

da qui

 

 

Chi guadagna. Guerra in Ucraina: altra vetrina per il commercio delle armi, che cresce – Francesco Palmas

Le industrie belliche, controllate anche dai governi occidentali, non conoscono crisi. Fatturati giganteschi, sulla pelle di chi muore e dei poveri dimenticati

Cinquecento miliardi di dollari: è il fatturato realizzato l’anno scorso dai cento colossi principali dell’armamento mondiale secondo l’ultimo rapporto del Sipri, l’autorevole Istituto per la pace svedese. In 365 giorni, l’incremento sfiora il 2%. E i dati avrebbero potuto essere ancora più opulenti se non avessero risentito degli ultimi strascichi della pandemia, che ha azzoppato scambi e logistica, impedendo la maggior parte delle fiere internazionali di morte, cenacolo di nuovi affari.

È come se i colossi delle armi non conoscessero la parola crisiI loro guadagni crescono ininterrottamente da sette anni a questa parte. Equivalgono alla ricchezza nazionale che un Paese prospero come il Belgio riesce a mettere su in un anno. E il futuro si annuncia altrettanto roseo, perché la guerra in Ucraina sta gonfiando i bilanci militari in tutta Europa.

La sola Germania ha sbloccato 75 miliardi di euro per comprare nuove armi.

Italia, Francia, Polonia, Belgio, Olanda e Paesi Baltici hanno in animo di rinverdire tutto il parco terrestre, aereo e navale.

Una manna per i mercanti: diversamente dalle altre industrie (52,6%), le loro aziende vivono di commercio (80,4%). Alimentano i traffici internazionali di armiche sono spesso una partita di giro, benefica anche per la bilancia dei pagamenti degli Stati in cui operano.

La nostra Leonardo, cresciuta del 15% in un anno, è controllata al 30,2% dal governo italiano. È il dodicesimo gruppo mondiale del settore armiero: le sue ricchezze dipendono per l’83% dai contratti bellici.

Nella vicina Francia, il discorso è identico: lo stato possiede l’11% di Airbus, il 18% di Safran, il 34,9% di Thales, il 62,3% di Naval Group, il 50,38% di TechicAtome e due seggi su sette nel comitato di sorveglianza di Knds, tutte aziende che hanno potenziato i ricavi l’anno scorso (15%). Complice la guerra, il clima si sta deteriorando.

La Banca europea per gli investimenti ha allentato le maglie. Dal 2017, consente finanziamenti di tecnologie duali, valevoli per il mondo civile ma integrabili nei sistemi d’arma.

Perfino il Pnrr è ambiguo: non vieta a priori di dirottare risorse sugli investimenti militari.

Nel pubblicare il suo rapporto annuale, l’Istituto per gli studi sulla pace di Stoccolma si mostra insolitamente prudente. Preconizza difficoltà venture per i giganti delle armi, per due motivi: la crisi dei semiconduttori e l’embargo sulla Russia, da sempre fornitore chiave di titanio, perno dell’industria aerospaziale.

Ma non tutti concordano. L’amministratore delegato di Lockheed Martin, numero uno mondiale delle armi, si mostra spavaldoincassata una crescita del 2% quest’anno, prevede una progressione geometrica dei ricavi da qui al 2026. Guida il gruppo che produce gli F-35 e i lanciarazzi Himars.

La guerra ucraina è una gigantesca vetrina per i suoi prodotti: vantati da Kiev, gli Himars hanno il vento il poppa. Sbarcheranno presto in Polonia, in Romania, in Estonia, in Lettonia, in Australia, forse in Francia e riscuotono pure gli apprezzamenti ungheresi. Ogni razzo che sparano costa 150mila dollari. Agli affari non c’è limite.

Avvenire giovedì 8 dicembre 2022

 

 

Semi di Nonviolenza nel Servizio Civile. Storie di un obiettore, di Gianni Ghiani

E’ uscito in questi giorni, a cura dell’editore Olmis di Osoppo, il libro Semi di nonviolenza nel Servizio Civile. Storie di un obiettore,  di Giovanni Ghiani.

Perché tornare oggi con la memoria ad anni lontani, i “novanta” del servizio civile nella Caritas concordiese?

E’ stata una scelta decisamente politica dell’autore, quella di ritornare a quell’esperienza,  narrandola con stile narrativo leggero, a fronte del riesplodere in questi anni non solo della guerra – ché, dal 1989, ci siamo abituati di nuovo anche in Europa a questo fenomeno, che non era mai smesso nel resto del Pianeta – ma soprattutto alla constatazione di come un intero patrimonio, quello del pacifismo nonviolento, sembri del tutto scomparso dall’orizzonte politico…

continua qui

 

 

dice l’indegno Borrell: “in fondo cosa hanno fatto gli americani? Hanno solo ucciso 4 indiani”

 

 

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