Macerie sotto il tappeto

ricevo da Gianluca Cicinelli

La tensione civile che ha accompagnato la fiaccolata in ricordo del terremoto di due anni fa a L’Aquila si è allentata parzialmente solo quando il cemento “incerottato” lungo il percorso ha lasciato il posto al verde del viale che costeggia il Castello del capoluogo abruzzese. Solo in quel momento, quando gli occhi non sono più stati costretti a un movimento continuo tra la strada e le riparazioni delle mura martoriate, tra le decine di cartelli delle ditte che annunciano la  ricostruzione di abitazioni ed uffici e la realtà tragica delle pietre ancora ammassate dietro le facciate degli edifici, come spazzatura nascosta sotto il tappeto buono del salotto, solo in quel punto dove la natura per cento metri è tornata ad essere naturale si è ricominciato ad udire brani di conversazione normali, chiacchiere di chi si ritrova straniero nella propria città e si guarda intorno stupìto chiedendo notizie agli altri.

E’ mezzanotte. Qualche voce più alta sottolineava gli abbracci di un gruppo di pensionati che si erano dati appuntamento: “Ci ritroviamo qui soltanto oggi – spiegava uno di loro – perchè non abbiamo più un posto di socialità, un centro dove incontrarci. Non basta avere un tetto sopra la testa, ci devono ridare anche le piazze, i servizi”. Secondo una ricerca molto recente, effettuata da Micodis, metà della popolazione soffre di forti disagi psicologici, con un aumento del consumo di alcol e droghe; a due anni dal terremoto solo due terzi dei cittadini risultano occupati, con un calo fortissimo del reddito, mentre sono crollate le iscrizioni all’università. Anziani e giovani, passato e futuro tagliati fuori, ma presenti in massa nella notte del ricordo. Un fiume soprattutto di giovani e giovanissimi che si è fermato in raccoglimento ad ogni tappa della via crucis partita dall’ala orientale de L’Aquila e che ha percorso l’intero perimetro delle mura concludendosi nella piazza del Duomo, monumento, con tutto il centro storico, agli enormi ritardi nella ricotruzione. E’ iniziato e si è svolto tutto in un silenzio surreale, con centinaia di persone, saranno oltre ventimila alla fine, che hanno iniziato la strada percorrendo la salita alla spicciolata fino a ingrossare le fila della fiaccolata. Qualche signore più anziano in difficoltà con la torcia che brucia troppo in fretta, alcune signore in pelliccia, chissà se ecologica o meno, che difficilmente due anni fa avrebbero immaginato di partecipare a una simile manifestazione, gli ultimi avvisi dei genitori ai ragazzi in caso ci si dovesse perdere e poi via, tutti in fila. Poi il silenzio ha finito per impadronirsi con semplicità del corteo ancora fermo. La dignità e la compostezza non stanno solo a Tokyo, questo raccontava il fermo immagine mentre la folla iniziava a scorrere, migliaia di cittadini che sarebbero rimasti volentieri al loro posto la notte del 6 aprile 2009, come nelle immagini recenti dalla capitale del Sol Levante, in cui gli abitanti aspettano che passi il peggio sapendo che le strutture di cemento che li ospitano alla fine reggeranno alle scosse. A L’Aquila non ha retto niente invece, ma quel che è peggio, sembra urlare al mondo questo fiume umano senza parole, è il ritardo nella ricostruzione, la doppia violenza subìta da chi ha perso tutto, anche la voglia di credere alle promesse.

“Qui almeno c’è un po’ di attenzione e hanno pulito per l’occasione – racconta un impiegato del Comune – ma se ti sposti a Paganica le cose sono ferme alla notte del terremoto”. Dal corteo qualche mano indicava finestre rimaste incrinate esattamente come al momento del sisma, qualcuno lanciava un bacio verso un balcone di cui è ancora visibile l’infisso in ferro ma senza più il pavimento, qualche lacrima solcava lentamente i visi dei più anziani, la città sembrava tornare per qualche minuto ai suoi abitanti, cittadini riammessi per una notte nel cuore delle proprie radici. Persino i giornalisti hanno evitato le interviste in questo lungo momento. Le telecamere saranno solo in  piazza Duomo, ma immobili, lavorando di zoom e senza invadere i movimenti della fiaccolata che entra e come un liquido si espande riempendo tutto lo spazio disponibile. La facciata del Duomo de L’Aquila è come quella dei film: c’è solo la facciata. Aggirando l’enorme spiegamento di polizia è facile penetrare alle spalle del Duomo, zona lasciata nel buio più totale durante la fiaccolata, e trovarsi in mezzo a pietre sconnesse accatastate il più possibile in prossimità del marciapiede. Ma quando le campane della chiesa di Santa Maria del Suffragio hanno cominciato a battere i 309 rintocchi, uno per ogni vita spezzata, senza scordare i circa 1600 feriti, tutti hanno chinato il capo. Quando le quattro ragazze sul palco, lasciato in penombra, hanno letto in un arco di tempo che è sembrato infinito, a turno, i nomi uno dopo l’altro, allora le immagini del degrado hanno lasciato il posto alla memoria: gesti quotidiani che non potranno più essere compiuti, sorrisi e volti che si materializzano nell’aria senza tempo. Qualcuno zoppicando ancora, monumento permanente al sisma, raggiunge il suo gruppo familiare senza dire niente e le mani si legano l’una a quelle degli altri.

Nessun lamento, niente grida, solo dolore e poca speranza. Adesso sembrano ancora più fuori luogo le immagini dei cartelli del corso cittadino che accanto alle foto del sisma evidenziano i volti dal sorriso involontariamente beffardo dei partecipanti al G8 del 2009. All’ultimo nome si sono spente anche le luci dell’unico bar riaperto per l’occasione. Sono arrivate le cinque del mattino in silenzio, sempre in silenzio, il silenzio più rumoroso possibile. Tutti vanno via ordinatamente, perchè domani, quando le telecamere saranno spente su L’Aquila, bisogna comunque vivere o almeno provarci.

ciuoti

5 commenti

  • Dilagare liquido, inarrestabile come il sangue così profondamente umano, di compostezza e dignità.
    Grazie Gianluca.
    c.

  • grazie Gianluca,
    volevo aggiungere una considerazione o forse un dubbio su una tua frase.
    Tu scrivi: “Persino i giornalisti hanno evitato le interviste in questo lungo momento”. Il che presuppone che questa categoria (o parte di essa) non abbia venduto l’anima al diavolo o al potente di passaggio.
    Può darsi. Io per la mia limitata esperienza (scrivo dal 1970 e dal ’91 sono un “professionista”) direi così. Una percentuale che valuterei fra circa il 5 e il 15 per cento di giornaliste/i è attenta alle persone e dunque – per riprendere la tua frase – fra loro vedo chi sarebbe capace di riporre taccuini e cineprese per “rispetto umano”. Ma circa il 50-60 per cento della categoria invece io lo vedo svolazzare come avvoltoi ogni volta che si possa “strappare” qualcosa; e dunque cercherei un’altra spiegazione rispetto all’episodio che citi… a esempio che in questa caso poteva essere rischioso dar voce a chi disturba i potenti (in testa il signor P21816) che su L’Aquila mettono in scena un altro copione. Se Gianluca o altra/o mi obietta che il totale non torna perchè 60 (al massimo) più 15 (al massimo) fa 75 e non 100 rispondo: l’altro 25 circa (ma potrebbe essere un 45) della categoria mi sembra da tempo in una condizione tipo zombie, quasi incapace di distinguere il mestiere dal crimine. Un caso clinico forse più che politico. O, se gli amanti del liceo classico preferiscono, “donabbondio abita in redazione”. Ora i conti tornano? (db)

  • e forse donabbondio che abita in redazione non ricorda più come si fa a mostrare la verità.
    la dignità dovrebbe essere appannaggio di tutti, soprattutto di chi dovrebbe informare.

    è che qui (in Italia, non qui nel blog dei barbieri, parrucchiere ecc) si fa presto a dimenticare. le notizie vanno bene quando c’è la tragedia ‘calda’, poi tutto tace.
    qui, o si fa sensazione o niente.

  • Grazie a te, Clelia.
    D’accordissimo Daniele. Infatti quella frase la intendevo nel senso che i giornalisti hanno capito che non era proprio aria, avrebbero trovato risposte ferme e non solo cortesi, dopo lo scempio che l’informazione ha compiuto in quella città. Ricordate quelli che, telecamera alle spalle, la prima notte all’addiaccio aprivano le portiere delle macchine dove dormivano i terremotati per chiedere come stavano? Confesso che se un tribunale popolare li avesse piazzati in un campo di lavoro per un annetto non avrei gridato allo stravolgimento dell’ordinamento democratico. Quindi l’altra notte l’aria era del tipo: fai un’altra sciacallata del genere e ti mordo. Al tempo stesso, essendo ogni tesi portatrice di una contraddizione, è importante che rimangano presidi di giornalismo corretto a garantire che L’Aquila, dove la criminalità sugli appalti combatte una battaglia che rischia di vincere alleandosi con la politica, sia sotto costante osservazione per la regolarità della ricostruzione.
    Anni fa ad Amman vidi una troupe della Rai mettere in fila una ventina di ragazzini a cui avevano dato un dollaro l’uno, per inscenare una finta protesta filo occidentale contro re Hussein. E nemmeno per fini politici ma per svoltare i due minuti della sera al telegiornale e rientrare in albergo soddisfatti, appunto: “incapace di distinguere il mestiere dal crimine”.

    • e non fu la “mitica” Bbc, qualche anno fa, che in una città del nostro Meridione sparse cartacce e rifiuti perchè le immagini dovevanop mostrare il degrado e quel luogo invece aveva un’aria pulita?
      e chi ha Radiouno accesa ogni giorno non sente ogni giorno che le notizie o i commenti scivolano sempre più verso l’insensatezza e l’impossibilità di verifiche tipica degli oroscopi?
      ma Radiouno la paghiamo noi vero? Come è stipendiato con i nostri soldi quell’alto dirigente del Cnr che ha detto che i terremoti (in Giappone, su L’Aquila credo non si sia pronunciato) sono punizioni divine e che l’impero romano crollò per colpa dei gay (db)

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