«Le mosche hanno conquistato la carta moschicida»

Rileggendo «La luna è tramontata» di John Steinbeck: disobbedienza di massa nella Norvegia occupata dai nazisti (*)

LaLunaètramontata

Quasi all’inizio del romanzo, presentando gli ufficiali nazisti, leggiamo: «Quelli erano gli uomini dello stato maggiore, che giocavano tutti alla guerra come i ragazzi giocano ai “quattro cantoni” […] La loro guerra fino a quel momento era stata un gioco» contro avversari deboli. «Di tutti, solo il colonnello Lanser sapeva che cosa sia realmente la guerra, quando dura già da un certo tempo. Lanser era stato nel Belgio e in Francia 20 anni prima e cercava di non pensare a ciò che sapeva: che la guerra è tradimento e odio, pasticci di generali incompetenti, tortura, assassinio, disgusto, stanchezza finché poi è finita e nulla è mutato, se non che c’è una nuova stanchezza, un nuovo odio».

Quello che interessa gli occupanti nazisti è il carbone. Il colonnello Lanser lo mette subito in chiaro parlando con Orden, il sindaco della città (senza nome) che però obietta: «Ma se gli operai non volessero lavorare nella miniera?». Lanser replica che per questo «lasciamo in carica il vostro governo». Pacatissimo il sindaco obietta: «Vi sono popoli che accettano capi imposti loro e a cui obbediscono. Ma il mio popolo ha eletto me. Mi hanno fatto e possono disfarmi», E’ un dialogo fra sordi. Il colonnello ribadisce «Dovete pensarci voi» ma Orden non ci sta e – «con un tantino di fierezza» – gli risponde: «Il mio popolo non ama che altri pensi per lui».

Con un tantino di fierezza.

E’ l’inizio della non collaborazione che poi diventerà resistenza (individuale e popolare), sabotaggio e lotta aperta.

Più avanti il colonnello Lanser dice: «Sono stanco di gente che non ha mai fatto la guerra e che sa tutto di essa» rispondendo a un “collaborazionista” il quale ha insinuato che lui abbia paura. Poi si prende il mento con la mano e continua: «Ricordo una vecchietta a Bruxelles, una faccina mansueta, i capelli tutti bianchi; era alta appena un metro e cinquanta e aveva le mani delicate. Le si potevano vedere le vene quasi nere sotto la pelle. Vedo ancora il suo scialle nero, i capelli d’un bianco dai riflessi azzurri. Aveva preso l’abitudine di cantarci le nostre canzoni nazionali con una vocine tremula e dolce. Sapeva sempre dove trovare una sigaretta o una vergine». E poi – «come se si svegliasse da un sogno» – Lanser conclude: «Non sapevamo che suo figlio era stato fucilato. Quando finalmente la condannammo a morte. Ella aveva ucciso 12 dei nostri uomini con un lungo spillone da cappello. L’ho ancora a casa. Ha un bottone di smalto con sopra un uccello, rosso e blu».

Nella città norvegese un tedesco «colto da una crisi di debolezza, una sera, disse che le mosche avevano conquistato la carta moschicida e ora tutta la nazione conosce le sue parole. Ne hanno fatto persino una canzonetta. Le mosche hanno conquistato la carta moschicida».

La rivolta è inevitabile anche se gli occupanti non capiscono: «Credono, solo perché hanno un unico condottiero e un’unica testa che noi siamo tutti così. Sanno che 10 teste tagliate sarebbero la rovina di tutti loro, ma noi siamo un popolo libero, noi abbiamo tante teste quanta gente siamo».

Come di consueto, non racconterò la trama per esteso. Nel finale – molto bello – il norvegese condannato a morte ripensa all’«Apologia» di Socrate, studiata per una recita scolastica, con la celebre frase: «un uomo che sia veramente giusto non deve calcolare le probabilità di vivere o di morire; deve solo considerare se quello che fa è giusto o non lo è». Poi la condanna dei suoi giudici: «Se credete che uccidendo uomini» – spiegò Socrate – «possiate impedire a qualcuno di censurare le vostre vite malvagie siete in errore». E al condannato a morte sovvengono ancora le ultime parole di Socrate: «Critone, debbo un gallo a Asclepiade. Ti ricorderai di pagare il debito?».

Il debito sarà pagato… nella Norvegia occupata dai nazisti. Ma, proprio mentre rileggevo questo romanzo, si consumava una nuova tragedia del “debito” contro il popolo greco. E io ho pensato che i debiti vanno pagati ma gli usurai, gli affamatori somigliano agli occupanti nazisti: andrebbero colpiti al cuore con un paletto, come i vampiri che sono.

(*) Ho riletto questo libro – che era uscito nel 1942, in piena guerra – in una vecchia edizione Mondadori, nella classica traduzione di Giorgio Monicelli. Credo che in libreria non sia difficile trovare i migliori romanzi di Steinbeck ma in ogni caso segnalo che Bompiani il 17 settembre ne rimanda in libreria due: «La battaglia» – di grande attualità, mi è venuta voglia di rileggerlo – e «La perla» (che non conosco). Anche questa sorta di recensione va a collocarsi nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita e probabilmente continuerà a capitarmi di non parlare tempestivamente in blog di alcuni bei libri pur letti e apprezzati. Perché accade? A volte nei giorni successivi alle letture sono stato travolto (da qualcosa, qualcuna/o, da misteriosi e-venti, dal destino cinico e baro, dalla stanchezza, dal super-lavoro, dai banali impicci del quotidiano +1, +2 e +3… o da chi si ricorda più); altre volte mi è accaduto di concordare con qualche collega una recensione che poi rimaneva sospesa per molti mesi fino a “morire di vecchiaia”. Ogni tanto rimedio in blog a questi buchi, appunto chiedendo venia. Però, visto che fra luglio e agosto ho deciso di recuperare un bel po’ di queste letture e di aggiungerne altre, mi sa che alla fine queste recensioni recuperate e fresche terranno un ritmo “agostano” quasi quotidiano, così da aggiornare in “un libro al giorno toglie db di torno” quel vecchio detto paramedico sulle mele. D’altronde quando ero piccino-picciò e ancora non sapevo usare bene le parole alla domanda «che farai da grande?» rispondevo «forse l’austriaco (intendevo dire “astronauta” ma spesso sbagliavo la parola) oppure «quello che gli mandano a casa i libri, lui li legge e dice se van bene, se son belli». Non sono riuscito a volare oltre i cieli, se non con la fantasia; però ogni tanto mi mandano i libri … e se no li compro o li vado a prendere in biblioteca, visto che alcuni costano troppo per le mie attuali tasche. «Allora fai il recensore?» mi domandano qualche volta. «Re e censore mi sembrano due parolacce» spiego: «quel che faccio è leggere, commentare, cercare connessioni, accennare alle trame (svelare troppo no-no-no, non si fa), tentare di vedere perché storia, personaggi e stile mi hanno catturato». Altra domanda: «e se un libro non ti piace, ne scrivi lo stesso?». Meditando-meditonto rispondo: «In linea di massima ne taccio, ci sono taaaaanti bei libri di cui parlare perché perder tempo a sparlare dei brutti?». (db)

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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