Le porte dello spazio si sono chiuse?

Recensione di Marco D’Eramo (uscita sul quotidiano “il manifesto”)

Il viaggio nel tempo è uno dei grandi temi della fantascienza, ma nel caso del godibile volumetto di Daniele Barbieri e Riccardo Mancini, è anche l’effetto provocato da un libro sulla fantascienza.

Infatti, fin dalla copertina e dalla stimolante prefazione di Valerio Evangelisti, questo Di futuri ce n’è tanti (edizioni Avverbi, pp. 161, € 12,00) tuffa i lettori nel passato. In particolare, il lettore ultracinquantenne è tuffato nel proprio passato: ripercorrendo gli otto sentieri tematici di lettura proposti dagli autori, ritorna alle migliaia di ore spese nella propria giovinezza sui racconti di Robert Sheckley, Frederic Brown, Isaac Asimov, sui romanzi di Clifford Simak, Frederik Pohl, Arthur Clarke, Theodore Sturgeon,  Philip Dick, Josè Farmer, e la lista è ancora lunga (ma non sterminata).

Come oggetto fisico, fin nell’impaginazione a due colonne, il libro è il facsimile di un volume della collana Urania della Mondatori che dopo la seconda guerra mondiale introdusse la sf (sciencefiction) in Italia con scadenza quindicinale in edicola: già l’apparenza ci riporta perciò agli anni ’50 e ‘60 del secolo scorso. E subito, dalla prefazione di Evangelisti, il lettore viene assillato dalla domanda che continuerà a tarlarlo lungo tutto il libro: ma perché a un certo punto abbiamo quasi tutti smesso di leggere fantascienza? Vent’anni fa Urania vendeva 50.000 copie, ora meno di un decimo. La gloriosa rivista Galassia appartiene al passato: autori un tempo famosi vivono (e muoiono) in miseria totale, come pugili che furono campioni.

Perché ha preso ad annoiarci quel che ci aveva appassionato e ci faceva passare notti insonni? Certo, ci sono notevoli eccezioni, una è proprio Evangelisti col suo ormai celebre ciclo sull’inquisitore domenicano Eymerich: ma quest’apparente smentita è nello stesso tempo una conferma del disamore per la sf classica, perché Evangelisti ha dovuto reinventarsi il genere.

Una prima risposta viene proprio dal creatore di Eymerich: la sf era «una narrativa che trattava di sistemi, di economie globali, di società complete e conflittuali, di utopie in apparenza lontane ma fortemente ancorate alla contemporaneità». «È entrata in seria crisi questa forma narrativa, solo quando qualcuno (qui personalizzo quello che in realtà è un trend socioculturale di lungo periodo) bruscamente ha deciso che fosse proibito sognare secondo logica. Che non vi fossero alternative al presente, e che ogni proiezione razionalmente utopica portasse alla catastrofe. Finiti i sogni, finite le opzioni, finita la fantascienza. Esiste un reale unico e immodificabile, cui tutti si devono disciplinare».

Questo sguardo sul passato ci porta a riflettere sul nostro presente, e quando nella loro introduzione Barbieri e Mancini ci dicono che la nostra è una società che «dimentica il suo futuro», colgono nel segno e provocano una fitta, perché è vero che il futuro è – come dicono gli americani – uscito dal nostro radar. Ogni tanto ci viene proposto come imminente catastrofe ecologica, cioè come «fine del futuro», ma non è più in discussione quale avvenire ci stiamo plasmando, e quale invece vorremmo. Contro Voltaire che nel Candide lo sfotteva, ha ripreso il sopravvento il buon vecchio Leibniz, e con lui l’idea che «il nostro è il migliore dei mondi possibili», e con essa anche la sua simmetrica: che «non vi sono mondi possibili migliori di questo qui» ed è quindi inutile, vano, fatuo e insieme tragico cercare di cambiare il mondo in meglio.

È indubbio che il declino, e forse anche la scomparsa, della sf sia dovuta a quest’eclissarsi dell’idea che «un altro futuro è possibile». Ma scorrendo le veloci pagine di Erremmedibbi (così si firmavano questi due vecchi complici quando frequentavano la redazione e la tipografia del manifesto), mi rendo conto che, per quanto potente, non è l’unico fattore.

Se è vero che ci si è chiusa ogni porta sul futuro, anzi ogni «porta sull’estate», come nell’omonimo romanzo la chiamava Robert Heinlein per quel fantastico personaggio che era il gatto Petronio Arbitro detto Pete, è altrettanto vero che ci è stato sbarrato ogni cancello sullo spazio esterno.

L’età d’oro della fantascienza termina infatti quando si chiude di colpo l’esplorazione umana nello spazio (1972). La passione per la fantascienza che percorse quei decenni resterebbe incomprensibile se non fosse ancorata all’incrollabile fiducia che allora si aveva nell’ineluttabilità della «conquista dello spazio» da parte dell’uomo. Ricorda Erremmedibbì che nel 1960 «il gesuita padre Grasso si chiedeva su La Stampa se gli eventuali abitanti di altri mondi dovessero o no ubbidienza alla Chiesa».

Avevo appena compiuto dieci anni quando la cagnetta Laika lanciava i suoi guaiti da un satellite sovietico: primo vivente a uscire dall’atmosfera terrestre. Ne avevo 21 quando il primo uomo «allunò» sul nostro satellite. E quel 31 dicembre, noi studenti romani di fisica ci ripromettemmo di festeggiare sulla Luna il capodanno del 2000. D’altronde il primo aereo dei fratelli Wright non era forse volato il 17 dicembre 1903 e già  nel 1919 i primi passeggeri paganti volavano sulle rotte commerciali? Perché dunque non considerare plausibile, anzi probabile, anzi ineluttabile, che la stessa accelerazione tecnologica avrebbe portato gli uomini prima a esplorare il sistema solare e poi a «salpare» verso le stelle e, chissà, verso le galassie? Sembrava inevitabile, nella logica delle cose, che avremmo visto nella nostra vita le prime basi su altri pianeti: «Se nel 1969 gli uomini avevano messo piede sulla luna, gli anni ’70 sarebbero stati certamente quelli delle spedizioni verso Marte, di una colonia lunare e dell’esplorazione dei confini del sistema solare» (Spinrad).

Come il mondo era d’improvviso diventato più grande con le grandi navigazioni oceaniche, così, per omologa estensione, la casa dell’uomo si sarebbe estesa a tutto lo spazio. Di questo paragone portava traccia tutto il linguaggio della fantascienza: la navi diventavano astronavi, le flotte erano flotte spaziali, i viaggi traversate spaziali, e nella logica narrativa i singoli pianeti agivano come isole di un oceano. Le confederazioni di sistemi solari vicini somigliavano alle antiche leghe di arcipelaghi. C’erano i “pirati” dello spazio, c’erano I mercanti dello spazio (un bel romanzo di Frederick Pohl e Cyril Kornbluth). Nei romanzi di Jack Williamson i minatori andavano a scavare nei satelliti di Giove. I delinquenti venivano mandati a scontare le loro pene sui pianeti più isolati e disagiati della galassia (come una volta alla Caienna o in Australia). Con una lievità che a volte è perfino eccessiva rispetto alla gravità dell’argomento, Erremmedibbì ha una grande passione e un vero dono per le citazioni ‘chicche’, tra cui questa, già di fine ‘800, in cui quello spietato colonialista che era Cecil Rhodes rimuginava: «Il mondo è quasi tutto parcellizzato e ciò che rimane sta per essere diviso, conquistato e colonizzato. E pensare a queste stelle che vediamo di notte, questi mondi immensi che non potremmo mai raggiungere. Se potessi, mi annetterei i pianeti». In questa logica, ma con un cambiamento enorme di scala, l’uomo avrebbe domato almeno – obiettivo minimalista –  il sistema solare.

Ma, si sa, le cose non andarono così: nel dicembre 1972 nessuno di noi avrebbe potuto prevedere che sarebbe stata – per molto tempo, forse per sempre – l’ultima volta in cui l’uomo avrebbe posto piede sulla luna, «l’ultimo allunaggio»; e che quel che doveva essere l’inizio della colonizzazione si sarebbe rivelato una «ritirata dalla luna» (che, rispetto allo spazio, rappresenta una gita fuori porta rispetto a una transoceanica). La delusione della ritirata, e della sua irreversibilità, fu altrettanto cosmica della previa speranza suscitata.

Da allora le porte dello spazio si sono rinchiuse sulla terra che, da allora, è la prigione da cui, con ogni verosimiglianza, non potremo mai evadere.  È in questo rinchiudersi dell’orizzonte sul pianeta terra che si situa una delle conclusioni del moderno: non dimentichiamo che la modernità era nata con il sistema copernicano, con l’idea che non  c’è la nostra terra contro i corpi astrali, ma che siamo tanti pianeti equiparabili tra loro, in orbita intorno a uno stesso sole. Il mondo si era aperto. Cyrano de Bergerac compiva il primo dei tanti viaggi sulla luna. In un certo senso, il tragitto della modernità è stato un enorme andata e ritorno dalla terra, la nascita di una galattica illusione e il suo estinguersi in una delusione cosmica. La ritirata spaziale, un richiamo perentorio all’ordine della finitezza umana, è una forma della fine del moderno.

Sul versante dell’immaginario, l’imminenza delle esplorazioni spaziali era l’elemento che innescava la bomba fantascientica, il quid che ci consentiva di perdonarle errori, schematismi, infantilismi, approssimazioni, scrittura dozzinale. Era quest’imminenza che la differenziava da una fantasticheria gratuita: erano sì sogni, sì utopie, ma non assurde. Non realì, ma possibili sì. Era da quest’interstizio tra il reale e il possibile che scaturiva il suo fascino. Era in questa plausibilità teorica che attingevano i loro tesori alcuni tra i più bei libri della sf, La nuvola nera di Fred Hoyle o Solaris di Stanislav Lem, o perfino opere più fantastiche come La mano sinistra delle tenebre di Ursula Le Guin. Lo spazio era la boa che ancorava la sf e le consentiva, per usare l’espressione di Evangelisti, di essere un sognare secondo ragione, e non mero fantasticare.

Prigione dell’ora e del qui, divieto dell’altrove e dell’altroquando. L’atmosfera si è fatta più afosa, più oppressiva, come in una cella senza domani. Una cella che ci mette i paraocchi al nostro cervello aiutata – come si vede in questi giorni – in questo da quel complesso omnicontrollante che Farmer chiama Stiesa (STato + chIESA). Tanto che si potrebbe applicare a tutti noi la domanda, citata in Di futuri ce n’è tanti, che si poneva il pentito «padre dell’atomica» Leo Szilard: «Sono gli americani liberi di dire tutto quel che pensano, visto che non pensano quel che non sono liberi di dire?»

(uscito a inizio 2007:  avessi più memoria vi direi la data – db)

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