Le sfide della teoria dei beni comuni

di Lorenzo Guadagnucci (*)

Ugo Mattei torna a impegnarsi sulla teoria dei beni comuni e lo fa con slancio in “Il benicomunismo e i suoi nemici” (Einaudi 2015), sfidando anche i canoni correnti del linguaggio: non esita a utilizzare – fin nel titolo del suo piccolo libro – un termine nuovo, “benicomunismo”. Una sfida, perché tutto ciò che finisce per “ismo” è normalmente rifiutato come ideologico, epiteto che peraltro, di questi tempi, colpisce e stronca sul nascere qualsiasi pensiero eterodosso, qualsiasi proposta alternativa al tran tran politico-culturale. Quindi, si sarà detto Mattei, tanto vale lanciarsi con il neologismo e lanciare il nuovo vocabolo.

Lo sforzo di Mattei è prezioso per vari aspetti. Intanto ha il merito di uscire dalle gabbie ideologiche (questa volta in senso buono) del Novecento senza finire nelle spire del conformismo. E poi il suo testo, quindi la sua visione, contiene molte aperture, ossia molte finestre su prassi e ideali che stentano a trovare legittimità politica.

Penso, in particolare, alla questione animale, grande dimenticata dalla politica – anche quella alternativa e “rivoluzionaria” – dell’ultimo secolo (escluso il filone della nonviolenza, minoritario e snobbato dalle varie sinistre). Per Mattei “la rigenerazione dei beni comuni come processo ecologico non può che avvenire salvaguardando la pluralità del vivente, sicché il benicomunismo, come visione del mondo radicalmente antitetica al liberalismo capitalista dominante, non può che essere antispecista“. Parole davvero nuove.

Mattei insiste molto sul benicomunismo come prassi di trasformazione politica, in grado di unire un versante ideale, di elaborazione teorica, con una forte capacità di intervento sul presente. È un fronte, quest’ultimo, che ha un prevalente risvolto istituzionale, con gli interventi di “ripubblicizzazione” dei servizi pubblici locali venduti negli anni della sbornia privatizzatrice, o l’elaborazione di statuti per la gestione benicomunista di spazi pubblici occupati (in testa il Teatro Valle a Roma).

L’ottimismo di Mattei è notevole, come forte è la sua critica al capitalismo finanziario globale e al costituzionalismo liberale. La prospettiva benicomunista recupera alcune trascurate esperienze passate, come l’olivettismo e l’economia gandhiana (reticolare e di piccola scala), e fa propria la questione chiave del nostro tempo, ossia la crisi ecologica del pianeta, oggetto da ultimo dell’enciclica papale.

Ne discendono conseguenze ideologiche e politiche che Mattei sposa senza esitazioni: l’abbandono della “nozione di progresso storico lineare”; il rifiuto della crescita economica come obiettivo politico e sociale; la critica dello “sviluppismo”; l’enfasi sulla prospettiva della “conversione ecologica“.

Ce n’è abbastanza per considerare il “benicomunismo” una proposta politica di rottura, che un poco innova (soprattutto l’equidistanza fra privato da un lato e pubblico-statale dall’altro) e molto riprende da altre tradizioni (l’ecologia sociale, l’economia nonviolenta, la decrescita).

La miscela è potente e la prospettiva, nei suoi sommi capi, convincente, ma la proposta benicomunista – ecco il limite principale – ha mostrato difficoltà a persuadere la sua base sociale, che sembra distratta rispetto all’urgenza di definire un proprio campo d’azione e di pensiero, o ancora legata ad alcune concezioni cardine della sinistra novecentesca (la coincidenza esclusiva fra pubblico e statale; una certa idea di progresso; l’ideologia della crescita).

Lo stesso successo – citatissimo – nel referendum sull’acqua e i servizi pubblici non è stato l’inizio di una nuova fase politica, come molti speravano. Il movimento si è disperso, l’esito elettorale è stato disatteso. Certo, era una buona strada; ora si tratta di rimettersi in cammino.

(*) tratto da http://comune-info.net/ del 5 luglio 2015

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