Le storie perdute di Mauro Valeri

La prima vicenda inizia sulla banchina del porto di Anversa «in una fredda giornata dei primi di dicembre del 1898» e si conclude a Milano passando per la Francia e per molti ring (nel senso della boxe).

La seconda storia decolla quando negli Stati Uniti – ma in quel momento assai divisi – infuria da tre anni «una guerra civile che ha tra i suoi motivi anche l’abolizione della schiavitù»   per concludersi tragicamente il 13 febbraio 1944 quando un eroico partigiano cade in via Pandolfini a Firenze.

La prima storia si intitola «Nero di Roma»  (Palombi editori: 430 pagine con molte belle foto per 20 euri) con il  sottotitolo a spiegare «Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico» e l’haritrovata e riscritta Mauro Valeri che fra l’altro è sociologo, psicoterapeuta e ha diretto vari osservatori su razzismo e xenofobia. Aggiungo che Valeri è simpatico (non guasta) e capace di parlare in pubblico, cosa nientaffatto scontata anche fra quelli/e  che… scrivono bene.

La seconda storia si intitola con tre parole che in certi ambienti sono una barzelletta o il massimo dell’insulto: «Negro ebreo comunista» (Odradek, 300 pagine per 20 euri) con il sottotitolo a informarci: «Alessandro Sinigaglia, venti anni in lotta contro il fascismo»  .

E’ prolifico Valeri: il primo libro è uscito nel 2008, il secondo nel 2010. Parlerò soprattutto del secondo perchè anche se la storia di Jacovacci è importante (e benissimo raccontata, certe pagine sembrano già la sceneggiatura di un film) sono rimasto colpitissimo dalla vicenda di Sinigaglia, dalla mia ignoranza e dalla nostra (nel senso di collettiva) smemoratezza. A volte si dice che “si spara nel mucchio” o che cade una vittima innocente: nel caso di Alessandro Sinigaglia – alias Verga, Gallone, Epoca, Garroni…. – i fascisti assassini (della famigerata Banda Carità) hanno proprio colpito la persona giusta. Era un operaio antifascista già “ardito del popolo”, volontario in Spagna, rivoluzionario di professione e coraggioso gappista. Non sono riusciti a torturarlo – come nello stile della banda guidata da Mario Carità o dell’analogo gruppo di Pietro Koch – ma da morto gli hanno strappato due denti d’oro.

Se a questo combattente eroico fu data solamente una medaglia d’argento, se la memoria di Alessandro Sinigaglia si è poi persa, non è solo colpa del fascismo e dei suoi complici ma anche di chi, a sinistra, volle nascondere la vicenda di un dissenziente, di un libero pensatore che sapeva anche disobbedire ai capi del “grande partito”.

Come mai questa storia parte dal così lontano 1864? Perchè Alessandro è il figlio di una domestica nera (negra si diceva allora, afroamericana sarebbe il parlar corretto) che in Italia sposò un meccanico ebreo. E il primo capitolo ci racconta quest’altra storia nella storia: ne è protagonista Cynthia, sua madre (con il paradossale cognome di White), figlia di schiavi, che assiste alle ambiguità di una liberazione. Se infatti nel 1865 inizia «il processo di ratifica del XIII emendamento della Costituzione americana» cioè quello per abolire la schiavitù, appena pochi anni dopo vengono varati i cosiddetti «black codes, cioè le norme che limitano i diritti dei negri» , le cosiddette leggi Jim Crow per i corvi che sono animali e dunque…. neri.

Dal secondo capitolo in poi lasciamo gli Usa per Firenze o meglio San Domenico in Fiesole dove Cynthia ha seguito i suoi padroni (convinti abolizionisti) ma è solo una tappa per Alessandro – che qui nasce nel gennaio 1902 – visto che vagabonderà fra Urss (per lui «la terra promessa»), guerra civile spagnola dove difenderà la repubblica e combatterà i fascisti (“oggi in Spagna, domani in Italia” era lo slogan dei volontari italiani), poi la Francia dei campi di concentramento, il confino di Ventotene per morire nella lotta di Liberazione contro i nazifascisti.

Non aggiungo altro perchè gli intrecci sono molti e vale scoprirli con la lettura. Se questo libro cattura dalle prime righe metà del merito è di una vicenda appassionante ed esemplare ma certo l’altra metà è delle minuziose ricerche di Valeri e del suo piglio narrativo. Da anni si ascolta il mantra che in Italia non c’è pubblico per i saggi o per i libri seri di storia: le ragioni sono molte (in testa il nuovo analfabetismo sociale) ma certo dipende anche da chi scrive. Fra tanti pedanti – che annoierebbero pure se avessero i retroscena del Big Bang – purtroppo di Valeri ce ne son pochi. Per restare allora al catalogo della Odradek, è bene segnalare un altro che sa raccontare, cioè Cesare Bermani. Quasi prometto a lettori e lettrici di codesto blog che alla prima occasione parlerò del suo recente «Filopanti» il cui sottotitolo – «anarchico, ferroviere, comunista, partigiano»   – fa quasi eco a questo «Negro ebreo comunista».

UNA BREVE NOTA

Su codesto blog trovate una mia recensione a un altro libro di Mauro Valeri, ovvero «Black Italians», in data 5 aprile 2010. Libro prezioso da far girare, da usare per un pacato ragionare meticcio e antirazzista che facilmente trova appigli nelle grandi contraddizioni dello sport. Lo consiglio soprattutto agli/alle insegnanti (sopravvissuti/e alla Gelmini) che nelle scuole (quelle rimaste in piedi nonostante il duo Tremonti-Gelmini) provano a ragionare con ragazze/i dotati di curiosità (sopravvissuta, la curiosità, alla Rai-Fininvest, a Berlusconi, Bersani ecc insomma al “defoliante” gettato ogni giorno contro lo spuntare di qualche idea o di un metodo).

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