Le stragi e lo sfruttamento della democrazia

Saverio Pipitone su «Il rosso e il nero» del collettivo The 88 fools

A Rebibbia, nella periferia romana, alcuni giovani hanno formato il collettivo The 88 fools, richiamandosi alla gang malavitosa Crazy 88 dell’opera cinematografica Kill Bill di Quentin Tarantino; ma invece di pazzi assassini sono accorti diffusori e archivisti di cultura contro l’oblio – e le censure di Stato – del sapere storico.

Così nelle Edizioni Clichy – oltre alle guide tascabili per maniaci di film, rock, anni ’70, serie tv, calcio e cibo (in preparazione) – trovate Il rosso e il nero. Repertorio ragionato del terrorismo italiano, di 440 pagine, che raccoglie e ripercorre un ventennio di eventi sanguinosi.

In modo sintetico, dettagliato e oggettivo, viene “periodata” una cronologica composizione con date, luoghi, numeri, protagonisti e circostanze di storia nazionale e mondiale – fra attentati, colpi di Stato, eversioni, rappresaglie e repressioni – tracciando un contesto di azioni spaventose e sanguinarie, sotto una regia di trame e depistaggi, nell’intricato connubio di autorità pubbliche, servizi segreti e criminalità organizzata, che ha nascosto i mandanti e affossato la democrazia, allo scopo (come sempre) di comandare e guadagnare. Bibliografia, musicografia e filmografia completano il libro.

Nella sezione dei fatti il primo citato è il 12 dicembre 1969: l’esplosione di 7 chili di tritolo devastò la sede della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, 17 morti e 88 feriti. Subito accusati gli anarchici ma in un secondo momento furono incriminati gli estremisti neri di destra, coinvolti anche come esecutori di altre stragi come quella – il 28 maggio 1974 – di Piazza della Loggia a Brescia con l’attacco dinamitardo a un raduno sindacale, 8 morti e 102 feriti; o la bomba scoppiata sul treno Italicus nella galleria di San Benedetto Val di Sambro il 4 agosto dello stesso anno, con 12 morti e 44 feriti gravi.

Stragi a casaccio, in mezzo alla folla. Ma anche delitti mirati. Vennero massacrati a morte Pier Paolo Pasolini a Ostia il 2 novembre 1975 e Peppino Impastato a Cinisi il 9 maggio 1978 (ma quest’ultimo non è citato nel libro). Loro – liberi e coraggiosi – «sapevano» e facevano i nomi.

Infatti sul «Corriere della Sera» Pasolini scriveva: «Indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi…». E in un precedente articolo: «Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti… Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni… Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile».

Nella trasmissione «Onda Pazza» a Radio Aut, Peppino Impastato aveva fatto capire dove bisognava cercare «Importanti sono i traffici, e i traffici sono tanti e tali che non si possono coprire. Non si può coprire con una foglia una nave che trasporta chissà cosa, che fuma e non si può coprire con una foglia. E si può coprire un porto con una foglia, eh sì, non si può, non si può, non si può… Eh sì, facciamo finta che tutto va bene».

Nel libro ovviamente c’è il 9 maggio 1978 quando a Roma il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro – ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia – fu trovato ad equidistante vicinanza tra Piazza del Gesù sede del suo partito e via delle Botteghe Oscure quartier generale del Partito comunista italiano: opposte forze politiche accordatesi nel sostegno alla VII legislatura governativa e ostinatamente contrarie (forse non compattamente) a compromessi con i brigatisti.

E ancora: il 2 agosto 1980 la stazione ferroviaria di Bologna centrale saltò in aria, con 85 morti e 200 feriti. Il 23 dicembre 1984, ancora una volta nella galleria di San Benedetto Val di Sambro, scoppiò una carrozza del Rapido 904, 16 morti e 267 feriti.

Con quest’ultima strage ferroviaria termina la cronografia del libro: la bomba venne attribuita alla mafia siciliana che successivamente, nel 1992, usando 600 chili di tritolo, eseguì l’assassinio dei magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo (a maggio) e di Paolo Borsellino (a luglio) inclusi gli 8 agenti delle loro scorte. Negli stessi anni crollava l’URSS e vincevano gli USA, finiva la guerra fredda e anche lo “stragismo italiano”. È una storia davvero conclusa?

«È finita nei fatti – spiega The 88 fools – nelle bombe, nei morti ammazzati per strada. Ma non nelle dinamiche della nostra democrazia, che è stata devastata e distrutta per sempre, con strumenti più subdoli ed efficaci di quelli: inserendo nel corpo dello Stato facce e schemi buoni per i talk show e per le percentuali di voto, ma che ben poco hanno a che fare con il bisogno di crescita e di modernità».

Nel libro una sezione è per gli antefatti. Si parte dalla lettera dell’8 gennaio 1965, nella quale lo Stato maggiore dell’esercito condivideva la proposta del Sifar (Servizio informazioni forze armate) di addestrare giovani ufficiali alla “guerra non ortodossa” che – dal dopoguerra per volere statunitense con sabotaggi, guerriglie e manovre psicologiche – era stata condotta dalla struttura segreta militare civile Gladio per contrastare l’avanzata dei «comunisti».

Ma l’origine di tutto è probabilmente in un episodio più indietro nel tempo (e quindi non presente nel repertorio): l’eccidio nella vallata palermitana di Portella della Ginestra l’1 maggio 1947. Quel giorno 2-3mila persone, onesti e indifesi lavoratori con le loro famiglie, si riunirono al mattino per celebrare la propria festa, parlare di occupazione delle terre incolte in una “scampagnata” con pane e salsiccia o fave lesse. All’improvviso e in pochi minuti, dalle montagne circostanti, giunse su di loro un migliaio di colpi sparati con armi pesanti da una decina di banditi in teoria agli ordini di Salvatore Giuliano ma in pratica armati e sostenuti da mafiosi, latifondisti, politici dalle finalità antisocialiste e in modo indiretto da servizi segreti statunitensi e inglesi. La massa fuggì terrorizzata; vi furono 11 morti e 57 feriti, sia adulti che bambini. In Sicilia, il mese prima, alle elezioni regionali, aveva trionfato il Blocco del Popolo (PCI, PSI, Partito d’Azione e indipendenti) con la maggioranza relativa del 30,4%, mentre la DC prese il 20,5%. Ma l’anno dopo – nella paura stragista – alle elezioni nazionali i democristiani vinsero nell’isola con il 48,5%. Il terrore purtroppo pagò.

Una diagnosi dal vivo del fenomeno siciliano dei legami mafia-politica nel ventennio post-guerra è stata realizzata dal sociologo e attivista Danilo Dolci «Chi gioca solo» del 1966, un libro che bisognerebbe recuperare alla memoria storica. Durante centinaia di incontri o riunioni in ambienti e tempi diversi, ascoltò contadini, pescatori, operai, sindacalisti, studenti e notabili, selezionando con attente verifiche i pettegolezzi o voci incontrollate dai fatti certi e visibili. Raccolse testimonianze firmate, dirette e oculari, che riferivano di pezzi da novanta presenti nei comizi con strette di mano, baci, abbracci e amichevoli conversazioni, o dei loro galoppini che per carpire voti diffondevano per strada e di casa in casa facsimile, pasta, farina, buoni benzina, scarpe per bambini, qualche mille lire, promesse di posto fisso e talvolta intimidazioni: dicevano «vota questo, per te è lo stesso».

Fece i nomi dei collusi, in particolare di alcuni scaltri e spregiudicati democristiani, ma subì una querela e condanna per diffamazione. Il repertorio non menziona tali vicende, tuttavia negli antefatti ricorda Danilo Dolci come organizzatore, insieme al Centro studi di Partitico, della marcia «Per la Sicilia occidentale e per un nuovo mondo» del 5-11 marzo 1967, che partì da Trapani e raggiunse Palermo, con un lungo e pacifico corteo di tantissime persone che chiedevano lavoro e giustizia.

Con la controinformazione e la mobilitazione, Danilo Dolci voleva tramutare una situazione che il sentore comune descriveva pressappoco così: «si sa, sono tanti e tali gli scandali o i potenziali scandali oggi in Italia che se si cercasse di guarirli tutti subito, allo Stato, a questo Stato, non potrebbe venirne che un infarto… che Giustizia è quella che si ferma di fronte alla potenza e alla ufficialità di certe persone e di certi gruppi? È ovvio che non può alcuno Stato, non può alcuno al mondo ottenere fiducia e partecipazione dai cittadini finché, neghittosamente di parte, si arrocca a coprire il falso e la prepotenza parassitaria… finché la maggioranza delle persone si comporta come se questi problemi non la riguardassero affatto; finché cioè, ad ogni livello di responsabilità, non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo organizzato all’ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia: il corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto».

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