Le vite spezzate dei miei amici ebrei

Foto: MARCO TULLI/AG.SINTESI

di Nino Lisi

Napoli, anni Trenta. Una storia di amicizia e affetto tra due famiglie. Poi la guerra e lo sterminio. Ma la memoria non muore

Napoli, Piazza della Borsa (o, anche, piazza Bovio) 33, scala A primo piano interno 2. In quell’appartamento c’era la sede della Comunità ebraica di Napoli, nonché l’abitazione del custode del Tempio israelitico napoletano, Amedeo Procaccia, della moglie Iole, del figlio Aldo e delle figlie Ivonne ed Elda, per me Tatita e Dindina.

Un’infanzia prima delle leggi razziali

In quell’appartamento ho vissuto la maggior parte delle mattinate della mia infanzia libere da impegni scolastici, perché la famiglia che vi abitava e la mia che abitava nello stesso palazzo, nella medesima scala al terzo piano, erano legate da un’amicizia profonda che l’obbrobrio delle leggi razziali rafforzò invece che incrinare. Quando Ivonne sposò, di ritorno dalla guerra di Abissinia, Sergio Molco a cui aveva fatto da madrina durante quel conflitto, io le feci da paggetto con il mio vestito della prima comunione.

A volte trascorrevo anche la sera a cena con la famiglia Procaccia. Di quelle cene ricordo con nostalgia delle buonissime fette di pane bruscate sui carboni e spalmate del burro di Sorrento che ogni settimana un contadino recapitava direttamente. Più spesso erano Ivonne ed Elda che di sera salivano a casa dei miei, in particolare quando l’Eiar trasmetteva commedie od opere liriche.

Il bombardamento su Napoli

Così per tutti gli anni Trenta, fino al dicembre del 1942. Il quattro di quel mese, senza nemmeno essere annunziato dallo stridulo suono delle sirene, ci fu a Napoli il primo “bombardamento a tappeto” delle fortezze volanti statunitensi, una delle quali passò a volo radente sul nostro palazzo per sganciare una bomba a poche centinaia di metri colpendo il palazzo delle poste. Il giorno dopo, di pomeriggio, mia nonna, mia zia, mia madre con in braccio la mia sorellina di appena due mesi, mio fratello e io prendemmo insieme a mamma giù (così chiamavo Iole), Tatita e Dindina un autobus diretto alla stazione della Circumvesuviana alla quale si era avviato a piedi babbo giù (Amedeo Procaccia), perché, essendo di sabato, da ebreo praticante aveva evitato di dover maneggiare danaro e usufruire del lavoro altrui.

Tutti insieme salimmo su un convoglio diretto a Sorrento. I Procaccia scesero a San Giorgio a Cremano e noi proseguimmo fino a Torre del Greco.

Lo sterminio

Fu a Torre del Greco che poco dopo mamma giù Ivonne ed Elda, da tempo sposata con Loris Pacifici, vennero a salutarci prima di trasferirsi a Lucca per allontanarsi dai bombardamenti e dove, suppongo, speravano di nascondere meglio la propria appartenenza alla religione ebraica. Ma non fu così. Ben presto furono tutti arrestati dai tedeschi, a eccezione di Ivonne e di suo figlio Renato che si trovavano in una stanza al piano di sopra della casa e lì i soldati non arrivarono, e di Sergio che era andato alla ricerca di cibo.

Quando Sergio rincasò, appresa la terribile notizia, chiese a un amico non ebreo di portare della biancheria di ricambio ai familiari arrestati. I tedeschi capirono da ciò che qualcuno era scampato all’arresto e fermarono l’amico di Sergio facendo sapere che lo avrebbero rilasciato solo se il congiunto scampato all’arresto si fosse costituito. Sergio fu così costretto, dato un bacio a Ivonne e un altro al piccolo Renato, ad andarsi a costituire. Insieme a tutti gli altri familiari fu portato in un campo di sterminio e passato per le camere a gas.

Una nuova vita in Israele

Lo apprendemmo, piangendo, anni dopo da Ivonne che venne a Napoli per salutare alcune cugine che vi abitavano e noi. Si era stabilita con il figlio a Lucca, dove grazie al suo diploma magistrale aveva avuto una cattedra per l’insegnamento nelle scuole elementari, fin quando maturò le condizioni minime per la pensione. Poi si trasferì insieme a Renato, ormai adulto, in Israele da dove periodicamente ritornava in Italia sia per salutare amici e parenti, sia per incassare la pensione che poi riuscì a farsi accreditare nella sua nuova residenza.

Quando in uno dei viaggi annuali organizzati dalla rivista Confronti andai in Palestina, mi recai in Israele a salutare Ivonne e Renato che nel frattempo si era sposato e così conobbi anche le due figlie femmine e seppi che aveva anche un figlio maschio. Durante il breve soggiorno capii quanto fosse impegnativo vivere in Israele perché un mattino, mentre eravamo a bere qualcosa in un bar, Renato, mettendo sul tavolino degli spiccioli a saldo del conto, invitò me e mia moglie a lasciare sollecitamente ma con calma il bar, ci spiegò dopo che un signore era passato lasciando su di una sedia del tavolino accanto al nostro una borsa e poi allontanandosi.

Vivere in continua tensione

Questo episodio mi venne alla mente durante l’operazione “piombo fuso” con la quale Israele attaccò violentemente la Striscia di Gaza dalla quale i palestinesi risposero con ripetuti lancio di razzi. Preoccupato per le sorti sue e della sua famiglia gli telefonai e mi rispose un Renato diverso da quello che anni prima a cena, a casa mia, mi aveva confidato con voce triste: “Purtroppo la cosa che noi sappiamo far meglio è la guerra”. Infatti, mi rispose con voce triste, mortificata: “Nino stiamo bene, non si tratta dei bombardamenti americani su Napoli. Noi stiamo combattendo anche per voi, perché questi altrimenti fanno mettere il burqa anche alle nostre donne”. Vivere in continua tensione lo aveva trasformato.

Di Ivonne e di tutta la sua famiglia io ho un ricordo struggente. Ricordo che si accompagna a una grande amarezza per non essere stato capace di far comprendere a Renato, che ormai è morto, alla moglie Roseline e alle due figlie che ho ben conosciuto, che si può amare gli ebrei, come io li amo, che si può avere in grande considerazione, come me, per l’ebraismo ed essere contrari al colonialismo di insediamento con il quale il governo israeliano nega ai palestinesi il diritto di essere liberi e di avere uno Stato. È un rammarico profondo causato anche dal fatto di aver perso le tracce delle due figlie di Renato con le quali avevo stretto amicizia e dato e ottenuto simpatia e affetto.

Fra poco non ci sarà più nessun testimone della tragedia della famiglia Procaccia, per cui sono contento di aver appreso che da qualche settimana innanzi al civico 33 di Piazza della Borsa a Napoli sono state poste nove pietre di inciampo a ricordo degli ebrei che sono passati per l’appartamento del primo piano della scala A, e a testimonianza della turpitudine del fascismo, che le giovani generazione sembrano ignorare.

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