Leopardi e Kant hanno discusso di macrobiotica

di Sergio Mambrini

Questa è la storia.

In primo luogo la macrobiotica è d’origine tedesca, non giapponese.

George Oshawa è arrivato secondo, ben centocinquant’anni dopo il dottor Christoph Wilhelm Hufeland, che eseguì studi approfonditi sulla durata della vita e sui metodi per non abbreviarla. Il medico tedesco pubblicò a Jena, nel 1796, un libro sull’argomento intitolato «Makrobiotik, oder die Kunst, das menschliche Leben zu verlaengern» (“La Macrobiotica ovvero l’Arte di prolungare la vita umana”).

Hufeland con il suo impegno scientifico cercò di conoscere la natura umana. Nato in Turingia nell’estate del 1762, a ventun’anni si laureò in medicina e cominciò ad esercitare la professione a Weimar. L’ambiente intellettuale che frequentò lo fece diventare amico di altri giovani, anche loro persone colte. Strinse uno stretto legame con Goethe, con il drammaturgo Schiller, con il filosofo e letterato Wieland e Herder, allievo di Kant. A trentun’anni diventò professore all’università di Jena. A trentott’anni medico personale del re di Prussia. Dieci anni dopo divenne Consigliere di Stato presso il ministero della Sanità. Si deve alla sua iniziativa anche la realizzazione del primo obitorio a Weimar. Rivolse molto impegno per ridurre la diffusione delle malattie infettive, sostenendo la necessità della vaccinazione antivaiolosa propugnata da Jenner. Nell’arco della vita scrisse più di 400 pubblicazioni che comunicavano logica e buon senso. L’eccezionalità e lo spessore dei suoi studi e del suo lavoro gli procurarono, fin da subito, la stima e l’ammirazione dei propri colleghi e un prestigio unico e raro di fronte all’opinione pubblica del suo tempo.

Egli operò con autentico spirito ippocratico nel corso di tutta sua attività scientifica, medica e divulgativa. Le traduzioni delle sue opere in quasi tutte le lingue del mondo e le numerose ristampe testimoniano ancor oggi l’enorme interesse che raggiunsero a livello globale, e ben oltre la sua morte: infatti anche Oshawa vi attinse a piene mani nella formazione del proprio pensiero.

– Ricordo ancora l’emozione precisa quando trentadue anni fa incontrai questo libro. Rimasi sbalordito nel verificare la coincidenza con tutto quanto già conoscevo. Fu strano! Non fui io a trovare il libro di Hufeland, ma fu lui a trovare me. –

Giorgio sapeva come incuriosirmi e istintivamente mossi le labbra in un sorriso.

– Non ridere. Non sono diventato infermo di mente. Ti racconto come è andata. Una domenica di tanti anni fa entrò un tizio con un borsone pieno di libri nel circolo che avevo messo in piedi. Mi disse che veniva dalla Mostra del Libro Antico che si era appena conclusa nel convento di san Francesco. Prima ancora che gli chiedessi come mai fosse venuto da me, sfoderò un piccolo volume rilegato con un’antica brossura e un dorso in pelle scarlatta sul quale era impresso il titolo in lettere dorate. Me lo propose. Restai silenzioso per pochi ma interminabili secondi. Alzai lo sguardo e incontrai il volto sorridente di quell’uomo. Quella sera mangiammo insieme discutendo di quel testo antico pubblicato nel 1841 dall’editore belga Parent. Lo comperai e più tardi feci ricerche nell’antica biblioteca Teresiana dove trovai lo stesso lavoro, composto in due volumi, pubblicato ben quarantatrè anni prima, nel 1798, a Pavia «appresso gli eredi di Pietro Galeazzi». Così stava scritto su quel frontespizio. A chiudere il cerchio lessi il nome dell’antico traduttore in italiano, il dottor Luigi Careno dell’Accademia di Mantova. Come vedi tutto ritorna.-

Non mi accontentai degli aneddoti di Giorgio, così scavai fra le carte e da lì sbucarono Kant e Leopardi.

Il primo, già anziano, intrattenne con il giovane Hufelandun breve scambio epistolare, ricevendone fra l’altro in omaggio il libro con una gentile lettera accompagnatoria. E’ possibile che, proprio grazie a questo dono, il filosofo avesse poi maturato l’idea di scrivere, a sua volta, un saggio nel quale dialogava a distanza con il professore di Jena. Nel suo trattato parlava delle «osservazioni» compiute su di sé «in merito alla dieta» e alla capacità della moralità di «vivificare» il fisico, ossia «Del potere dell’animo di dominare col solo proposito le proprie sensazioni morbose». Eppure Kant da un approccio positivo nei riguardi dell’argomento esposto da Hufeland approdò a un pessimismo mal celato.

Anni dopo, Leopardi parlò senza sottintesi di Hufeland e del suo libro in due occasioni: in un pensiero del 25 novembre 1820 dello «Zibaldone» e in una nota alle prime battute del «Dialogo di un Fisico e di un Metafisico» contenuto nelle «Operette Morali», esprimendo considerazioni di grande interesse dal punto di vista filosofico. Ciò nonostante Leopardi, da un atteggiamento nella sostanza dubbioso per quelle tesi, arrivò a dare per scontato, seppur con estrema cautela, di attribuire alla vita una qualche speranza e fiducia.

Il poeta italiano era nato poco anni prima della morte di Kant e, seppure di periodi diversi, entrambi convergettero sulla conclusione dell’insensatezza di un artificioso prolungamento della vita quando questa non fosse per davvero vigorosa e intensa.

Confidai a Giorgio queste scoperte un’estate che c’incontrammo a Burzet in via dei Matti numero zero (così definiva quell’indirizzo, devo dire con un certo orgoglio). Conversammo seduti su un vecchio tronco abbattuto in un ombroso bosco di castagni.

– Ancora oggi ci sentiamo proporre gli stessi argomenti anche se con altre parole e con ben altro spessore: «tanto bisogna morire, quindi vale la pena concedersi i piaceri della vita», «tanto ci si ammala in ogni modo», per finire con il massimo dei luoghi comuni del famoso ventennio nero «meglio un giorno da leoni che cento da pecora». Come non riconoscere invece il senno di Leopardi nell’argomentare quanto a lui stesse a cuore non tantol’arte di vivere lungamente ma soprattutto quella di vivere felicemente.In breve il poeta mise rimedio allafugacità della vitaconl’intensità esistenziale quotidiana. Tutte queste speculazioni filosofiche scaturivano da una sua amara valutazione della realtà, perché sapeva di essere del tutto alienato dalla natura, e quindi infelicissimo. Desiderava ben spesso la morte, con convinzione, come unico evidente e calcolato rimedio della sua infelicità. La desiderava di frequente, e con piena ragione, considerandola un bene supremo.

Hufeland aveva già ben compreso questo dilemma quando scrisse nel suo libro che le persone a contatto con la natura restavano accanto alla vera sorgente della giovinezza, della salute e della felicità .

Oggi esiste la convinzione che sia proprio la ricerca intenzionale della felicità l’errore, nel fare questa benedetta ricerca.

Forse Giorgio era già diventato un sostenitore del “non fare”, cioè dell’avvicinamento simbiotico con la natura, dell’abbandono della volontà analitica accettando per intero il disegno naturale, rinunciando a comprendere il significato profondo dell’esistenza, visto che, in ogni caso, sfuggiva sempre a ogni comprensione.

Duecento anni dopo, Hufeland l’aveva conquistato anche con l’idea di non commettere il peccato di diventare vecchio. Giorgio faceva in modo che la giovinezza restasse in lui fino al termine del lungo cammino della sua esistenza individuale, ritardando al massimo la comparsa della vecchiaia, utilizzando con successo tutte le proprie personali possibilità biologiche.

In fin dei conti la formazione del medico tedescoandava cercata proprio nel “secolo dei lumi”. Anzi, tutto il pensiero umano occidentale, dalla fine del XVIII secolo, non poteva fare a meno di misurarsi continuamente con l’eredità dell’illuminismo. Fu questo secolo che sovvertì sia l’assetto scientifico, tecnologico e produttivo, sia quello politico-sociale (Liberté –Egalité-Fratenité).

Da quanto anch’io ho capito, Hufeland si era imposto due obiettivi. Il primo fu quello di formare una classe medica moderna che possedesse in sé gli strumenti del rinnovamento scientifico. Il secondo in realtà fu più ambizioso. Nella prefazione a«La Macrobiotica ovvero l’Arte di prolungare la vita umana» scrisse a chiare lettere che voleva essere utile a tutte le classi sociali.

C’era molta saggezza, sapienza e lungimiranza in questo proponimento appassionato e di alto valore morale.

Era un bisogno etico che aveva radici nel suo tempo; pur tuttavia oggi ci fa sentire molto vicini a lui.

 

Redazione
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Un commento

  • Mi scrive MAMBRINIi:
    sto ricevendo segnalazioni dalle persone che leggono le storie sul tuo blog riguardanti l’errore nell’ultima storia su Hufeland, Kant e Leopardi…. la coniugazione del verbo “CONVERGERE” dice “conversero “, invece è
    diventato “convegettero”.
    Ce la fai a ripristinare la versione giusta?

    invece di correggere lascio questo piccolo abominio E URLO: “colpa mia, colpa mia”.
    Si sappia che il colpevole sono io.
    Mi scuso…
    … ma adesso Severo De Pignolis mi toglierà il saluto? (db)

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