L’erba della UE è sempre meno verde

di Mario Sommella (*) .

Addio, transizione ecologica: a Bruxelles il PPE sceglie i padroni contro il pianeta

La scena è questa: a Bruxelles il Parlamento europeo vota il pacchetto Omnibus I, presentato dalla Commissione come “semplificazione” delle norme su reporting di sostenibilità e due diligence delle imprese. In realtà si tratta di un vero e proprio svuotamento del corpo centrale del Green Deal: la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD). A guidare l’operazione è il Partito popolare europeo, che abbandona la “maggioranza Ursula” e costruisce un nuovo blocco con l’estrema destra: ECR, Patrioti (con Lega, Le Pen e Orbán) e il gruppo delle “nazioni sovrane”, legato all’AfD tedesca.

Il risultato è noto: 382 voti a favore, 249 contrari, 13 astenuti. Numeri che descrivono non una “semplificazione tecnica”, ma uno spostamento politico netto a destra su uno dei terreni chiave del conflitto contemporaneo: chi paga il costo della crisi climatica e delle violazioni dei diritti lungo le catene globali del valore.

Un Green Deal svuotato dall’interno

La narrazione ufficiale parla di “riduzione degli oneri amministrativi”, “fine della burocrazia europea”, “ritorno del buonsenso”, come ha esultato il leader del PPE Manfred Weber. Ma, letta nel merito, la decisione del Parlamento è una severa resa alle pressioni delle grandi lobby industriali ed energetiche, che da mesi incalzano per annacquare le norme su trasparenza, responsabilità nelle filiere e piani di transizione climatica.

Cosa cambia concretamente?

La soglia di applicazione degli obblighi di reporting e due diligence viene alzata a livelli tali da escludere la stragrande maggioranza delle imprese. Per il reporting di sostenibilità, saranno obbligate solo le aziende con più di 1.750 dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato; per la due diligence, solo colossi con oltre 5.000 dipendenti e 1,5 miliardi di fatturato.

Sparisce l’obbligo per le imprese di predisporre un piano di transizione compatibile con l’Accordo di Parigi: cancellata, di fatto, la pretesa che il modello di business sia coerente con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale.

Viene meno l’obbligo di chiedere informazioni sulla sostenibilità lungo l’intera filiera: le catene di subappalti e fornitori – spesso quelle dove si annidano lavoro minorile, sfruttamento e deforestazione – tornano nell’ombra, ridotte a un livello di “informazione minima” e, in molti casi, puramente volontaria.

Le responsabilità giuridiche vengono riportate a livello nazionale, indebolendo l’idea stessa di un quadro vincolante europeo, proprio mentre Nazioni Unite, esperti indipendenti e oltre 150 organizzazioni della società civile chiedevano di non riaprire al ribasso la legislazione conquistata con fatica negli ultimi anni.

Il messaggio è chiaro: l’Europa che si presentava come avanguardia della transizione ecologica decide di blindare lo spazio di manovra delle grandi multinazionali, scaricando ancora una volta costi sociali e ambientali su lavoratori, comunità e paesi del Sud globale.

Il ruolo del PPE: partito di sistema o partito di blocco sociale?

Il dato politico più grave è la scelta del PPE di costruire in modo esplicito una maggioranza alternativa stabile a destra. Come hanno sottolineato varie analisi a caldo, la stessa giornata di voto racconta un doppio movimento: da un lato, il PPE approva con la piattaforma “pro-europea” (socialisti, liberali, verdi) il target di riduzione delle emissioni del 90% al 2040; dall’altro, usa la stessa forza numerica per smontare gli strumenti che dovrebbero rendere credibile e socialmente giusta quella transizione.

È una schizofrenia solo apparente. In realtà, la linea è coerente con la strategia di Weber: dietro il racconto di un centro “responsabile” che tiene insieme ambiente e competitività, il PPE decide che i costi del cambiamento non devono toccare troppo profondamente il potere delle grandi imprese. I target climatici a lungo termine restano, purché siano sterilizzati gli strumenti che potrebbero trasformarli in vincoli concreti su governance aziendale, investimenti, scelta dei fornitori, rapporti con i territori.

La costruzione di una maggioranza con l’estrema destra, a partire da italiani e francesi, non è un incidente tattico ma un salto di qualità: legittima come “alleato di governo” un blocco politico che nega sistematicamente la crisi climatica o la riduce a una guerra ideologica contro i “burocrati di Bruxelles” e gli “ambientalisti radical chic”. E manda un messaggio ai governi: la bussola non è più il compromesso europeista tra famiglie tradizionali, ma l’asse tra conservatorismo di mercato e nazionalismo reazionario.

Socialisti prigionieri, opposizioni isolate

In questo quadro, la posizione dei socialisti europei rivela tutta la crisi del campo progressista. Il gruppo S&D ha votato compatto contro il testo finale, con parole durissime sul rischio di trasformare la due diligence in una foglia di fico, capace solo di coprire l’agenda delle destre e degli interessi più forti. Ma questa presa di posizione si ferma a metà strada: non arriva a dichiarare finita la maggioranza Ursula, né a porre un ultimatum politico al PPE.

La conseguenza è una schizofrenia speculare a quella dei popolari. I socialisti denunciano – a ragione – di non voler essere ridotti a “foglia di fico” per un programma di estrema destra, ma continuano a tenere in piedi l’architettura che permette a quel programma di affermarsi e normalizzarsi, nel nome della “governabilità” europea.

Le forze di sinistra e i verdi più coerenti finiscono così isolate: sufficienti a segnare il dissenso, insufficienti per ribaltare i rapporti di forza. E mentre l’asse PPE–estrema destra costruisce una propria agenda comune su clima, bilancio pluriennale e agricoltura, la cosiddetta “maggioranza europeista” si rivela sempre più una formula vuota, buona per i comunicati stampa ma incapace di difendere davvero il terreno conquistato sulle politiche climatiche e sociali.

La retorica contro la “burocrazia” come arma di classe

Dietro tutte le parole d’ordine usate per giustificare il voto – “semplificazione”, “fine della burocrazia”, “alleggerimento per le PMI” – si intravede la vecchia logica dell’Europa delle imprese: quando si tratta di imporre vincoli di bilancio agli Stati, tagliare welfare, precarizzare il lavoro, nessuno parla di eccesso di burocrazia; quando invece si prova, sia pure timidamente, a chiedere alle multinazionali trasparenza e responsabilità sulle proprie catene del valore, improvvisamente le norme diventano “insostenibili”, “pesanti”, “nemiche della competitività”.

Gli stessi organismi internazionali che hanno applaudito alla CSDDD e al rafforzamento del quadro europeo sui diritti umani e ambientali, dalle Nazioni Unite alle reti di giuristi e ONG, avevano messo nero su bianco il rischio di un arretramento grave se il pacchetto Omnibus fosse stato utilizzato come cavallo di Troia per riaprire norme già concordate. È esattamente ciò che è accaduto.

Il voto di Bruxelles manda dunque un messaggio pericoloso anche fuori dall’Europa: la stessa Unione che chiede agli altri di rispettare lo Stato di diritto, i diritti umani, gli impegni climatici, si dimostra pronta a rinegoziare al ribasso i propri standard quando sono in gioco i margini di profitto di alcune filiere strategiche, dall’energia alle materie prime.

Le vittime invisibili: lavoratori, comunità, Sud globale

Il vero “alleggerimento”, in questa storia, non riguarda la carta che si risparmia negli uffici delle grandi aziende. Riguarda il carico che continua a schiacciare milioni di lavoratori e lavoratrici lungo le filiere globali: chi estrae materie prime in miniere insicure, chi lavora nei campi in condizioni semi-schiavistiche, chi cuce vestiti o assembla componenti elettronici per salari da fame.

Indebolire gli obblighi di due diligence significa rendere più difficile documentare e perseguire lo sfruttamento, la violenza, la distruzione ambientale. Significa togliere strumenti a comunità e sindacati che cercano di far valere i propri diritti di fronte a colossi transnazionali. Significa, in definitiva, trasferire ricchezza dal basso verso l’alto: meno vincoli per chi inquina e sfrutta, più costi sociali e sanitari per chi subisce le conseguenze della crisi climatica, dalla siccità alle alluvioni.

Non è un caso che molte imprese responsabili, università e centri di ricerca abbiano firmato appelli per difendere un quadro robusto di regole: la deregolamentazione non premia “il mercato” in astratto, ma un tipo preciso di impresa, quella che basa il proprio vantaggio competitivo sulla compressione dei diritti e sull’esternalizzazione dei danni.

Ricostruire un fronte sociale ed ecologista europeo

Il voto del Parlamento europeo sull’Omnibus I non è solo un passaggio tecnico in un dossier complesso. È un campanello d’allarme politico. Dice che il cuore del progetto europeista – l’idea di un mercato interno regolato da diritti, standard sociali e ambientali comuni – è sotto attacco da una nuova alleanza tra conservatorismo di mercato e nazionalismo reazionario, con il PPE nel ruolo di perno.

Rispondere a questa svolta significa abbandonare ogni illusione di “normalità” istituzionale. Servono tre movimenti, almeno.

Primo: rompere la retorica tossica che contrappone ambiente e lavoro. Le direttive su reporting e due diligence non sono un capriccio di tecnocrati, ma strumenti minimi per impedire che la transizione ecologica si traduca in una semplice ristrutturazione dei profitti a favore di pochi.

Secondo: costruire un’alleanza larga tra movimenti climatici, sindacati, associazioni dei consumatori, reti contadine e realtà del Sud globale, capace di fare pressione non solo su Bruxelles, ma anche sui governi nazionali chiamati ora a negoziare la versione finale delle norme.

Terzo: obbligare le forze che si definiscono progressiste a scegliere da che parte stare. Non basta votare contro in aula se poi si continua a garantire, per ragioni di equilibrio interno, la sopravvivenza di un sistema di potere che ha deciso di sacrificare la transizione ecologica sull’altare della competitività delle multinazionali.

Il voto di ieri dice “addio” alla transizione ecologica come progetto strutturale di trasformazione dell’economia. Ma nulla impedisce che da questo arretramento nasca una nuova consapevolezza: o la transizione è giusta, sociale, democratica, vincolante per chi inquina e sfrutta, oppure sarà solo un’ennesima operazione di marketing politico. A beneficio, ancora una volta, dei soliti noti.

FONTI E APPROFONDIMENTI

Parlamento europeo, “Sustainability reporting and due diligence: MEPs back simplification changes” (comunicato stampa, 13 novembre 2025): https://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20251106IPR31296/sustainability-reporting-and-due-diligence-meps-back-simplification-changes

Parlamento europeo, “MEPs to vote on simplified sustainability and due diligence rules in November” (22 ottobre 2025, contesto su Omnibus I): https://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20251016IPR30956/meps-to-vote-on-simplified-sustainability-and-due-diligence-rules-in-november

 Consiglio dell’Unione europea, “Simplification: Council agrees position on sustainability reporting and due diligence requirements to boost EU competitiveness” (23 giugno 2025): https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2025/06/23/simplification-council-agrees-position-on-sustainability-reporting-and-due-diligence-requirements-to-boost-eu-competitiveness/ 

Frank Bold, “EPP sides with the far-right to gut the EU’s sustainability framework in the Omnibus I vote” (analisi critica sul ruolo del PPE e delle destre): https://en.frankbold.org/news/epp-sides-with-the-far-right-to-gut-the-eus-sustainability-framework-in-the-omnibus-i-vote 

Business & Human Rights Resource Centre, “EU Parliament adopts Omnibus I position for trilogue negotiations, limiting scope & removing mandatory climate transition plans”: https://www.business-humanrights.org/en/latest-news/eu-parliament-adopts-omnibus-i-position-for-trilogue-negotiations-limiting-scope-removing-mandatory-climate-transition-plans/ 

ESG Today, “EU Parliament Votes to Slash Corporate Sustainability Reporting, Due Diligence Requirements”: https://www.esgtoday.com/eu-parliament-votes-to-slash-corporate-sustainability-reporting-due-diligence-requirements/ 

Green Central Banking, “EU omnibus: MEPs vote to slash sustainable reporting requirements”: https://greencentralbanking.com/2025/11/13/eu-omnibus-meps-vote-to-slash-sustainable-reporting-requirements/ 

Courthouse News, “Right notches victory as EU votes to gut corporate sustainability rules”: https://www.courthousenews.com/right-notches-victory-as-eu-votes-to-gut-corporate-sustainability-rules/ 

CSO Futures, “European Parliament adopts Omnibus package that further dilutes CSDDD”: https://www.csofutures.com/news/european-parliament-adopts-omnibus-package-that-further-dilutes-csddd/ 

Eunews, “Centre or right, the EPP calls the shots in the European Parliament: yes to 2040 climate target, no to due diligence”: https://www.eunews.it/en/2025/11/13/centre-or-right-the-epp-calls-the-shots-in-the-european-parliament-yes-to-2040-climate-target-no-to-due-diligence/

EcoVadis Blog, “The EU’s Omnibus Saga Enters a New Phase of Uncertainty” (ricostruzione complessiva su soglie, tempistiche e compromessi): https://ecovadis.com/blog/the-eus-omnibus-saga-enters-a-new-phase-of-uncertainty/

(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com

Le illustrazioni – scelte dalla bottega – sono rubate al grande Mauro Biani.

Redazione
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