Esame da cani

di Massimo Ruggeri

 

Sapevo il rischio che avrei corso: si poteva mettere male e oltre alla mia incolumità avrei messo in pericolo anche il buon esito dell’esame. Sapevo tutte queste cose ma lo feci: attraversai l’area proibita. L’essere umano quando è schiavo delle proprie debolezze talvolta, per zittire i sensi di colpa, commette atti sconsiderati, di stupida e inutile audacia, sprecando energie corporee e cerebrali in quantità maggiore del necessario.

Ormai da mesi telegiornali e quotidiani nazionali facevano i loro servizi d’apertura sul mistero delle 18 persone scomparse dentro Villa Borghese a Roma. Testimonianze di sopravvissuti a feroci attacchi di cani facevano temere una rara quanto micidiale epidemia di rabbia. Fonti del Bioparco romano ipotizzavano che il paziente “0” poteva essere un pitbull il quale un giorno, piantato in asso il padrone, era stato visto saltare nella gabbia dei licaoni e ingaggiare una furiosa zuffa con due di loro. Qualche morso subito ma il pit lo restituì più tardi in altre risse fra cani ed in breve il virus si diffuse esponenzialmente, veicolato anche dal sesso.

Fu proclamato lo stato d’emergenza e il Genio militare eresse intorno al “territorio” del branco un recinto elettrificato. Villa Borghese divenne propaggine del Bioparco stesso. I corpi dei 7 uomini e delle 11 donne non erano stati trovati, ma dato lo stato d’isolamento dei cani e la scarsità di cibo era probabile fossero stati tutti divorati. Così erano passati 2 mesi dalla prima scomparsa.

In quel pomeriggio di metà settembre, stanco e sconsolato, mi trovavo appollaiato tra i rami d’una grossa quercia. L’esame ormai era saltato e avrei dovuto aspettare altri tre mesi per poterlo sostenere. Reduce da una nottata di pesanti bagordi, quella stessa mattina avevo a malapena sentito la sveglia di riserva e mi ero buttato in strada senza nemmeno aver preso il caffè. C’era lo sciopero degli autobus e girare a piedi attorno a Villa Borghese avrebbe significato invecchiare per strada. Avevo esitato qualche istante di fronte ai cartelli appesi al recinto che recitavano in giallo e rosso «Area di contagio: Pericolo di morte!!». Ruppi gli indugi quando vidi un’autoscala dell’azienda comunale dell’elettricità, parcheggiata a ridosso della rete metallica, con il braccio telescopico proteso verso l’alto. Tecnici e autista sicuramente erano a colazione. La scalai rapido e con un paio di volteggi fui dentro, pronto a usare la riga «a T» come una clava ma anche a selezionare a vista gli alberi utili come eventuale rifugio.

Con una decina di scatti prolungati e altrettante pause, raggiunsi il laghetto, a ridosso della Porta ottocentesca, chiusa ma non elettrificata (non si poteva, era monumento nazionale) che delimitava in quel punto la villa. Era quasi fatta, poco oltre una scalinata scendeva su Valle Giulia e la facoltà d’Architettura.

Dal baldacchino delle marionette sbucò al trotto un meticcio striato, pelo e zampe lunghe: i denti digrignati deformavano il muso in tante, gommose pieghe. Allungai il passo, il cane aumentò l’andatura, presi a correre e la bestia scattò.

Ci separavano pochi metri quando saltai sul sedile di una panchina e dallo schienale sui rami di una quercia. Strategicamente era una buona posizione, se non fosse stato per i salti frenetici e il ringhio di una ventina di cani materializzatisi sotto di me. Cominciai a urlare aiuto mentre un bulldog si caricava di corta rincorsa e usando le mie stesse sponde rimbalzò dalla panchina all’albero. Gli timbrai il grugno nero con un calcio, lui mulinò le zampe e riuscì ad ancorarsi alla base di due rami; al calcio successivo, riuscì a serrare le mandibole sulla mia caviglia e strinse issandosi a bordo: afferrai la riga che avevo nello zaino e gliela calai di taglio a ripetizione sul cranio. Mollò la presa e ricadde giù: subito il sangue cominciò a sgorgare sui calzoni lacerati, imprecai e urlai di rabbia e paura. Strappai una manica del pullover e la legai stretta attorno alla caviglia.

I cani continuarono ad abbaiare per un po’ ma poi si dispersero. Ora mi sentivo spossato, allentai il nodo, il sangue sembrava essersi fermato, allora tolsi la cintura dai calzoni e come avevo visto fare in un film di serie B, mi ancorai al ramo più grosso così, se fossi svenuto, non avrei rischiato di cadere.

Quando ripresi i sensi era notte. Il bendaggio si era attaccato alla pelle e la caviglia pulsava. Impercettibili movimenti nel buio. Avevo urlato a lungo ma nessuno mi aveva sentito, come nessuno io vedevo in quel momento. Un quarto di luna rischiarava appena una sponda del laghetto e dai massi che la orlavano si sporse un dobermann per bere, con ingorde lappate. Lo invidiai, avevo una sete della madonna: a pochi metri, accanto alla Porta c’era una fontanella e lo scroscio continuo costituiva un supplizio. Aprii il taschino dello zaino e presi i resti di un pacchetto di Ms; accesa la sigaretta sollevai davanti a me il fiammifero e la flebile luce rivelò un cocker che urinava alla base dell’albero: ero nel loro territorio, sotto il loro dominio. A digiuno di acqua e cibo da diverse ore, la sigaretta sortì un effetto narcotico e mi ri-addormentai.

Il freddo e la luce del sole che ancora non era apparso mi fecero svegliare. Vedevo le immagini doppie, mi stropicciai energicamente gli occhi e mi stiracchiai respirando profondamente: sembrava uno di quegli eccentrici happening in cui artisti “contro” impacchettano monumenti o plasmano moltitudini di corpi nudi. Da sinistra, subito dopo l’argine del lago, nei vialetti di ghiaia che confluivano sullo spiazzo delle marionette, fin sopra le aiuole, un cordone composto sistematicamente da un cane e un uomo o donna, copriva a semicerchio i 180 gradi davanti al mio rifugio. Saranno stati una quarantina fra cani e umani che in silenzio mi osservavano a distanza.

levrieroAfgano

Poi un bastardello di pelo corto e dagli occhi vivaci fece qualche passo in avanti e giunto al mio cospetto cominciò ad abbaiare con veemenza. Non la smetteva più. Quando una voce tremula e insolente animò lo statico girotondo i guaiti cessarono. «A fratè! sveijate! Quer cane ce l’ha co’ te, je risurti!». E rivolto al vicino attonito e zazzeruruto sibilò «…e chi te c’ha mannato?…» per poi proseguire in tono pedagogico al mio indirizzo «…mo’ devi esse gentile… scenni piano piano dall’arbero, senza fa’ gesti bruschi perché ‘sti cani son’cazzati neri…fai conoscenza, l’accarezzi, je fai capì che anche lui te risurta, e così sen’annamo…tutti…a casa…io so’ abituato a vive pe’ strada ma questi…ma nu li vedi come stanno?!!…».

Gesticolava come un rapper. Magro e con il viso affilato, sembrava in preda a una logorrea da astinenza e in effetti, fra tutte quelle persone impaurite, stanche e sudice, aveva l’aria di essere il meno traumatizzato.

«…Fratè, ce l’hai ‘na sigheretta?..».

«Quarche ora fa un bulldog per poco nun me stacca un piede…guarda quà…». Sporsi la gamba tra la forcella dei rami.

«Ma chi Bullit?.. fratè, quello è ‘n fijo de’ ‘na mignotta ma nun è cattivo… nessuna de ‘ste bestie è cattiva… so’ solo disperati … ciai fatto caso?.. cianno tutti collare e medajetta… so’stati abbandonati all’inizio dell’estate… e allora che se son’ventati? … se so’ riuniti in banda e ognuno s’è scerto e catturato ‘n padrone novo… a fratè, apri l’occhi: sei stato a!do!tta!too!! Er problema è che ‘ste bestie tra de loro so leali, finché ognuna nun s’è rifatta ‘na posizione rimangono tutti sur piede de guera e noi nun se ne potemo annà… tu sei l’urtimo… nun fa problemi… me so pure rotto de magnà robba rimediata».

«Senti… pe’ corpa di sti cani ho perso n’esame importante all’università e per poco un piede… la vita me la vorrei tenè da conto…».

«A bello, te potevi sveijà prima… hai voluto fa’ la scorciatoia ma lo sapevi che era pericoloso, me sembra che i cartelli parleno chiaro, so belli grossi e pure colorati …». Era perspicace il tossico, oltreché insolente e in un attimo andò ben oltre, intuendo che stavo per replicare: «A fratè, li mortacci tua! Mommairottolicojoniporcoddio… mo se nu scenni subbito vengo su io e te faccio scenne a mozzichi e nu lo so se te conviene… avrai capito che nun so’ proprio sano sano… allora, che volemo fa?!.».

Una ragazza cicciotella con gli occhi cerchiati intervenne: «E’ tutto vero, stai tranquillo!.. tu sei l’ultimo, con te i cani hanno raggiunto il loro scopo… fai capire a Buck che lo accetti… ti prego… non gliela facciamo più, alcuni di noi stanno veramente male… forse hanno la polmonite… i cani la sera ci portano nelle grotte per passare la notte e non ci perdono mai di vista… lì sotto fa un freddo boia… poi…la mattina… ci portano da mangiare rifiuti e qualche frutto rubato chissà dove…abbiamo un paio di casi d’epatite… ti prego… prenditi quest’impegno, occupati di quel cane e soprattutto… non barare… ti verrebbero tutti a trovare… sai, è un branco molto evoluto».

Nel frattempo lo scalmanato era sgusciato nell’altra personalità: «E daje a fratè! T’ha detto pure bene!… guarda a me chi m’è toccato…». Quasi un sosia di Aldo Fabrizi al suo fianco c’era un ansimante carlino che lo guardava con occhi adoranti.

Carlino-cane

Cautamente, cominciai a scendere dall’albero poggiando i piedi sullo schienale e poi sul sedile della panchina.

Il bastardello si avvicinò scodinzolando e prese a darmi musate sulla mano. Gli carezzai il cranio e lui parve gradire. Aveva un bel pelo marrone e presi a massaggiarlo energicamente anche sul dorso, avvicinai il viso e me lo inondò con la lingua ruvida. Esplosero latrati di consenso che riecheggiarono nei viali deserti e le code presero a roteare come un mambo di tergicristalli.

«Evvvaai!!! Bella fratè! Mo’ te riconosco, hai fatto la cosa giusta… senti, ce l’hai o no ‘sta sigheretta?!…».

Sfilai dal cartoccio informe l’ultima e mentre la sistemavo lui si avvicinò. Blaterava di come avrebbe festeggiato il rientro a casa, di che micidiale cannone si sarebbe fumato, di non so che liquido si sarebbe iniettato e quale delizia avrebbe fiutato. Si chinò per accendere e stava magnificando le virtù di un astruso cocktail a base di superalcolici, quando vidi i ranghi rompersi . Il cordone umano si scisse in tante coppie formate da umani vacillanti e cani scodinzolanti, che insieme si allontanavano verso la città.

Qualcuno salutò con la mano, anche la ragazza cicciotella cui era toccato in sorte un grigio, tremante levriero.

 

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