L’esodo continua e continuerà

Il dossier parte con gli appelli contro il rinnovo (il 2 novembre) del MEMORANDUM ITALIA-LIBIA e prosegue con scritti – su Libia, sul lavoro semischiavistico dei braccianti, sui salvataggi delle ong e le polemiche con Matteo49milioniSalvini – di Maurizio Ambrosini, Michele Cantarella, Mariangela Di Marco, Stefano Galieni, Antonello Mangano, Francesco Oggiano, Enza Plotino, MEDU e con le vignette di Enzo Apicella, Mauro Biani, Energu e Benigno Moi

 

 

LETTERA APERTA AL GOVERNO E AL PARLAMENTO PER L’ANNULLAMENTO DEL MEMORANDUM ITALIA-LIBIA

Il prossimo 2 novembre, in mancanza di un intervento del Governo, scatterà la proroga automatica, per la durata di altri tre anni, del memorandum d’intesa con la Libia, firmato nel 2017 dall’allora premier italiano Gentiloni e dal capo del governo di Tripoli Al Sarraj. Sulla base di quell’accordo, l’Italia continua a sostenere con ingenti finanziamenti e dispiego di risorse la Guardia Costiera libica e i centri di detenzione in Libia, ma la diffusa corruzione, la connivenza e l’infiltrazione a vari livelli istituzionali di individui sottoposti a sanzioni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per i crimini contro l’umanità, portano ad escludere che vi siano le condizioni per rinnovare gli accordi con il Governo di Tripoli, ostaggio e complice di milizie, trafficanti di esseri umani e mafie locali.

Il sostegno fornito alla Guardia Costiera libica fa sì che il Governo italiano per lo più non intervenga nei soccorsi in mare dei migranti, in violazione di precisi obblighi giuridici. Quando viene segnalata un’imbarcazione in situazione di pericolo, infatti, il Centro nazionale di coordinamento del soccorso in mare (MRCC) di Roma di fatto non assume il coordinamento delle operazioni di salvataggio, dando indicazioni di fare riferimento unicamente alle autorità libiche. Si tratta di una grave violazione della Convenzione SAR, che impone al MRCC che riceve la segnalazione di assumere il coordinamento delle operazioni di salvataggio fino a quando esso non sia assunto dal MRCC ritenuto competente.

Inoltre, con la modifica unilaterale presentata dal Governo di Al Sarraj lo scorso 9 ottobre, vengono apportate sostanziali modifiche al memorandum che rendono la situazione ancora più preoccupante, quali il coordinamento esclusivo delle operazioni di soccorso da parte delle autorità libiche nell’amplissima area di acque internazionali dichiarata unilateralmente dalla Libia come zona SAR di propria competenza, nonché uno stringente controllo sulle imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie che intendono effettuare salvataggi in mare.

Va evidenziato come in numerosi e documentati casi la Guardia costiera libica non abbia risposto alle richieste di soccorso, abbia abbandonato in mare persone ancora in vita o sia intervenuta esercitando violenze sui naufraghi o addirittura causando incidenti mortali: nel caso più drammatico, verificatosi il 6 novembre 2017, si stima che più di 50 persone siano annegate in quella che avrebbe dovuto essere un’operazione di soccorso, mentre il 20 settembre di quest’anno un ufficiale della Guardia costiera libica ha sparato e ucciso un cittadino sudanese che si opponeva al rientro in Libia.

Risultato delle politiche adottate è un forte aumento del tasso di mortalità nel Mediterraneo centrale, che rappresenta attualmente la rotta più pericolosa al mondo: secondo le stime di UNHCR, dall’inizio del 2019 ad oggi è morta nel tentativo di raggiungere l’Europa dalla Libia una persona ogni 11 persone sbarcate, mentre nello stesso periodo del 2017 tale tasso era pari a una persona morta ogni 40.

Al 30 settembre 2019, il 58% delle persone che erano partite dalla Libia sono state riportate forzatamente nell’inferno libico. I migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera libica vengono rinchiusi nei centri di detenzione, in condizioni disumane, denutriti, senza cure mediche né spazio sufficiente. È ampiamente documentato come questi non siano luoghi di mera detenzione, ma vi si attuino veri e propri sequestri a scopo di estorsione. Uomini, donne e bambini vengono sottoposti a torture, stupri e violenze sistematiche da parte dei funzionari statali e delle milizie che li gestiscono. Alcune persone, inoltre, subito dopo lo sbarco vengono vendute a trafficanti di esseri umani.

La guerra in corso in Libia ha aggravato ulteriormente la già tragica situazione: i migranti rinchiusi nei centri di detenzione muoiono sotto le bombe, come accaduto a Tajoura, oppure di fame e di sete, quando i gestori dei centri fuggono di fronte all’avanzata della fazione opposta.

Le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e la Commissione europea nonché la stessa magistratura italiana hanno più volte affermato che la Libia non può in alcun modo essere considerata un Paese sicuro e dunque le persone che tentano di fuggire non possono essere rimandate in quel Paese. Lo vietano il diritto internazionale e la nostra Costituzione.

Le consegne dei migranti soccorsi in mare alle autorità libiche e la delega alla Guardia costiera libica degli interventi di soccorso in mare configurano dei respingimenti di fatto, analoghi a quelli per i quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012.

Il Governo italiano ha più volte fatto riferimento alla presenza in Libia di organizzazioni internazionali come UNHCR e OIM e di organizzazioni non governative, per sostenere che le tutele previste dal diritto internazionale sono rispettate. Tuttavia,come dichiarato anche da alcune di queste organizzazioni, la loro presenza al momento dello sbarco in Libia e nei centri di detenzione non è in alcun modo sufficiente a garantire neanche un livello minimo di tutela dei diritti umani dei migranti riportati in Libia.

L’Italia e l’intera Unione Europea debbono essere consapevoli che stanno attuando dei respingimenti collettivi di persone che fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni e che altresì stanno finanziando il sistema dei campi di concentramento in Libia. Tutto ciò richiama le pagine più orribili della storia del ’900. Fu per evitare per sempre il ritorno di quegli eventi drammatici che nacquero il sistema internazionale di tutela dei diritti umani e il sistema di protezione dei rifugiati, al cui rispetto gli Stati sono vincolati.

Crediamo che l’Italia, per la sua storia e per i principi su cui si basa la nostra Costituzione, non possa continuare a cooperare con autorità che attuano o consentono tali sistematiche violazioni dei diritti umani.

Va infine sottolineato come il memorandum sia stato stipulato in violazione dell’art. 80 della Costituzione, in quanto il Governo non è stato autorizzato dalle Camere alla ratifica di tale trattato internazionale avente natura politica.

Chiediamo dunque con forza che il Governo e il Parlamento italiano annullino immediatamente il memorandum del 2017 e i precedenti accordi con il Governo libico e che, fatti salvi gli interventi di natura umanitaria, non vengano rifinanziati quelli di supporto alle autorità libiche nella gestione e controllo dei flussi migratori.

Chiediamo inoltre l’immediata evacuazione dei centri di detenzione per migranti, garantendo loro la necessaria assistenza e protezione, sotto l’egida della comunità internazionale.

Chiediamo infine che si stabilisca un programma efficace di ricerca e salvataggio in mare a livello nazionale ed europeo, che si ponga fine agli interventi volti a ostacolare i salvataggi effettuati dalle organizzazioni umanitarie, e che si prevedano canali di ingresso regolari, in modo che le persone non siano più costrette ad affidarsi ai trafficanti e a rischiare la vita nel tentativo di fuggire dall’inferno libico.

A BUON DIRITTO, ACLI, ACTIONAID, AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA, ARCI, ASGI, CARITAS ITALIANA, CENTRO ASTALLI, CNCA, COMUNITA’ DI SANT’EGIDIO, COMUNITA’ PAPA GIOVANNI XXIII, EMERGENCY, FCEI, FOCUS-CASA DEI DIRITTI SOCIALI, FONDAZIONE MIGRANTES, INTERSOS, LEGAMBIENTE, MEDECINS DU MONDE MISSIONE ITALIA, MEDICI PER I DIRITTI UMANI, OXFAM ITALIA, SAVE THE CHILDREN, SENZA CONFINE e SOCIETA’ ITALIANA DI MEDICINA DELLE MIGRAZIONI
del Tavolo Asilo Nazionale

https://www.pressenza.com/it/2019/10/tavolo-asilo-il-governo-non-rinnovi-il-memorandum-con-la-libia/

 

 

Zitti zitti… – Stefano Galieni

Abbiamo ritenuto doveroso aderire all’appello che segue perché non possiamo restare in silenzio rispetto a quanto, in silenzio sta per avvenire. Il 2 febbraio del 2017, giorno di cui vergognarsi nella storia dell’Italia repubblicana, l’allora primo ministro Gentiloni ratificò un accordo triennale con il governo libico riconosciuto dall’UE e dall’ONU, il governo Serraj, un accordo mediante il quale, in cambio della certezza di poter fermare la fuga di richiedenti asilo e rifugiati, Italia e, mettendo a disposizione risorse economiche di conseguenza l’Unione Europea, prendevano specifici impegni con il paese nordafricano. Mezzi militari per costituire una cosiddetta Guardia costiera libica per fermare i fuggitivi, centinaia di milioni di euro per realizzare e gestire centri di detenzione in Libia, fondi per implementare i controlli nei confini meridionali del paese africano, per favorire i rimpatri “volontari” dalla Libia ai paesi di provenienza, per rafforzare gli strumenti di repressione. Investimenti che hanno permesso di trasformare i trafficanti di esseri umani e di petrolio in funzionari dello Stato che continuano a gestire i loro traffici ma vestendo una divisa e disponendo di una autorità che li pone al di sopra delle parti. In questi 3 anni le condizioni in Libia sono solo peggiorate. Mentre infuria una guerra civile continua di cui poco si parla, mentre le milizie l’un contro l’altra armate si dividono il controllo del territorio in un sistema che non è errato definire mafioso, mentre si continua a torturare e a violentare nei centri di detenzione alla faccia del controllo degli organismi internazionali, il governo libico arriva addirittura a imporre con un proprio documento inviato in Italia i propri ordini. “Le Ong che intervengono nei pressi della zona SAR (Search And Rescue) libica, prima di operare soccorsi debbono chiedere il permesso alle autorità libiche. E per far capire che da Tripoli non si scherza, due giorni fa mentre la nave dell’Ong spagnola  Proactiva Open Arms si accingeva a portare soccorso a naufraghi, da una motovedetta italiana, battente bandiera libica, sono partiti in aria colpi di fucile di avvertimento. Vietato soccorrere insomma. Dei risultati dell’accordo (in realtà è un Memorandum) fortemente voluto dal Ministro Minniti ne ha beneficiato il suo collega Salvini che oggi rivendica di aver ridotto gli sbarchi e di aver fatto diminuire il numero dei morti in mare. Una vergonosa e squallida menzogna. Già nel 2017 per ogni 38 persone che tentavano la traversata in mare 1 non arrivava vivo. L’anno successivo il rapporto è divenuto di 1 a 14. Questo perché grazie agli accordi italo libici, “grazie” al Codice di condotta per le Ong, il tratto di mare che va dai porti libici fino a Lampedusa e poi alla Sicilia è divenuto un deserto. Non ci sono più, neanche a vigilare gli assetti di Frontex e di Euronav For-Med, o delle altre missioni europee che avevano il compito di controllare i confini ma l’obbligo almeno di salvare le persone, non passano più le navi mercantili nel timore di doversi fermare per soccorrere, restano poche le navi delle Ong spesso a rischio o di colpi di arma da fuoco libiche o di sequestro in nome delle “Leggi sicurezza” di Salvini e Di Maio. Perché è urgente opporsi nel silenzio del parlamento? Il Memorandum italo libico prevede, all’articolo 8 che se prima dei tre mesi dalla scadenza del suddetto non intervengono decisioni delle parti per modificare gli accordi il patto si intende rinnovato tacitamente. E il giorno è arrivato. Dal 2 novembre non si potrà intervenire e per altri 3 anni l’Italia sarà ancora colpevole di infinite sofferenze e anche di tante vite perse. Sappiamo che molto probabilmente le nostre firme e la nostra presa di posizione, mai cambiata da allora oggi, sono minoritarie e difficilmente potranno affermarsi. Ma dovremmo presto dire da che parte stavamo e, con i nostri mezzi, lo riaffermiamo.

http://osservatoriosolidarieta.org/libia-appello-urgente-contro-rinnovo-accordo/

 

 

Illegalità e sessismo tra i militari libici addestrati in Italia – Enza Plotino

L’accordo Italia-Libia per il pattugliamento delle coste dello Stato africano e l’addestramento delle milizie, sostenuto dall’Italia con importanti risorse finanziarie, messo a punto dal governo Renzi e difeso dal primo governo Conti, è arrivato a scadenza in questi giorni, scoperchiando una palese contraddizione nella nuova maggioranza.

Da una parte l’area grillina convinta sulla sua riconferma, dall’altra, la sinistra di governo, da sempre schierata contro, costretta a ingoiare un nuovo rospo.  Perché di questo si tratta. Un accordo ignobile con cui si è cercato di bloccare le partenze dei migranti dalla Libia, infischiandosene della brutalità dei respingimenti. Lo dicono le Nazioni Unite che accusano la guardia costiera libica di sistematiche collusioni con i trafficanti di esseri umani e di aver creato dei veri e propri centri di detenzione governativa in cui i migranti vengono rinchiusi prima e dopo il recupero in mare in condizioni disumane, spesso vittime di stupri e torture. È proprio nei centri messi a disposizione dalla Marina Militare italiana che sono stati addestrati parte di questi miliziani libici, promossi a guardie costiere ed autori dei pattugliamenti e dei respingimenti finiti nei dossier dell’ONU ma anche denunciati da importanti quanto difficoltose inchieste di giornalisti coraggiosi.

Omertà

Su questi libici, il velo di omertà risale al periodo dell’addestramento in Italia, nel quale alcuni personaggi sono stati allontanati, in fretta e furia, dai centri militari in cui si stavano “formando”, per aver abusato di alcolici e aver molestato le donne del luogo. Ubriaconi e molestatori. Fatti messi a tacere per non alimentare una narrazione contraria all’accordo. Così come è avvenuto sui corsi tenuti dalla Marina militare a La Maddalena, da dove alcuni soggetti sono stati rimandati nel proprio Paese a causa di fatti analoghi. Naturalmente, tutto coperto da segreto militare e su cui non è dato indagare. Ma il paese è piccolo, la gente mormora e questi fatti hanno girato sulla bocca di tutti.

Anche sulla notizia dei costi di quest’accordo, su quanti miliardi sono partiti alla volta di Tripoli e quanti ne partiranno ancora per il deserto libico se l’accordo sarà rinnovato, nulla è dato sapere con certezza. Si parla di miliardi di euro tra equipaggiamenti, elicotteri, gommoni e armi per le milizie. Proprio loro. Libici scelti non si sa come, ma di cui si sa bene quale è stata l’attività criminale, una volta ritornati in patria: vessare, torturare, segregare i migranti e violentare le donne con ignobile sistematicità.  È dal 2014 che questi miliziani vengono in Europa per addestrarsi! Non sono grandi numeri. Anzi. Sono, però, particolarmente significativi i segnali del loro passaggio, che lasciano un’ombra pesante su tutte le operazioni ufficiali che li hanno visti coinvolti.

L’operazione Sophia

In un primo tempo è stato per rispondere all’appello del governo di Tripoli, avanzato a Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Turchia, nell’ambito dell’iniziativa del ”G8 Compact” per la ricostruzione delle nuove Forze Armate e di sicurezza libiche dopo la caduta e la morte di Gheddafi, che arrivano, solo nel nostro Paese, 340 libici per addestrarsi secondo un programma, allora interamente finanziato dal Governo di Tripoli, che seguiva ad un accordo firmato a Roma il 28 maggio 2012 e che prevedeva, nel suo insieme, la formazione in Italia di più gruppi, scaglionati nel tempo, per un massimo di 2000 unità provenienti dalle tre regioni libiche: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Ma il flusso non si è più interrotto perché nel giugno 2015 viene lanciata l’Operazione Sophia, ufficialmente European Union Naval Force Mediterranean e conosciuta anche con l’acronimo EUNAVFOR Med. Quest’operazione esclusivamente militare avviata dall’Unione Europea per contrastare la tratta di migranti nel Mediterraneo in seguito ai disastrosi naufragi avvenuti all’inizio del 2015, aveva, tra i suoi scopi, quello di addestrare i militari libici, a spese della comunità internazionale, per promuoverli a guardia costiera e ufficialmente impiegarli per combattere gli scafisti, ma, nella realtà usarli per i respingimenti. Ed è in base a questa brillante idea dell’addestramento in Europa che ci siamo messi in casa il fior fiore della feccia libica che si è distinta, nei luoghi dell’addestramento, per ubriachezza, per aver molestato le donne del posto, per ogni genere di schifezza.

Non si può far finta di nulla

Naturalmente di questi gravi fatti non si sa nulla ufficialmente, ma nei Paesi in cui questa gentaglia è arrivata, le voci sono state più forti del segreto di Stato. In Inghilterra, dove l’esercito britannico prevedeva di addestrare duemila libici tra i quali molti ex miliziani che avevano combattuto contro il regime del colonnello Gheddafi, guerriglieri o più spesso banditi cui Tripoli aveva offerto un lavoro nelle forze armate, è stato sospeso, ad un certo punto, il programma di addestramento, dopo che si erano manifestati innumerevoli problemi disciplinari e comportamentali difficilmente digeribili dai rigidi protocolli del British Army. Pochi i dettagli resi noti ma pare che i problemi sorti nella caserma di Bassinbourn, nel Cambridgeshire, che ospitava le reclute provenienti dal Paese nordafricano, siano stati davvero tanti, inclusi casi di reati penali e violenze sessuali.

Anche in Italia, dove, prima la ministra Pinotti e poi la ministra Trenta hanno benedetto le operazioni a sostegno del Programma e la continuità di Sophia, oggi, con il ministro Di Maio, si decide il rinnovo dell’accordo, nel più assoluto e colpevole silenzio. Nulla si deve sapere. Fino ad oggi nemmeno era chiaro se le figure e i ruoli di libici/militari/scafisti/ coincidevano in qualche anello della catena, perché scafisti non se ne prendono mai. Fino ad oggi però. Perché l’inchiesta dell’Espresso e le parole del guardacoste e presunto trafficante Abdurahman al Milad, nome di battaglia Bija, hanno squarciato il velo del silenzio mettendo a nudo le gravi responsabilità dei nostri ministri, e dello Stato, impegnato, in questo ultimo anno, a combattere le ONG e ad alimentare l’insofferenza degli italiani nei confronti degli arrivi degli immigrati, a scopo di consenso elettorale. Non è più tempo, quindi, per far finta di nulla. Il Memorandum (così lo chiamano) non può e non deve essere riproposto. L’importanza e la dignità della nostra storia non ce lo consente.

http://www.strisciarossa.it/illegalita-e-sessismo-tra-i-militari-libici-addestrati-in-italia-2/

 

 

Pomodori rosso sangue – Mariangela Di Marco

L’antica Capitanata coincide oggi con la provincia di Foggia. Comprende la parte settentrionale della regione pugliese, con il Tavoliere, il Gargano e i Monti della Daunia (da http://2.citynews-foggiatoday.stgy.ovh/~media/original-hi/37464097686188/capitanata-2.jpg)

Ousemane scende da una utilitaria polverosa nello spazio antistante la foresteria dove vive da un anno, sulla Statale 16 per Foggia. Con lui, quattro amici. Vengono da una giornata di lavoro nei campi di pomodori nei dintorni di San Severo, nel distretto della Capitanata, principale area di produzione di oro rosso del Sud Italia.

Dal 2017 la foresteria Casa Sankara offre riparo a 250 lavoratori agricoli provenienti da Mali, Senegal, Ghana, Costa d’Avorio. Alcuni arrivano dagli insediamenti informali dell’ex Pista aeroportuale di Borgo Mezzanone, di Borgo Tre Titoli e da una moltitudine di masserie occupate a macchia di leopardo in un raggio di 50 km da Foggia. Ma la maggior parte è uscita dal Gran Ghetto, la baraccopoli nella piana tra San Severo e Rignano Garganico, sgomberata nello stesso anno. I terreni su cui sorgeva, di proprietà regionale, sono stati posti sotto sequestro dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari per presunte infiltrazioni criminali nella gestione del caporalato nei campi. Poco tempo dopo e a pochi metri distanti è tuttavia nata una seconda baraccopoli. Qui, al picco della stagione, si concentrano oltre 2mila persone, in baracche improvvisate di legna, teli di plastica e lamiera. Aspettano di essere convocate dai caporali, a cui pagheranno il costo del trasporto ai campi (dai 2 ai 5 Euro). I caporali poi otterranno un’altra percentuale (dai 20 ai 50 centesimi) dal datore di lavoro per ogni cassone raccolto dai membri della loro squadra.

Ed è dal Gran Ghetto che arriva Ousemane, senegalese di 28 anni, dove ha vissuto per più di un anno. «A Casa Sankara abbiamo avuto la possibilità di mettere da parte un po’ di soldi per comprare la nostra macchina. È intestata a uno di noi, ma è di tutti e cinque. Nel ghetto non ce l’avremo mai fatta» commenta il ragazzo, alzando lo sguardo verso la facciata di un prefabbricato dove troneggia il murale di Thomas Sankara, politico e rivoluzionario del Burkina Faso che si impegnò per la riduzione della povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate. «Tutte le mattine venivano a prendermi intorno alle 4 con un furgone. Alle 5 riempivo già cassoni di pomodori. E poi di notte, nella baracca dovevo combattere con i topi. Dovevo lasciare al capo (il caporale) i soldi per dormire, per andare a lavoro, per farmi accompagnare in ospedale. Non è facile lavorare tante ore col caldo» aggiunge mentre si avvicina a un gruppo di ragazzi tornati da poco dai campi, distesi a riposare all’ombra di un albero. Sulla Statale 16 sfrecciano autotreni che trasportano decine di cassoni di pomodoro nelle industrie della Campania, dove verrà trasformato.

«Abbiamo sempre sostenuto che la chiusura dei ghetti sarebbe stata possibile se ci fosse stata un’alternativa. Così nel 2017, dopo la chiusura della baraccopoli di Rignano, la prefettura ha trasferito una parte di quelle persone a Casa Sankara» spiega Hervé Latyr Faye, presidente di Ghetto Out, capofila della rete di associazioni vincitrici del bando della Regione Puglia per l’utilizzo, per cinque anni, dell’azienda Fortore. Un’altra parte è ospitata nella struttura Arena, di proprietà del comune di San Severo.

«Ci sono molte richieste di accesso a Casa Sankara, per cui abbiamo dovuto introdurre dei requisiti, ma non chiudiamo le porte a chi non ha i documenti. Accogliamo, ascoltiamo e valutiamo la possibilità di intraprendere un percorso» continua Latyr Faye. «Molte persone che avevano perduto i loro documenti ora sono regolari. Rintracciamo i legali, recuperiamo i documenti. Abbiamo un avvocato che ci aiuta in questo. Persone che hanno vissuto nel ghetto per anni e che non hanno mai avuto la possibilità di rinnovare i loro documenti, arrivando a Casa Sankara hanno avuto la residenza perché abbiamo un accordo con il comune di San Severo. Molti hanno vissuto qui per un periodo e hanno trovato una sistemazione altrove perché hanno raggiunto l’autonomia economica grazie a un lavoro dignitoso» continua mentre camminiamo attraverso i prefabbricati della struttura di accoglienza, disposti ordinatamente e decorati da murales. In uno slargo, una targa cita Nelson Mandela «La libertà è una sola. Le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti». Intorno i panni stesi ad asciugare.

Per contrastare il caporalato, qui si lavora sui venti ettari di terreni abbandonati messi a disposizione dalla Regione, sedici dei quali coltivati a canapa per uso terapeutico, settore in cui la Puglia registra la maggiore attività in Italia. «Abbiamo stipulato una collaborazione con un’azienda di Bari che ci garantisce i semi e l’assistenza tecnica, mentre noi di Casa Sankara ci impegniamo con la manodopera, remunerata degnamente» aggiunge Latyr Faye. Vicino al campo dalle piante che superano il metro di altezza, i filari dell’uva quasi pronta per la raccolta. «Stessa cosa per il vigneto: noi ci mettiamo la manodopera e un agronomo di un’azienda locale ci supporta nelle varie fasi della coltivazione».

Da un lato del sentiero di breccia, gli operai lavorano all’ultimazione dei nuovi moduli abitativi inaugurati lo scorso 31 luglio dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Ospiteranno altri 400 posti letto, con infermeria, cucina e mensa, sportelli mobili di avviamento e sicurezza sul lavoro attraverso i progetti finanziati dal Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) e dal programma operativo nazionale del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (Pon Inclusione).

«Senza questi lavoratori l’agricoltura pugliese non potrebbe resistere», scrive Emiliano sulla sua pagina social. «Per questo abbiamo dato vita a questo esperimento delle foresterie. Diamo così dignità alla produzione agricola fatta in modo legale e umanamente sostenibile, e soprattutto contrastiamo il caporalato, perché tutto ciò che è bestiale, illegale, che soffoca i diritti umani ed è frutto di abuso, prepotenza, arroganza e di mafia non può essere venduto da un Paese civile, fa solo danno».

Nello stesso giorno è stato attivato anche Senza Caronte, il servizio di trasporto del sindacato Flai Cgil, finanziato dalla Regione, per i lavoratori residenti a Casa Sankara e nel ghetto di Borgo Mezzanone, da e per i luoghi di lavoro, evitando così l’intermediazione illegale da parte dei caporali. Proprio questo meccanismo, che vede i braccianti stipati in furgoni, ha innescato all’inizio di agosto dello scorso anno due gravi incidenti, provocando 16 vittime con la stessa dinamica: uno scontro tra un tir e il furgone dei lavoratori, di ritorno da una giornata di raccolta di pomodori.

«Presto ripartiranno i corsi di italiano. Abbiamo dovuto sospenderli perché lo spazio adibito alla scuola abbiamo preferito darlo a chi aveva bisogno di un tetto sotto cui stare» dice il presidente di Ghetto Out. Parlare italiano è uno dei modi di liberarsi dal caporalato: i caporali servono ai padroni che non saprebbero come dare ordini ai lavoratori, senza la mediazione linguistica dei caporali. Intanto altre utilitarie con cinque passeggeri entrano a Casa Sankara. «La macchina è il grande potere del caporale. Se gliela togli, diventa nessuno» commenta Latyr Faye.

I caporali hanno diversi ruoli nella vita dei braccianti: si occupano, dietro compenso, del trasporto dalle abitazioni ai campi agricoli, degli alloggi in cui dormono fino al cibo. Ma soprattutto del reclutamento e dell’organizzazione dei lavoratori. In questa intermediazione tra il datore di lavoro e il bracciante, l’illecito sta nel fatto che il compenso viene trattenuto direttamente dalla paga del bracciante e nell’arbitrarietà con cui il caporale decide chi lavora e chi no, spesso trattenendo anche i documenti delle persone, rendendole ricattabili. E di conseguenza, sfruttate.

Se nei distretti settentrionali – Emilia Romagna e Lombardia – la raccolta è stata quasi integralmente automatizzata, al Sud, e in particolare in Capitanata, gli appezzamenti delle circa 3.500 aziende locali sono più piccoli e meno adatti alla meccanizzazione. Ed è qui, dunque, che risulta il modello estremo dello sfruttamento lavorativo nell’agricoltura, in cui si concentrano simultaneamente violazioni dei diritti su più livelli. Il rapporto 2018 dell’Ispettorato nazionale del lavoro attesta che circa il 50% delle aziende agricole pugliesi risulta essere irregolare, mentre il 64% dei lavoratori in nero. Il 75% delle persone assunte in agricoltura risultano prive di regolari documenti di soggiorno. Non vengono rispettati neanche i contratti da 50-60 euro a giornata, come richiede il contratto collettivo nazionale del comparto agricolo.

Secondo le stime del Rapporto Flai Cgil (Osservatorio Placido Rizzotto, 2018) le infiltrazioni mafiose nella filiera agroalimentare e nella gestione della domanda e offerta di lavoro attraverso la pratica del caporalato muovono un’economia illegale e sommersa di oltre 5 miliardi di euro.

A livello nazionale, sono tra i 400 e i 430 mila i lavoratori stranieri esposti al rischio di ingaggio irregolare, e di questi 130 mila sono in condizione di grave vulnerabilità. Le donne sotto caporale percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi. Nei gravi casi di sfruttamento analizzati, alcuni lavoratori migranti percepiscono un salario di 1 euro l’ora, mentre in media si guadagna 3-4 euro per un cassone di 375 chili per 30 euro al giorno. I lavoratori stranieri costituiscono circa un quarto del totale in agricoltura (Dossier statistico immigrazione, Idos 2018) dove, di fatto, il caporalato è l’unico mezzo di reclutamento della manodopera. Ma non mancano gli italiani, come ci ricorda la morte di Pasquale che poche settimane fa si è accasciato mentre raccoglieva angurie nel caldo asfissiante di una serra della provincia di Napoli, a Giugliano. Aveva 55 anni e neanche lo straccio di un contratto.

La figura del caporale è piombata nell’immaginario collettivo italiano nel 1990 con Pummarò, film del regista pugliese Michele Placido che racconta le vicissitudini di un ragazzo ghanese. Ma quello del caporalato è un sistema che è sempre esistito. «Scancèlletece dalla società, pe nui poveretti pietà nun ce ne sta» cantava Matteo Salvatore negli anni Sessanta, conosciuto come il più grande cantore sullo sfruttamento. Narrava la vita di stenti e fatica dei braccianti del Tavoliere delle Puglie assoggettati ai caporali, italiani come loro. Continuando in questa digressione, è importante ricordare che proprio in queste terre avvenne il primo omicidio di un parlamentare da parte dei fascisti: Giuseppe Di Vagno, parlamentare che si schierò a fianco dei contadini colpiti dalla violenta e sanguinosa reazione degli agrari all’occupazione pacifica delle terre incolte e dalla repressione poliziesca. Erano gli anni del biennio rosso (1919-1921), anni di importanti lotte sociali che attraversavano il Paese. «Nel settembre 1921 i delitti commessi dagli squadristi si contavano già a centinaia in tutta Italia, ma per la prima volta era ucciso un parlamentare. Non era un caso che questo grave crimine politico fosse stato commesso in Puglia. Già nel 1913 le leghe bracciantili pugliesi erano più numerose di quelle di qualsiasi altra regione italiana» scriveva il giornalista e storico Leo Valiani su l’Espresso in occasione dei cinquant’anni dell’uccisione dell’onorevole Di Vagno.

Se, però, i vecchi caporali avevano un rapporto con la comunità e il territorio e i braccianti erano parte integrante di un sistema sociale che fungeva loro da riferimento, nel corso degli ultimi decenni, la presenza di caporali stranieri ha rappresentato – e rappresenta – una profonda mutazione antropologica di questo fenomeno. I nuovi lavoratori stranieri vivono nell’invisibilità dei ghetti e finiscono per essere sradicati dal territorio, non avendoci alcun contatto se non quello nei campi agricoli. Le relazioni temporanee e distaccate tra caporale e lavoratore non trovano più neanche il conforto dell’appartenenza a una comunità. «Ed è questa doppia condizione di estraneazione (rispetto al paesino del Tavoliere di cui non sanno niente e, soprattutto, rispetto al caporale con il quale, per quanto loro connazionale, non hanno alcun vincolo sociale, comunitario) che trasforma i braccianti in schiavi» scriveva il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande in Uomini e caporali (Feltrinelli, 2008).

Nel 2016 il Parlamento ha approvato la legge 199 contro il caporalato che penalizza il datore di lavoro che «sottopone i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfitta del loro stato di bisogno». Le azioni promosse dalla Regione Puglia per lo smantellamento dei ghetti e il superamento del caporalato vanno nella giusta direzione. Ma non basta. Lo scorso 4 luglio un decreto del ministero del Lavoro ha istituito un tavolo operativo per monitorare e organizzare interventi di contrasto a questo fenomeno: la legge 199 risulta insufficiente, avendo carattere prevalentemente repressivo perché interviene sul fatto avvenuto e non sulle cause.

Quali sono queste cause? Pensiamo alle passate di pomodoro vendute a 49 centesimi, il modello del sottocosto che ha riempito il mondo della grande distribuzione. Un mondo dietro cui si nasconde lo sfruttamento non solo dei braccianti, ma anche dell’ambiente. I 49 centesimi delle conserve di pomodoro sono determinati dalle aste online a doppio ribasso che permettono ad alcuni gruppi, soprattutto discount della grande distribuzione, di acquistare enormi partite di prodotti, per lo più conservati, come le passate di pomodoro, a un prezzo irrisorio. Lo fanno sui prodotti a loro marchio per poi venderli a pochi centesimi. La conseguenza è che chi produce e trasforma il pomodoro non rientra nei costi di produzione. L’unica alternativa che si ha a disposizione è quella di tagliare i costi del lavoro e della qualità. La qualità si abbassa perché si deve aumentare la resa di produzione, aumentando quindi l’uso di prodotti chimici sul campo. Il costo del lavoro nei campi di pomodoro diventa altresì sfruttamento e caporalato. Secondo l’Anicav, l’associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali, il fatturato dell’industria del pomodoro si aggira sui 3 miliardi di euro. L’Italia è il secondo trasformatore mondiale, dietro la California e seguita dalla Cina e detiene il 50% della produzione a livello europeo. Eppure, nonostante questi numeri, il pomodoro italiano vede ogni anno diminuire il prezzo della materia prima e del prodotto trasformato.

Ci sono diverse azioni politiche e culturali sul territorio pugliese che rispondono a queste problematiche e che rilanciano il comparto. Dal 2014 Sfruttazero è uno di queste. Le associazioni Solidaria di Bari e Diritti a Sud di Nardò (Lecce) autoproducono salsa di pomodoro, trasformando l’oro rosso in simbolo di emancipazione e riscatto. «Non è solo un progetto agricolo, ma anche una reazione allo status di sfruttato che vivono in queste terre italiani e stranieri. Siamo partiti da questo, ma avevamo un’idea di carattere politico: mettere insieme le esigenze e i bisogni quotidiani delle persone, come avere dei documenti, un reddito, un lavoro» dice Gianni De Giglio di Solidaria. «Negli ultimi anni, a livello nazionale si sta finalmente accendendo il dibattito sulle responsabilità della grande distribuzione che, attraverso le multinazionali, impone il prezzo del prodotto e non solo. Spesso l’imposizione è anche sulle quantità e le modalità di produzione che scaricano i costi sulla filiera agricola a ritroso. Il capro espiatorio è il caporalato, non escludendo ovviamente tutte le responsabilità che questo fenomeno ha» aggiunge De Giglio.

L’investimento su questo progetto è stato avviato attraverso una campagna di crowdfunding, un finanziamento dal basso con il quale ciascuno ha potuto donare una somma a piacimento. «Siamo passati dalle 2.500 bottiglie del primo anno ai poco più di 22mila vasetti di quest’anno, con una produzione di pomodori di 270 quintali. Siamo cresciuti anche a livello contrattuale perché quest’anno Sfruttazero ha stipulato 30 contratti con retribuzione prevista dal contratto nazionale agricolo. Ben lontani dai 3-4 euro a cassone, come purtroppo avviene nella maggioranza dei casi» chiosa Rosa Vaglio di Diritti a Sud.

Tutto il processo produttivo, dalla piantumazione dei pomodori fino alla distribuzione del prodotto viene autogestito. “L’etichetta narrante” fornisce informazioni dettagliate sulla varietà dei pomodori utilizzati, sul luogo della coltivazione e della trasformazione e su tutti i costi sostenuti che vanno a determinare il prezzo di ogni singolo vasetto di salsa. La coltivazione avviene secondo i principi dell’agroecologia, nel rispetto dell’ambiente. Vengono impiegate solo varietà locali di pomodoro, come il San Marzano e il Fiaschetto. Perché è questo il punto di forza del made in Italy: la biodiversità che varia da regione a regione. E la scelta delle due associazioni risponde alla volontà di differenziare una merce che sugli scaffali della grande distribuzione è sempre più standardizzata e che fa sì che le qualità tipiche del luogo di produzione perdano peculiarità: un prodotto uguale a quello che si può trovare su qualsiasi altro scaffale nel mondo. Dalla California alla Spagna, dalla Turchia alla Cina.

La trasformazione avviene in un laboratorio di Bari autogestito dall’associazione Solidaria, mentre a Nardò in un’azienda locale che rispetta i diritti dei lavoratori. È proprio nelle campagne di Nardò che nel 2011 ha avuto luogo la più grande mobilitazione dei braccianti agricoli schiavizzati – a un anno e mezzo dopo quella di Rosarno, in Calabria – che è riuscita a guadagnare una forte eco nazionale. A seguito di questi fatti, nel 2017 la sentenza di primo grado del tribunale di Lecce porterà all’arresto quattro imprenditori salentini e nove africani, tra cui l’algerino Saber Ben Mahmoud Jelassi detto Sabr, che diede il nome all’indagine giudiziaria condotta nel 2011. Sentenza, però, ribaltata dalla Corte d’Appello lo scorso aprile che ha visto l’assoluzione di undici dei tredici condannati perché, al tempo dei fatti, il reato di riduzione in schiavitù non era previsto dalla legge.

La distribuzione della salsa Sfruttazero avviene all’interno del circuito Fuori Mercato, rete nazionale che collega realtà solidali ed etiche – mercatini di autoproduzioni, cucine e spacci popolari, spazi autogestiti e piccole botteghe – in contesti urbani e rurali da Nord a Sud sull’esempio del movimento dei Sem Terra brasiliani e del Soc Sat andaluso, sindacato che difende i braccianti nella regione del sud della Spagna. «Il 50 per cento della salsa prodotta va nei gruppi di acquisto solidale delle grandi città. Certo, la nostra salsa ha un prezzo diverso rispetto a quella presente nella grande distribuzione. Se non avessimo delle associazioni che trasmettono ciò che facciamo, che corrisponde a ciò che fanno anche loro, non riusciremo ad avere questo tipo di risposte» continua Vaglio.

L’autocertificazione partecipata rende il consumatore parte integrante della filiera, avendo la possibilità di seguire tutte le fasi lavorative. «Abbiamo molte persone che vengono nei campi a vedere come si lavora. C’è inoltre una scheda tecnica che è un quaderno di campagna e basta incrociare le giornate di lavoro con i dati presenti su questo quaderno per vedere effettivamente che tipo di trattamenti vengono fatti» dice Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud.

Ma ci sono delle criticità. «Noi non siamo contadini. In agricoltura non ci si inventa, si ha bisogno di sperimentare, di documentarsi e affidarsi ai consigli di persone più esperte. Ma non è questo il grande limite. In questi anni abbiamo conosciuto moltissime persone africane, ma pochissimi contadini. Pochissime persone che già nella loro terra lavoravano in campagna. Non sono qui e non vengono qui per coltivare i nostri campi. Molti di loro hanno altre aspirazioni. Lo fanno perché è l’unico sbocco lavorativo che trovano, sfruttato e mal pagato. Molti giovani italiani sono lontani dall’agricoltura da tantissimi anni. A Nardò, ad esempio, che ha un’estensione terriera importante, l’istituto agrario ha chiuso. Quindi è una questione di approccio sistemico» chiosa Cleopazzo.

L’agricoltura è il principale settore lavorativo del Sud Italia, ma molti giovani non ne vogliono sentir parlare. Secondo il Rapporto sull’economia e sulla società del Mezzogiorno della Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, il 72% di chi emigra da queste terre ha meno di 34 anni. Dal 2002 al 2017 c’è stato un vuoto giovanile pari al numero di abitanti della città di Napoli: poco meno di un milione di persone. «Manca nel vissuto culturale del Paese questa attenzione al cibo, alla cura della terra, alla produzione agricola. C’è bisogno di una nuova fase di una riforma grande in termini agrari a livello nazionale. C’è bisogno di tornare a parlare di questi temi per riuscire a incidere anche sulle volontà e le aspirazioni di chi si vuole effettivamente cimentare nel lavoro in campagna. C’è in questo un grande limite» aggiunge ancora Cleopazzo.

Il due per cento del ricavato della salsa Sfruttazero viene destinato ad una cassa di mutuo soccorso con cui le due associazioni sostengono mobilitazioni per i braccianti agricoli e per tutte quelle realtà che hanno carattere politico. «Ci autogestiamo – è scritto sulla pagina social del prodotto – e lo facciamo in tutte le fasi di quella che per noi non è una filiera. È lotta di classe».

Mariangela Di Marco, insegnante

http://www.patriaindipendente.it/il-quotidiano/pomodori-rosso-sangue/

 

LA CATTIVA STAGIONE. RAPPORTO SULLE CONDIZIONI DI VITA E DI LAVORO DEI BRACCIANTI NELLA CAPITANATA

Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha presentato oggi, presso l’Auditorium Santa Chiara, “La cattiva stagione. Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti nella Capitanata”. Ogni anno, nella stagione estiva – con picchi tra luglio e settembre – sono presenti nella Capitanata circa 7.000 braccianti migranti, stanziali e stagionali, che offrono manodopera a basso costo in primis per la raccolta del pomodoro, la cui produzione in questi territori rappresenta oltre un terzo del totale nazionale.

L’estate del 2019 è stata nella Capitanata un’ennesima cattiva stagione. Lo è stata di certo per i braccianti, ancora una volta impiegati in condizioni di grave sfruttamento e costretti a vivere in insediamenti pericolosi, isolati e insalubri. Pessima perché il caporalato continua a rappresentare – nonostante la nuova legge anti-caporalato del 2016 – la modalità diffusa e manifesta di organizzazione del lavoro, in assenza di sufficienti controlli e di meccanismi efficaci di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Una stagione resa ancor più nefasta dagli effetti del Decreto Sicurezza sulla vita dei lavoratori stranieri, esposti non solo ad un crescente rischio di irregolarità e incertezza, ma anche a vere e proprie aggressioni xenofobe.

Nell’ambito del progetto Terragiusta, la clinica mobile di Medu ha operato, da giugno a settembre 2019, negli insediamenti informali del territorio della Capitanata, in provincia di Foggia: il Gran Ghetto di Rignano Garganico, il ghetto Pista di Borgo Mezzanone, i casolari abbandonati nelle campagne di Poggio Imperiale, Palmori e San Marco in Lamis. Nei tre mesi di intervento in Puglia, il team di Medu, composto da medici, operatori socio-legali e mediatori culturali, ha prestato assistenza sanitaria e legale a 225 persone, realizzando 292 visite mediche e 153 colloqui di orientamento legale. Le attività si sono svolte in collaborazione con le associazioni Idorenin e A Buon Diritto e in rete con le diverse organizzazioni e servizi locali.

Le persone assistite erano perlopiù giovani uomini (93%), con un’età media di 31 anni, appartenenti a 24 diverse nazionalità principalmente dell’Africa Sub-Sahariana e del Nord Africa, dell’Europa dell’Est e del Centro e del Sud-est Asiatico di cui le principali sono Mali, Ghana, Gambia, Nigeria, Costa d’Avorio. Nonostante la regolarità del soggiorno della maggior parte dei braccianti, solo il 44% delle persone occupate ha dichiarato di essere in possesso di un contratto di lavoro e la maggior parte di esse o non riceveva la busta paga o si vedeva riconosciute meno di un terzo delle giornate di lavoro effettivamente svolte. La maggior parte dei lavoratori viene pagato 30-35 euro per una giornata lavorativa di 8-9 ore. Il 61% delle persone incontrate era regolarmente soggiornante; in particolare, il 34% era in possesso di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o per casi speciali, il 20% era richiedente asilo e il 5% titolare di protezione internazionale.

Le problematiche di salute riscontrate nella popolazione degli insediamenti – principalmente malattie osteomuscolari e del tessuto connettivo, malattie dell’apparato digerente e malattie infettive – sono correlate nella quasi totalità dei casi alle pessime condizioni lavorative e igienico- sanitarie in cui i pazienti visitati si trovano a vivere. Tra le persone in possesso di un regolare permesso di soggiorno, una su due non era iscritta al Sistema Sanitario Nazionale. Solo il 20% delle persone assistite aveva una buona conoscenza della lingua italiana, pur essendo i quattro quinti di esse presenti sul territorio italiano da un anno fino a oltre 10 anni. Questi dati evidenziano tra l’altro rilevanti criticità del sistema di accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo e rifugiati nel nostro paese, caratterizzato da importanti carenze nell’ inclusione sociale e nell’accesso ai diritti fondamentali.

Oltre ad analizzare nello specifico le condizioni abitative, lavorative, sanitarie e giuridiche della popolazione assistita dalla clinica mobile, questo rapporto avanza proposte concrete volte al superamento di un fenomeno devastante, quello dei ghetti e dello sfruttamento nelle campagne, che segna la Capitanata come molti altri territori del Mezzogiorno d’Italia e non solo.

LEGGI RAPPORTO INTEGRALE
LEGGI SINTESI 

Medici per i Diritti Umani (MEDU)  ha avviato dal 2014 il progetto Terragiusta. Campagna contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura.

Nel 2019  i partner del progetto sono: Associazione Cambalache, Società Cooperativa Sociale ViboSalus, Associazione A Buon Diritto, Associazione Idorenin, Comunità Progetto Sud Onlus.Progetto realizzato con il sostegno di:  Fondazione con il Sud; UNHCR; Open Society Foundations; SDF – Sanità di Frontiera; UBI  Banca.

https://mediciperidirittiumani.org/la-cattiva-stagione/

Ecco i veri nodi dell’immigrazione in Italia – Maurizio Ambrosini

Il Rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia disegna un quadro in chiaroscuro, tra progressi e difficoltà. Indica le tematiche che un eventuale nuovo governo dovrebbe affrontare, senza continuare a inseguire aspetti marginali.

Il Rapporto sugli stranieri nel mercato del lavoro

Viviamo giorni d’incertezza di fronte all’evoluzione politica del paese, ma non manca la speranza di una svolta che segni una netta discontinuità nelle politiche migratorie. Per oltre un anno, la discussione sul tema è stata polarizzata sugli sbarchi dal mare e sull’asilo, salvo occasionalmente allargarsi alla cronaca nera. Basta andare a rileggere il contratto su cui nacque il governo Conte-Salvini-Di Maio. Migranti e rifugiati sono sistematicamente confusi e si parla di “flussi migratori” per intendere gli arrivi dal mare. Oggi scarsissimi, ma sempre minoritari anche negli anni scorsi rispetto alle altre modalità d’ingresso: famiglia, studio, lavoro e diverse altre. Senza contare, beninteso, i migranti interni all’Ue (1,5 milioni in Italia), che non hanno bisogno di permessi per insediarsi nel nostro paese.

È dunque importante, nel momento in cui potrebbe nascere un governo diverso, confrontarsi con analisi statistiche, meglio se di fonte istituzionale, che ci restituiscono un quadro più obiettivo e completo dell’immigrazione del nostro paese. Tra queste va annoverato il Rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia, pubblicato dal ministero competente, la cui nona edizione è uscita nei giorni scorsi.

Va ammesso che nemmeno la partecipazione occupazionale degli immigrati sfugge al fuoco delle polemiche. Quando non lavorano, sono bollati come parassiti mantenuti dalle tasse dei contribuenti. Quando lavorano, sono accusati di rubare il pane agli italiani, oppure di essere braccia a disposizione di biechi sfruttatori. Quando intraprendono, si pensa che godano di indebiti vantaggi, di aiuti pubblici, di esenzioni fiscali o altri favoritismi.

Il Rapporto ministeriale aiuta a fare un po’ di chiarezza al riguardo. Il primo dato è che l’occupazione regolare degli immigrati continua a crescere, anche se moderatamente: 2,45 milioni, pari al 10,6 per cento dell’occupazione complessiva. In altri termini, un lavoratore su dieci in Italia è straniero, senza contare quelli che nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza italiana a dispetto della regolamentazione più restrittiva dell’Europa occidentale. In generale, il tasso di occupazione degli immigrati è più alto di quello degli italiani, uno dei pochi casi a livello Ocse, e alcune componenti nazionali brillano per operosità: tra i filippini più di otto su dieci sono occupati; cinesi, peruviani, srilankesi e ucraini superano o sfiorano un rapporto di sette su dieci.

In alcuni settori il contributo degli stranieri è particolarmente rilevante: 17,2 per cento del totale in edilizia, 17,9 per cento in agricoltura e nell’industria alberghiera; ma soprattutto 36,6 per cento nei “servizi collettivi e personali”. Qui si colloca, infatti, tra le varie occupazioni del settore, l’ingentissimo fenomeno del lavoro domestico e assistenziale a beneficio delle famiglie italiane: un ambito in cui più di sette lavoratori su dieci sono stranieri, o meglio straniere.

Il problema della sovra-qualificazione

Questa grande risorsa per puntellare i difficili equilibrismi a cui tante famiglie sono costrette ha però anche costi sociali e personali non indifferenti: per le lavoratrici straniere, quale che sia il loro livello d’istruzione e la loro esperienza professionale pregressa, il confinamento nel lavoro domestico-assistenziale è un destino a cui non è agevole sottrarsi.

Ma il problema della sovra-qualificazione vale anche per gli uomini: secondo il rapporto, 63 laureati stranieri su 100 sono occupati in posizioni per cui basterebbe un’istruzione inferiore, contro meno di 18 italiani laureati su 100. Più grave è però un altro problema: il lavoro in parecchi casi non affranca gli immigrati dalla povertà. In un quarto dei casi di immigrati in condizioni di povertà assoluta (1,5 milioni), almeno una persona in famiglia ha un’occupazione regolare.

Un’altra seria incognita riguarda le nuove generazioni di origine immigrata: il loro tasso di occupazione nell’Ue è del 69 per cento, in Italia soltanto del 28 per cento. Si profila perciò un allarme per l’integrazione sociale futura dei figli degli immigrati, che nessuno potrà cacciare da quello che ormai è il loro paese.

Il rapporto disegna dunque un quadro in chiaroscuro, di luci e ombre, progressi e difficoltà. Sarebbe di vitale importanza per un nuovo governo mettere a tema i nodi veri della questione immigrazione – quindi, per esempio, quello di nuovi ingressi per lavoro in determinati settori – invece di inseguire aspetti di fatto marginali, ma di elevata redditività propagandistica.

da qui

 

 

Perché Saluzzo è diventata la “Rosarno del Nord? – Antonello Mangano

Inchiesta / In provincia di Cuneo è terminata anche quest’anno la raccolta: 450mila tonnellate di frutta raccolte da 40mila braccianti, la maggioranza dei quali africani. Una realtà ricca produce accampamenti, caporalato, proteste e repressione. Perché?

I frutteti della provincia di Cuneo producono oltre 450mila tonnellate l’anno. Sul bancone del fresco di un supermercato, tuttavia, trovo pesche dalla Spagna, kiwi dal Cile, pere da Sudafrica e Argentina.

Siamo nel cuore del Piemonte agricolo, l’antico marchesato di Saluzzo: secondo alcuni la “Rosarno del Nord”, per altri un distretto in crisi per colpa della concorrenza spagnola e dei supermercati tedeschi. Con export verso tutta Europa  settentrionale e aziende che fatturano fino a 124 milioni l’anno, l’agricoltura del cuneese non è certo povera.

Proprio per questo ha fatto scalpore l’inchiesta “Momo”, un’indagine che risale allo scorso luglio e che ha certificato l’esistenza del caporalato in Piemonte. Aziende importanti sono finite sotto processo. Subito dopo, una lunga serie di controlli nei campi ha fatto emergere irregolarità in serie. Le ultime ispezioni risalgono a qualche giorno fa, con la raccolta ormai alle ultime battute.

La solita indifferenza

«La signoria vostra è multata per la solita indifferenza mostrata rispetto ai migranti che raccolgono la frutta». Il 2 settembre, giorno dell’evento più atteso dell’anno, la fiera agricola, i cittadini che parcheggiavano nello spiazzo del Foro Boario, trovavano sul parabrezza un’insolita multa. Nei dintorni, un volantino altrettanto anonimo denunciava: «Frutta della Granda: manodopera sottopagata, solo 3,50 l’ora». Coldiretti Cuneo reagiva con una denuncia per diffamazione contro ignoti. «Non si scherza con il futuro di migliaia di imprese e di lavoratori», hanno sintetizzato.

I produttori sono piuttosto nervosi. Lamentano una crisi che ha due volti: pagamenti sottocosto e concorrenza globale. I colpevoli sarebbero tedeschi e spagnoli. I supermercati in Germania pagherebbero la frutta meno del valore reale. Fanno valere la loro posizione forte: i banconi tedeschi sono contesi tra ditte italiane, greche, turche, sudafricane. Per cui inseriscono spesso prodotti sottopagati tra le offerte civetta, quelle dei volantini pensati per attirare i consumatori attenti al risparmio.

Le aziende spagnole, dal canto loro, invadono il mercato con prodotti di qualità discutibile ma dai prezzi concorrenziali. Sono diventate una superpotenza dell’ortofrutta, grazie al lavoro migrante, all’organizzazione commerciale e al supporto del governo.

I contadini piemontesi, invece, parlano di controlli eccessivi, disciplinari troppo rigidi e norme sulla sicurezza alimentare. Limitazioni giuste, dicono, ma che dovrebbero essere estese anche ai loro concorrenti. E poi c’è il costo del lavoro. Un sito specializzato spiega che in Spagna il lavoro a norma costa 8,2 euro l’ora, in Italia 12. Ma al bracciante rimangono più soldi in tasca nel caso spagnolo: sette euro contro i sei che intasca lavorando nei nostri confini. Quando è tutto in regola, si intende.

I supermercati tedeschi fanno valere la loro posizione dominante. Le imprese spagnole sono diventate una potenza dell’ortofrutta. I produttori piemontesi si trovano in mezzo.

In realtà in questo gioco non ci sono buoni e cattivi. È un gigantesco “risiko” dove è facile vincere o perdere. «La GDO non dovrebbe pagare il prezzo più basso, altrimenti facciamo il giro del mondo a chi sfrutta di più», dice Debora Borghino, una coltivatrice che ha sottratto l’azienda di famiglia al gioco al massacro della concorrenza globale. Adesso si mantiene con i piccoli mercati locali, come quello della rete “Genuino Clandestino”.

Non è così per i suoi colleghi. Se prima i contadini temevano soltanto il meteo, oggi sono preoccupati anche dalla geopolitica. Dazi appena introdotti o nuove aree di libero scambio possono cambiare le carte in tavola, così come un embargo, per esempio quello imposto da anni alla Russia. Sono temi di cui si discute più in campagna che nelle città e che rivelano cosa è diventata l’agricoltura: un pezzo dell’economia globale, ma che risente della politica globale.

Così i produttori vivono di paure. I timori sono infiniti: una gelata, prezzi di vendita troppo bassi, attese troppo lunghe prima di incassare, dopo aver speso e investito per mesi. Ma non è difficile immaginare chi pagherà i loro timori. I braccianti sono l’ultimo anello, ma anche un esercito flessibile “reattivo” rispetto ai picchi della raccolta. Ma che non deve rivendicare diritti.

Il paradosso

«A fronte di una richiesta di circa 10000 stagionali, il sistema dei flussi ha fornito quest’anno solo 1200 lavoratori», annota su Facebook il sindaco Mauro Calderoni. «Oltre il 40% dei lavoratori impiegati nella frutticultura del saluzzese è ormai di origine africana. Ma 18mila ettari di frutta hanno bisogno di un sistema organizzato e gestibile di reperimento della manodopera».

Il sindaco denuncia un paradosso. I “flussi di lavoratori” non sono coordinati su scala nazionale, ma neppure al livello regionale. Così in Emilia o Veneto c’è carenza di manodopera, mentre a Saluzzo si accampano centinaia di africani nella speranza di un ingaggio. Il reclutamento avviene spesso porta a porta o con metodi fai da te. I costi sociali sono scaricati dal livello aziendale a quello pubblico.

Basta arrivare nello spiazzo del Foro Boario per averne una prova. Decine di braccianti africani accampati si contendono un posto letto al Pas, il centro di accoglienza messo su anche quest’anno per dare una risposta a un’emergenza paradossale, quella di lavoratori che non riescono ad avere un letto.

Sono africani già presenti in Italia e che hanno lavorato nel Sud. Gente che non è sicura di trovare un ingaggio ma sa che, nei picchi della raccolta, le aziende potrebbero avere bisogno immediato di loro. E così ogni anno – a partire da maggio – centinaia di braccianti stranieri arrivano nella zona, attirati dal passaparola tra connazionali. Si dividono in tre categorie: persone appena arrivate in possesso di permesso umanitario; lavoratori ricacciati nelle campagne dalla crisi, magari ieri operai in fabbrica e oggi braccianti per necessità. Infine i professionisti delle raccolte agricole, impegnati in un circuito stagionale da un angolo all’altro della Penisola. Questa categoria sta diventando sempre più “europea”, perché in tanti cercano lavoro in Francia e soprattutto in Spagna. Ma poi sono costretti a tornare in Italia per il rinnovo dei documenti.

Due maliani, per esempio, mi dicono di essere stati nei Paesi Baschi, parlano già spagnolo e sono soddisfatti delle condizioni di lavoro che hanno trovato. Ma sono bloccati in Italia, costretti a tornare per seguire le pratiche dei ricorsi ai Tribunali o dei rinnovi dei permessi nelle questure più improbabili, dall’Abruzzo alla Calabria. In pratica, quando sono sbarcati li hanno trasferiti negli hotspot, grandi centri di smistamento e poi nei centri di accoglienza di tutta Italia. Qui hanno fatto richiesta d’asilo e sono rimasti incastrati alla Questura di competenza.

A luglio, stanchi di aspettare un posto letto sotto i frequenti temporali, un gruppo di africani ha manifestato per chiedere l’apertura di un capannone che rimaneva chiuso di fronte al Pas. Dopo qualche settimana, la Questura individuava i promotori della manifestazione. Cinque africani hanno ricevuto un foglio di via obbligatorio. Uno di loro si è visto notificare un provvedimento di espulsione.

Chi oserà protestare, la prossima volta, se a una richiesta legittima si risponde con provvedimenti di polizia?

Momo

«Me ne servono subito altri quattro. Fai in fretta. Tra dieci minuti passo con il furgone a prenderli». Lo scorso maggio la Procura di Cuneo avviava l’operazione Momo, un vero spartiacque in un territorio in cui si negava l’esistenza del caporalato (“Non siamo a Rosarno”, dicevano in tanti).

«L’inchiesta dimostra che il fenomeno nella zona è consolidato», dichiarava in conferenza stampa il procuratore Onelio Dodero. Un giro di braccianti contattati via telefono o chat di Whatsapp, con l’ordine di presentarsi al lavoro dopo pochi minuti. Anche di notte.

Il bilancio finale racconta di diciannove lavoratori schiavizzati, tre fermati, due imprenditori italiani coinvolti. Cinque euro di paga oraria, da cui sottrarre i costi per il caporale e quelli per vitto e alloggio. Sette giorni su sette e fino a dieci ore al giorno, senza protezioni nonostante il lavoro con i muletti nei magazzini e i pesticidi nei campi.

A chiusura di ogni finto contratto regolare ai lavoratori venivano versati 50 euro, da restituire con l’ingaggio successivo. In caso di controlli, venivano consegnati “pizzini” per mentire su ore lavorate e giorni di assunzione.

Da allora i controlli si sono intensificati, fino all’ultimo datato 27 settembre. Da Saluzzo a Revello, durante i controlli in 40 aziende, i carabinieri hanno trovato quattro braccianti africani che lavoravano senza un regolare contratto. Uno di questi, irregolare, ha mostrato un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro intestato a un suo connazionale, in quel momento assente. Sotterfugi dei padroni cose che di solito si vedono al Sud. Ma quando la filiera ha la stessa struttura, quando il potere dell’economia sugli esseri umani prevale, uguali sono anche le conseguenze.

da qui

Quell’umanità perduta nella “guerra” ai migranti – Maurizio Ambrosini

Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta. Avremmo invece bisogno di tornare a un mondo in cui accogliere persone e sostenere chi chiede aiuto è solo un’espressione di umanità.

Le conseguenze del caso Sea Watch

Il Parlamento sta per pronunciarsi sul caso Matteo Salvini-Sea Watch e si sa già come andrà a finire. Ma è l’occasione per una riflessione sul rapporto tra azione umanitaria e radicalizzazione politica sul fronte controverso dell’asilo.
In questi giorni, Salvini ha rivendicato i meriti della sua gestione, in termini di quasi azzeramento degli sbarchi e delle morti in mare. In realtà, il crollo degli arrivi deriva principalmente dagli accordi con governo e milizie libiche dell’esecutivo Gentiloni-Minniti. Il ministro dell’Interno del governo Conte ha solo completato l’opera, facendo dell’Italia un paese che di fatto si sottrae sia al diritto di asilo sancito dalla Costituzione, sia a consentire lo sbarco delle persone tratte in salvo, minorenni compresi, come prevede il diritto del mare. La confusione tra rifugiati, migranti economici, clandestini, tutti etichettati come spensierati turisti in viaggio di piacere nel Mediterraneo (“la pacchia è finita”, secondo i tweet di Salvini), è un tratto consolidato della comunicazione governativa sull’argomento. Si può obiettare che qualche micro-sbarco di tunisini continua ad avvenire, che l’inverno già di per sé riduce al minimo gli attraversamenti del mare con mezzi inadatti, ma il quadro non cambia: ha vinto la disumanità. Resta da vedere se questa politica ha migliorato la vita dei cittadini italiani, se ha promosso l’immagine del nostro paese sul piano internazionale. Se ha fatto dell’Italia un paese migliore.
Nel frattempo, la Sea Watch è stata scagionata dalle varie accuse che le erano state rivolte, con sollievo di molti simpatizzanti, malgrado l’aggiunta che siano invece riscontrabili irregolarità amministrative: in sostanza, dubbi sull’idoneità dell’imbarcazione a effettuare operazioni di salvataggio in mare. Il punto richiama però un inquietante scenario complessivo: ormai ogni operazione di salvataggio in mare è oggetto non solo di aspre polemiche politiche, ma anche di approfondite indagini da parte delle autorità inquirenti, con tanto di interrogatori degli equipaggi e dei migranti tratti in salvo, minorenni compresi.
Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta, di cui si analizza con acribia degna di miglior causa la scelta di intervenire al posto delle autorità libiche, di dirigersi verso i porti italiani anziché tunisini o maltesi, di trarre in salvo le persone anche se non si è perfettamente attrezzati per farlo. Senza tralasciare la pioggia di accuse preventive da parte di diversi esponenti governativi, non solo il solito Salvini, spacciate subito come certezza che la Sea Watch avesse commesso gravi irregolarità.
È uno spettacolo mai visto prima in un paese a ordinamento liberale. Salvare migranti e richiedenti asilo è diventato un attacco alla sicurezza e alla sovranità nazionale, mentre chi chiude i porti e tiene persone inermi bloccate a bordo per giorni, minorenni compresi, si presenta come difensore della patria: come se fosse in gioco la sicurezza della nazione rispetto a un’invasione nemica. Il fatto che le accuse cadano poi una dopo l’altra, senza neppure arrivare (almeno finora) al dibattimento in aula, ne conferma la loro natura pregiudiziale e politicizzata.
Assistiamo a una pericolosa politicizzazione della solidarietà. Che ha come logica conseguenza gli striscioni appesi in più occasioni da estremisti di destra di fronte a sedi della Caritas per attaccarne polemicamente l’impegno nell’accoglienza. A quanto pare, servire pasti caldi, organizzare corsi di italiano, mettere a disposizione docce e posti letto appaiono gesti eversivi o quanto meno forme di disobbedienza politica all’autorità statale.
Avremmo invece bisogno di fissare un punto, solennemente affermato dalla Corte costituzionale francese in una storica sentenza del luglio scorso: il principio di fraternità vieta di criminalizzare la solidarietà con i migranti, quale che sia il loro status giuridico. Fornire aiuto su basi umanitarie è una scelta che lo stato non può perseguire.

Le risposte informali

Anche sul fronte opposto avviene un’evoluzione significativa. Quello che chiamavano “l’umanitario” non è mai piaciuto alla gran parte degli intellettuali critici e agli attivisti pro-rifugiati più radicali. Così come non piaceva il volontariato: deboli interventi riparativi che non mettevano in discussione le ingiustizie del sistema. Oggi li vediamo invece schierati in difesa delle Ong, con lo stesso piglio assertivo delle condanne di ieri, così come vediamo gruppi di attivisti impegnarsi in azioni concrete di aiuto, dai corsi di italiano alla fornitura di pasti, che altri definirebbero con il vecchio termine “volontariato”.
Tra l’altro, il decreto sicurezza, producendo un aumento delle persone prive di protezione legale, accrescerà l’esigenza di interventi di aiuto. Le persone comunque rimangono. Hanno un corpo e cercano delle risposte ai loro bisogni. Se mancano le risposte istituzionali, sorgono quelle informali. Si pensi per esempio alla tendopoli romana del centro Baobab, che il governo ha sgomberato nei mesi scorsi. Chi crede che gli immigrati privati del diritto di asilo finiscano per cedere e tornare mestamente in patria, da sconfitti, dimostra di non conoscerli. Rimarranno, più disperati, arrabbiati, depressi. Quindi, più problematici per la società. Ben vengano dunque le iniziative che cercano di far fronte all’emergenza annunciata: in un momento come questo, tutte le energie che promuovono un supplemento di apertura e di accoglienza sono da salutare con favore.
Forse, però, avremmo bisogno di tornare a un mondo normale, in cui salvare vite, accogliere persone, sostenere chi chiede aiuto, non sia un gesto né di destra né di sinistra, ma soltanto un’espressione di umanità.

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Se la sinistra attacca la sinistra – Maurizio Ambrosini

È interessante che per attaccare una sinistra già in difficoltà i grandi commentatori se la prendano con l’apertura e la solidarietà verso gli immigrati. Colgono un argomento che più di altri può trovare consenso e spaccare ancora di più una sinistra incerta e divisa

 C’è un genere letterario che va di moda di questi tempi: sparare sulla sinistra e sui suoi errori. Il gioco funziona ancora meglio se a farlo è qualche intellettuale o comunicatore che può vantare un curriculum una qualche militanza a sinistra, sottraendosi all’accusa di parzialità ideologica.

Naturalmente uno degli argomenti preferiti dai neo-fustigatori della sinistra in declino è l’immigrazione, con la contrapposizione tra ultimi e penultimi, tra poveri italiani e poverissimi immigrati. Sono di questo tenore gli argomenti sviluppati dal noto giornalista Federico Rampini nel suo recente libro La notte della sinistra, e ripresi con grandi elogi da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Le due illustri penne del giornalismo italiano convergono su alcuni dei più inossidabili luoghi comuni della xenofobia di sinistra, o sedicente tale.

Il primo è l’idea che i lavoratori nazionali fragili subiscano la concorrenza degli immigrati arrivati clandestinamente, e che il problema sia un’immigrazione senza controllo. In realtà, a essere senza controllo non sono i modesti ingressi dall’Africa (circa 350.000 persone tra rifugiati e richiedenti asilo su circa sei milioni di immigrati, irregolari compresi), ma eventualmente le migrazioni interne all’Ue. Dalla Romania o dalla Bulgaria chiunque può entrare in Italia senza bisogno di permessi e mettersi a cercare lavoro, regolare o in nero. Nel Regno Unito l’hanno intuito e hanno cercato di porvi rimedio con la Brexit, ma non è neppure detto che ci riescano.

Riprendendo il vecchio cliché dell’esercito industriale di riserva, i due giornalisti accusano la sinistra di aver assecondato la fame di braccia da sfruttare del capitalismo più spietato. In realtà sono le chiusure formalmente rigide delle frontiere a creare le condizioni dell’immigrazione irregolare, che poi si trova a lavorare in nero. Senza contare il fatto che in buona parte, forse in prevalenza stando alle sanatorie, gli immigrati non autorizzati trovano lavoro non nei campi o nei cantieri edili, ma nelle famiglie italiane.

In terzo luogo, Rampini e Cazzullo rivalutano il noto slogan salviniano «aiutiamoli a casa loro», citando il drenaggio dei medici africani a vantaggio della sanità britannica. Ne concludono che l’emigrazione è dannosa per i Paesi di origine. Qui bisogna distinguere: il brain drain esiste, e ci ricorda che le migrazioni sono di tanti tipi diversi. Le persone che in patria hanno lavori e salari inadeguati partono nella speranza di migliorare le condizioni di vita della propria famiglia. Di fatto i migranti aiutano casa loro in modo pervasivo grazie al denaro che mandano alle famiglie in patria: 642 miliardi di dollari nel 2018 secondo le stime della Banca mondiale. Un fenomeno che supera di gran lunga il valore degli aiuti pubblici allo sviluppo. Inoltre l’immigrazione in Italia come in Europa è prevalentemente europea (e femminile), non proviene dai Paesi più poveri del mondo, non riguarda i più poveri dei Paesi di provenienza.

È interessante che per attaccare una sinistra già in difficoltà i grandi commentatori se la prendano con l’apertura e la solidarietà verso gli immigrati. Colgono un argomento che più di altri può trovare consenso e spaccare ancora di più una sinistra incerta e divisa. Un serio esame di sociologia delle migrazioni però non lo passerebbero.

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Migranti. La strategia dei «porti chiusi» non ha ridotto partenze e morti – Michele Cantarella

Uno studio dimostra l’inefficacia della politica di deterrenza nel Mediterraneo. I costi «umani» da Minniti a Salvini

Migranti riportati riportati a terra dalla Guardia costiera libica dopo il naufragio del gommone su cui tentavano la traversata del Mediterraneo (LaPresse)

Nel corso degli ultimi anni, guerre e disordini in Medio Oriente e Africa hanno generato un flusso di rifugiati verso l’Europa d’intensità senza precedenti, molti dei quali hanno tentato di raggiungere le nostre coste attraversando il Mediterraneo: percorrendo le tre tratte, in ordine di intensità, del Mediterraneo centrale, verso Italia e Malta, occidentale, verso la Spagna, ed infine orientale, verso Grecia e Cipro. Questo è ben lungi dall’essere un viaggio sicuro, come testimoniato dalle innumerevoli e ininterrotte tragedie in mare. L’attraversamento del Mediterraneo, infatti, non è solo il modo più veloce per raggiungere le coste europee (spesso è necessario meno di un giorno di navigazione per raggiungere la destinazione) ma, per molti richiedenti asilo, questa è spesso anche l’unica alternativa.

In effetti, l’evoluzione della crisi di profughi e migranti in un disastro umanitario ha dominato il discorso politico e creato non pochi attriti tra gli Stati membri dell’Ue (e all’interno dei Paesi: basti pensare allo scambio di accuse sui dati degli ultimi sbarchi tra l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese e il suo predecessore Salvini). Mentre le Ong hanno tentato di sopperire con mezzi propri alle mancanze nazionali ed intergovernative, gli Stati membri dell’area mediterranea si sono trovati ad affrontare, per lo più da soli, un problema a cui linee di pensiero diverse hanno dato risposte contrastanti: da un lato, abbiamo l’approccio idealista, a difesa dell’obbligo morale al soccorso; dall’altro, un approccio, che si potrebbe definire realista, a sostegno della tesi per cui la riduzione dei soccorsi ridurrebbe gli sbarchi e, di riflesso, anche le morti.

La commistione tra quest’ultima tesi e le piattaforme politiche del campo ‘populista’ è nota a tutti: difficile dimenticare l’accostamento di Luigi Di Maio delle Ong a ‘taxi del mare’, e le critiche ai salvataggi stessi incarnate nell’hashtag #Portichiusi promosso dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Era quindi quasi scontato che, sin dal suo insediamento, il governo Conte I avrebbe promosso politiche migratorie che possiamo tranquillamente definire di deterrenza al soccorso, ostacolando attivamente le attività delle Ong nel Mediterraneo centrale e limitando le operazioni della Guardia costiera in tema di salvataggi.

Le policy precedenti, promosse dal ministro Minniti, avevano affrontato il tema migrazione in maniera diversa: obiettivo era ostruire i flussi migratori via terra direttamente in Libia, mentre la presenza di Ong, dopo un avvio infelicemente polemico e dirigista, era stata più regolamentata che apertamente ostacolata. Giorno dopo giorno l’opinione pubblica viene però a conoscenza dei lati oscuri e immorali di tale strategia, continuata da Salvini, come ‘Avvenire’ ha documentato con gli articoli sul negoziato tra l’Italia e il trafficante libico Bija. Qui ci concentreremo, però, sull’efficacia delle strategie di ‘deterrenza al soccorso’. Queste hanno raggiunto il loro obiettivo prefisso? E, soprattutto, qual è stato il loro costo in termini di vite umane, e su quali basi empiriche si legittima questo approccio ‘realista’? Politiche come quelle dei ‘#Portichiusi’ si basano infatti su un’assunzione semplice, comunicativamente efficace, di natura economico-comportamentale: se si interrompono i soccorsi, la mortalità per rotta aumenta, e la crescita del rischio di attraversamento complicherebbe le cose ai trafficanti perché indurrebbe meno migranti a tentare l’attraversamento.

Dati alla mano, però, questa teoria fa acqua da tutte le parti. Innanzitutto, alcuni studi, come quello di Cusumano e Villa (‘A Pull Factor of Irregular Migration? Migrant Rescue NGOs and Seaborne Mobility across the Central Mediterranean’), hanno già affrontato il problema in termini di arrivi, mostrando come i flussi migratori si siano ridotti, e di gran lunga, più durante la reggenza di Minniti che nell’’era Salvini’. È possibile, tuttavia, che tali cambiamenti siano dovuti a ‘shock’ indipendenti dalle politiche mi- gratorie stesse, e per questo si può notare una crescita del numero totale di tentativi di attraversamento nel Mediterraneo Centrale in relazione alle altre rotte migratorie, controllando solo per quei migranti per cui l’attraversamento è possibile verso tutte e tre le rotte (si veda il primo grafico). Il paragone con le altre rotte è possibile dato che nella finestra di studio (gennaio 2017 – giugno 2019) né Spagna né Grecia, né i Paesi da cui gli attraversamenti hanno inizio, hanno modificato in modo rilevante le proprie politiche migratorie. In questo contesto, l’impatto maggiore sembra essere stato causato dalle pur discutibli politiche di Minniti, piuttosto che da quelle di Salvini.

Le politiche di Salvini potrebbero avere senso solo comparativamente all’incremento nella tratta occidentale, ma è difficile credere che l’effetto di dislocazione sia stato immediato, quanto piuttosto dovuto all’ostruzione dei flussi in Libia dovuta alle politiche di Minniti. In questo caso, controllando poi per effetti stagionali ed altri fattori esogeni come le condizioni del mare, l’effetto sul numero di tentativi al giorno si riduce di molto e diventa presto poco significativo da un punto di vista statistico. Sommando, infine, i flussi verso Spagna e Italia, e confrontandoli con quelli verso la Grecia, non si registra alcuna variazione significativa (se non alcuni effetti stagionali) nei flussi migratori nell’una e nell’altra area, indicando non solo che le politiche di Salvini non hanno avuto effetti particolarmente significativi sul numero di tentativi di migrazione, ma anche che l’esperienza Minniti ha in buona parte portato a una rilocazione dei flussi verso la Spagna, piuttosto che a un’interruzione netta degli stessi. Sul profilo della mortalità in mare, tuttavia, il quadro è ancora più cupo. Da quando il governo Conte I si è insediato, la mortalità è aumentata non solo in termini relativi, ma assoluti, un risultato sconcertante se si considera come i flussi giornalieri siano diminuiti, se non rimasti invariati (si veda il secondo grafico).

Controllando poi per il numero di sbarchi, le condizioni del mare, e altri fattori esogeni, si può escludere che questi cambiamenti siano frutto del caso. In numeri, si parla di un incremento di almeno 4 morti al giorno, indicando una crescita del tasso di mortalità del 7,5%, in media. Resta da chiedersi se le tragedie in mare, in sé, possano influenzare il numero di sbarchi in futuro. Vale a dire: una volta che migranti e trafficanti vengono a conoscenza di un naufragio, è possibile individuare un effetto di deterrenza? In realtà, una volta controllato per la correlazione tra mortalità e flussi migratori, anche la teoria alla base della deterrenza al soccorso cede miseramente: se, a un giorno dall’annuncio, gli sbarchi si riducono di 1,45 individui, questo effetto viene interamente riassorbito nei giorni successivi. Le partenze, in media, non vengono interrotte, ma solo rimandate.

Questi risultati suggeriscono non solo che #Portichiusi abbia avuto un costo rilevante in termini di vite umane, ma soprattutto come le sue assunzioni di fondo sono sbagliate: i rifugiati o sono troppo disperati per tenere conto del rischio di morte nel corso dell’attraversamento, o più semplicemente hanno poca se non nessuna scelta nel proseguire o meno la tratta. Anche per le terribili condizioni di detenzione in Libia a causa del ‘tappo’ dei movimenti terrestri di cui qui ci siamo occupati. In ogni caso, affermare che interrompere i salvataggi ha impedito e impedirà future morti in mare è una sciocchezza. L’errore di base, per malizia o per ingenuità, sta nell’assumere che i rifugiati siano semplici ‘migranti economici’, la cui decisione di migrare nasce solo dalla ricerca di opportunità economiche migliori. Purtroppo non lo sono.

Ricercatore di Economia all’Università di Modena e Reggio Emilia

(Questo articolo riassume il paper «#Portichiusi: the human costs of migrant deterrence in the Mediterranean»)

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Perché non ospito i migranti a casa mia – Francesco Oggiano

È l’ultimo appiglio di chi è a corto di punti fermi, il colpo sbracciato di chi non ha più fiato: “Perché non li ospiti a casa tua?”. È lo slancio finale di chi ha esaurito tutte le argomentazioni farlocche e sa di stare finendo imbrigliato in quelle sensate dell’interlocutore. Quando finiscono i vari “portano le malattie” e “stanno benissimo” (frasi in leggera contraddizione tra loro); quando passano inoffensivi i vari “ci portano via il lavoro” e “non hanno voglia di fare niente” (in contraddizione anch’esse); quando persino i “ci stanno invadendo” e i “lasciamoli in mare” non fanno effetto, ecco spuntare la domanda intesa come risolutiva: “Perché non li ospiti a casa tua?”.

L’avrete sentita o letta anche voi: a cena dov’era presente un amico “sovranista”; come commento su Facebook quasi ogni volta che qualcuno osa analizzare la vicenda dei migranti e delle Ong; come tweet del ministro dell’Interno italiano. Matteo Salvini, particolarmente affezionato all’idiota domanda, qualche giorno fa l’ha posta indirettamente nei confronti di Luciana Littizzetto, che aveva lanciato un appello per i migranti a bordo della Open Arms: “Secondo voi quanti ne ospiterà a casa sua?”. La domanda ha avuto un risvolto prima comico (la Littizzetto, ricoperta da migliaia di insulti, è madre adottiva di due ragazzi, Vanessa e Giordan), poi gravissimo (la comica è stata ricoperta di insulti e minacce) e ha richiesto, per l’ennesima volta, una risposta.

Non li ospito a casa mia perché pago le tasse. Tasse che servono a pagare persone e strutture dedicate all’accoglienza dei migranti.

Perché la gestione dell’immigrazione è una faccenda seria per cui servono le migliori competenze e le menti più affinate. Non è mica un affare che si risolve negli scantinati di casa.

Perché come ricorda un uomo di chiesa come il monsignor Nunzio Galantino, “per queste persone serve altro e meglio di quello che so fare io, servono pratiche e organizzazioni che sappiano affrontare le necessità di salute, prosecuzione del viaggio, integrazione, lavoro, ricerca di soluzioni”.

Non li ospito a casa mia perché rispetto il patto sociale: io onoro i miei doveri. In cambio, pretendo che lo Stato si occupi di quel che gli compete: istruzione, sanità, sicurezza, infrastrutture…

Non li ospito perché, come ha detto bene Cecilia Strada, non mi sognerei mai allestire una sala operatoria in cucina quando un mio parente sta male, di costruire una scuola in ripostiglio per dare un’istruzione ai miei figli, di comprare un autobotte per spegnere un incendio.

Non li ospito a casa mia per lo stesso motivo per cui i sovranisti che chiedono più sicurezza non fanno le notti di pattuglia; per cui quelli che dicono “prima gli italiani” non danno parte dei loro soldi ai compaesani più indigenti; e quelli che dicono “prima i terremotati italiani” non ospitano in casa loro i terremotati italiani.

Perché c’è uno Stato che forma poliziotti, gestisce galere, combatte povertà e costruisce centri d’accoglienza. Coi nostri soldi. Eccola, la risposta alla domanda più idiota del decennio.

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Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

2 commenti

  • sergio falcone

    Da casa (Roma), 30 ottobre 2019

    L’odissea dei migranti continua, con tutto il suo carico di dolore e di morte. La Via Crucis degli ultimi.

    Ieri sera, come faccio abitualmente, stavo inviando le mie segnalazioni agli amici e a chi me lo chiede. E mi è capitato un articolo pubblicato da Avvenire:

    Migranti. Un gommone disperso. Avvistato da Moonbird, nessuno ha coordinato i soccorsi
    Ilaria Solaini, inviata a bordo della Ocean Viking martedì 29 ottobre 2019
    A bordo 15-20 persone, soltanto la nave di Open Arms inverte la rotta per trovarle. Le centrali di Malta e Italia non rispondono. La cosiddetta Guardia costiera libica: il maltempo impedisce di uscire

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/gommone-moonbird-open-arms

    E un video de la Repubblica:

    Migranti, gommone davanti alla Libia. Open Arms: “E’ un crimine che nessuno intervenga”.
    https://youtu.be/WaXlgs8FuSk

    Tutto questo avveniva tra le ore 18 e le 19.

    Alle 23:36, un’amica si affretta a comunicarmi che “Oggi quei migranti in avaria io e te li abbiamo salvati dalla morte! Io ho postato subito il video e Cecilia Sarti Strada ha mandato dei soccorsi. Si sono salvati grazie a noi!”.

    Il messaggio WhatsApp l’ho letto attorno all’una. Ero crollato a dormire sul divano per la stanchezza. Confesso di essere rimasto incredulo per un po’, ma la vicenda si è svolta proprio come mi veniva raccontato. In un contesto come quello che viviamo, ogni sforzo individuale, se pur di piccola entità e del tutto anonimo, e’ importante e può salvare degli innocenti.

    Chi fosse interessato a ricevere notizie via WhatsApp, può inviare il suo numero telefonico al 3457858916. Sarà prontamente inserito nell’indirizzario. Dopo quello che è successo, non credo che sia inopportuno concludere con questo invito.

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