L’esperienza delle cose che declina la condizione umana

     Intorno a «L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil» di Eugenio Borgna

di Riccardo Mazzeo (*)

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Nel suo ultimo libro, «L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil» (Feltrinelli) Eugenio Borgna – il principe della gentilezza, della sensibilità e della capacità poetica di entrare in sintonia con la “sragione”, che è soltanto l’altra faccia della ragione e spesso depositaria ancor più attendibile della sua verità profonda – ricorda Karl Jaspers, psichiatra e filosofo che raccomandava agli psichiatri, ancor più dei testi specifici della disciplina, la lettura dei grandi romanzi per aumentare le proprie capacità di comprensione del mistero di ogni malato e di rivestire per lui un ruolo benefico.

A mio avviso Eugenio Borgna è forse il più grande e certo il più nobile esperto di salute mentale ma non è l’unico a considerare la letteratura una risorsa per chi si occupi di sofferenza psichica: in un libro che ha venduto più di 300.000 copie, senza essere stato scritto da Stephen King, cioè «Counseling centrato sulla persona» (Erickson, 2006) i due psicoterapeuti rogersiani Dave Mearns e Brian Thorne mostrano con assoluta evidenza quanto la facoltà di psicologia sia più incline a disabilitare che ad abilitare i futuri psicologi rispetto ai compiti che li attendono: i test, le diagnosi sulla base del DSM-5, le “competenze” scientifiche acquisite possono essere utili a patto di non ingegnerizzarsi, di non cementificarsi, reificarsi, annullarsi in una serie di operazioni che annegano nell’acquitrino del “fare” le istanze fragili e vitali del “sentire” e del “con-sentire”. L’autore ci lancia un monito rispetto a «quelle psichiatrie descrittive e astratte che non farebbero se non classificare, catalogare e fare confluire in una delle loro straripanti e infinite formulazioni diagnostiche modi di vivere e modi di essere di creature eccezionali, come lo è stata Simone Weil, ignorando gli sconfinamenti continui, che ci sono in noi, dalla normalità alla sofferenza psichica, e da questa a quella».

Simone Weil giovanissima insegna filosofia nei licei ma d’un tratto sente di dover toccare con mano la condizione dei diseredati che lavorano nelle fabbriche e per molti mesi decide di lasciare l’insegnamento per consegnarsi proprio a quel lavoro, che non solo la sfibra anche a causa dei suoi ricorrenti mal di testa, ma le fa comprendere come la trasformazione delle persone in bestie da soma finisca per inibire finanche la capacità di pensare. Lei vuole agostinianamente capire. Come Borgna. E lo fa calandosi in declinazioni della condizione umana che la fanno con-sonare con i suoi simili. Per questo diventerà una rappresentante sindacale e per la stessa ragione parteciperà alla Guerra di Spagna e in seguito cercherà di farsi paracadutare nella Francia occupata dai nazisti per combattere.

Certo la vita di Simone Weil è attraversata atrocemente da un malheur che non verrà mai meno e che induce Borgna ad apparentarla ad altri grandi geniali sofferenti come il Leopardi dello «Zibaldone», il Nietzsche de «La gaia scienza», la Emily Dickinson dei versi «C’è un dolore – talmente assoluto – che ti risucchia l’essere», l’eternamente amato Rainer Maria Rilke secondo cui il dolore «riconduce nell’interiorità l’esteriorità della nostra esperienza delle cose». Ma il dolore, anche quando come per Simone Weil spinge sulla soglia del suicidio e imprigiona nel corsetto cosparso di aculei dell’anoressia, è parte integrante del nostro essere persone e per lei – che secondo Ingeborg Bachmann era cresciuta in una famiglia simile a quella di Proust, con un fratello ingombrante da amare e invidiare – fu il fomite delle sue contraddizioni e della sua bruciante creatività che la fecero morire a trentaquattro anni e che le permisero di lasciarci una testimonianza della molteplicità incandescente e della caotica lirica bellezza della sua vita e potenzialmente di ogni vita.

(*) Grazie alla cortesia dell’autore, riprendo questo articolo uscito sul quotidiano «il manifesto». (db)

 

 

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