Il processo infinito contro Julian Assange

Lunedì 7 settembre, alle 18.30, appuntamento davanti al Consolato britannico di Milano. Riprendiamo un articolo del Manifesto e un’intervista del Fatto.

 

Presidio a Milano per la libertà di Julian AssangeCristina Mirra

Il 7 settembre, a Londra, riprenderà la serie di udienze processuali in cui verrà dibattuta la richiesta di estradizione emanata dagli Stati Uniti d’America contro il giornalista e cofondatore di WikiLeaks, Julian Assange, attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh.

Assange, le cui condizioni fisiche e mentali sono da considerarsi critiche, rischia fino a 175 anni di carcere per avere rispettato il nostro diritto all’informazione in modo consapevole e coraggioso. Proprio mentre gli stessi Stati Uniti, che lo accusano di spionaggio e di aver diffuso informazioni classificate, non si stanno segnalando come un Paese esattamente democratico. E questo è sotto gli occhi di tutti.

Chiedere la libertà di Assange significa difendere la nostra libertà.

Ritroviamoci lunedì 7 settembre 2020, alle ore 18.30, in piazza del Liberty davanti al Consolato britannico di Milano.

https://facebook.com/events/s/presidio-a-milano-per-la-liber/604070116948783/

 

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La corona di ferro: Assange al tribunale della ReginaVincenzo Vita

Ri-mediamo. Il prossimo 7 di settembre entrerà nel vivo il processo contro Julian Assange presso l’Old Bailey Court della prigione di massima sicurezza di Belmarsh, in cui è detenuto il fondatore di WikiLeaks. È urgente una mobilitazione civile per Assange. Forse è un personaggio difficile, ma va difeso strenuamente. Perché se perde lui, perde la libertà di informazione

 

Il prossimo 7 di settembre entrerà nel vivo il processo contro Julian Assange presso l’Old Bailey Court della prigione di massima sicurezza di Belmarsh, in cui è detenuto il fondatore di WikiLeaks.

Il dibattimento riguarda la richiesta di estradizione richiesta dagli Stati uniti (quella della Svezia è caduta per strada), che intendono a loro volta mettere sul banco degli imputati il coraggioso disvelatore di tanti possibili crimini di guerra, nonché di zone buie e indicibili del potere.

Il rischio serissimo che corre il giornalista australiano è di essere condannato a qualcosa come 175 anni di carcere duro, pena comminata eventualmente dal tribunale «dello spionaggio» dell’East Virginia, dove – per questioni territoriali e logistiche- la giuria popolare è composta per l’85% da giurati legati a Cia, Fbi, pentagono, home security.

È il primo grado di giudizio quello in corso. Seguiranno gli ulteriori gradi e certamente verrà adita la corte europea dei diritti dell’uomo, cui gli avvocati ricorreranno.

Nel frattempo, se il corpo assai provato del «presunto colpevole» cedesse? Speriamo, ovviamente, di no. Tuttavia, a pensar male in questo caso non si fa peccato, anzi si conquistano crediti per il paradiso.

Già, dieci anni di detenzione, tra segregazione nell’ambasciata dell’Ecuador (con tanto di microspie gentilmente offerte da qualche responsabile della sicurezza all’amico americano) e carcere speciale logorerebbero un superman. Naturalmente, una detenzione avvolta dal segreto, come d’uso anche nei paesi più o meno democratici quando si tratta di terrorismo o spionaggio.

Ecco il punto, che rende la terribile vicenda emblematica di qualcosa di grave e pericoloso che sta accadendo sulla libertà di stampa. Il punto di riferimento del vasto gruppo di attivisti di WikiLeaks non gode delle prerogative riconosciute ad un giornalista di inchiesta, ma è classificato come informatore di paesi stranieri. Secondo una vecchissima legge di guerra.

Nel mirino c’è proprio Assange, capro espiatorio designato, a differenza dei prestigiosi quotidiani che ne hanno pubblicato le rivelazioni (New York Times, Guardian, Spiegel). Colpirne uno per educarne cento, mille? Chi ha portato alla luce i misfatti degli Stati uniti in Afghanistan, in Iraq, a Guantanamo o i cablo compromettenti dai quali emerge l’attività di sorveglianza persino dei e sui leader dei paesi alleati è colpevole, mentre i veri colpevoli sono innocenti? Magari in giro per il mondo a tenere conferenze ben remunerate?

700.000 documenti, di cui ha parlato con cura l’infaticabile giornalista Stefania Maurizi, sono la prova provata di misfatti atroci. Anzi. Testimoniano la crudeltà di un imperialismo un po’ ammaccato e comunque crudele. Se c’è una giustizia, questa dovrebbe occuparsi di Blair, Sarkozy, Bush jr, innanzitutto. E la filiera è lunga. Non basta neppure l’inferno, probabilmente.

Il caso, dunque, evoca un problema generale e segna una fase storica, in cui la buona informazione indipendente e non omologata è un rischio vero. Beata la stagione che non ha bisogno di eroi, si direbbe. Purtroppo, oggi diventare eroine o eroi sembra quasi una necessità.

È urgente una mobilitazione civile per Assange. Forse è un personaggio difficile, ma va difeso strenuamente. Perché se perde lui, perde la libertà di informazione.

Non a caso si sono espressi la federazione internazionale dei giornalisti, quella italiana, l’associazione «Articolo21». Lo stesso inviato speciale delle Nazioni unite (nette nel 2015 contro la detenzione) contro la tortura Nils Melzer si è mostrato molto preoccupato e ha denunciato le gravi responsabilità dei diversi paesi implicati: Stati uniti, Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador.

In fondo, la sgradevole storia è una sorta di autobiografia di un processo post-democratico nell’era post-democratica.

Attenzione a sottovalutare ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi.

Sarebbe augurabile un’iniziativa nei parlamenti italiano ed europeo, con risoluzioni volte a chiedere conto in base alle stesse leggi e convenzioni internazionali.

Tira una brutta aria, dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Slovacchia, da Malta, dalla Russia e, udite udite, dalla nobile terra della Regina.

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“Se Londra fa estradare Assange sarà la fine della libertà di stampa” – Intervista a Kenneth Roth di Human Rights Watch

(Intervista di Stefania Maurizi)

È il processo che deciderà i confini della libertà di stampa nelle nostre democrazie. Lunedì, a Londra, il dibattimento sull’estradizione negli Stati Uniti del fondatore di WikiLeaks entrerà nel vivo. Il Fatto Quotidiano ha chiesto un’analisi a Kenneth Roth, direttore di Human Rights Watch, una delle più importanti organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani.

Quando l’anno scorso Julian Assange è stato arrestato, lei ha scritto un editoriale per il Guardian sostenendo che ‘il modo in cui le autorità inglesi risponderanno alla richiesta di estradizione degli Usa determinerà quanto è seria la minaccia che questo processo pone alla libertà di stampa in tutto il mondo”. Un anno dopo, è chiaro come rispondono: tengono Julian Assange in un carcere di massima sicurezza da oltre un anno, con il rischio che venga infettato dal Covid. È un trattamento compatibile con la libertà di stampa?

 

 

Rimango dell’opinione che sia completamente sbagliato perseguire Assange per aver semplicemente pubblicato i documenti segreti del governo che gli ha inviato Chelsea Manning. Ed è particolarmente sbagliato usare l’Espionage Act, che non consente una difesa dei whistleblower, quindi se Assange finirà davanti a una Corte negli Stati Uniti, non potrà difendersi dicendo che ha rivelato quei file nel pubblico interesse. Il governo americano – perfino l’Amministrazione Trump – si rende conto della minaccia che pone al giornalismo l’Espionage Act usato contro la pubblicazione di documenti, quindi quello che sta cercando di fare è dipingere Julian Assange come un hacker.

Un esperto di sicurezza informatica e giornalista che non è affatto un suo sostenitore ha analizzato le accuse di hacking e ha concluso che ciò che Assange ha fatto non ha nulla a che vedere con l’hacking: ha assistito Manning nell’accedere ai computer del governo preservando l’anonimato. Noi giornalisti facciamo ogni giorno cose analoghe per proteggere le nostre fonti…

Mi rendo conto: spesso i giornalisti forniscono alle loro fonti dei sistemi per inviare informazioni in modo confidenziale. È la regola, per esempio, nel giornalismo che si occupa di sicurezza nazionale. Il governo americano sostiene che Assange sia andato oltre e abbia aiutato Manning non semplicemente a proteggere la sua identità, ma ad hackerare i computer. Non so se sia vero o meno e mi rendo conto che Assange sostiene di non averlo fatto. Se si dovesse procedere con l’estradizione, è importante che il governo inglese ponga una barriera a difesa della libertà di espressione: non deve dire sì a un’estradizione finalizzata a punire la pubblicazione di documenti segreti o l’aiuto a una fonte giornalistica per proteggerne l’identità.

Le autorità inglesi amano mostrare fair play e hanno nominato Amal Clooney come loro rappresentante per la libertà di stampa. Eppure, nel caso Assange, gli inglesi hanno detenuto arbitrariamente un giornalista per nove anni, come ha stabilito il Working Group (Unwgad) delle Nazioni Unite, e hanno completamente ignorato l’Inviato Speciale Onu contro la Tortura, Nils Melzer, che ha denunciato la tortura psicologica subita da Assange. Come fare affinché l’Inghilterra rispetti le leggi internazionali?

A questo punto la domanda importante che si trovano ad affrontare la Corte e il governo inglesi è se estradare Julian Assange o no. Sono in gioco principi fondamentali come la libertà di espressione e di stampa. Quello che succederà dipende da Londra.

Il dato di fatto più scioccante è che, dopo aver rivelato crimini di guerra e torture degli Usa, Assange non ha mai più conosciuto la libertà, mentre i criminali di guerra e i torturatori esposti da WikiLeaks non hanno passato un solo giorno in prigione. Non è un mondo alla rovescia?

Il governo americano ha un terribile record in materia di punizione dei suoi criminali di guerra. E non solo l’Amministrazione Trump: il problema risale a Obama e Bush. Ho discusso personalmente questo argomento con il presidente Obama: semplicemente non voleva pagare il prezzo politico che comportava il perseguire i torturatori di Bush. Creare questo precedente è pericoloso, perché suggerisce che quei crimini di guerra possono essere commessi di nuovo nell’impunità e indebolisce le regole internazionali, perché per giustificare il fatto che non rispondono dei loro abusi, i dittatori puntano il dito sistematicamente verso il fallimento degli Usa nel punire i loro criminali di guerra.

Se gli Usa possono estradare un giornalista ed editore per aver pubblicato documenti segreti, lei crede che altri Paesi come Arabia Saudita, Egitto, Cina, Russia, proveranno a fare lo stesso, innescando un effetto domino che distruggerà la libertà di stampa?

Tutti i governi che lei ha citato perseguono già ora i giornalisti semplicemente perché li criticano. Non facciamo finta che il governo cinese abbia bisogno di Trump per perseguire i giornalisti. Ma se lui riuscisse a imprigionare Assange, sarebbe una minaccia alla stampa Usa e occidentale.

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Redazione
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