Lettera a un’amica su Calabresi, Pinelli e noi

di Mark Adin

Cara Marghe, è davvero tanto tempo che ti voglio dire delle cose, e mi sono stufato di rimandare. Non è stata la pigrizia la causa del procrastinare, ma una certa affettuosa paura di ferirti. La nostra amicizia non ci ha mai impedito di parlarci apertamente. Uno degli ultimi episodi, occorsi nella tua bella casa, ha riguardato il tagliente libro di Mario Calabresi. L’ho letto la notte stessa che me l’hai dato, d’un fiato. Non tanto perché sia così avvincente e convincente, ma per andare a fondo alla cosa; per cercare se vi fossero ragioni alla mia o alla tua posizione. Bene. L’ho riletto per maggiore sicurezza. Ci ho guardato dentro un po’ meglio, trovando altre cose. Ti dico di queste vicende minime perché ci riguardano; sono un po’ il segnale di una amicizia sincera che a te mi lega. E che mi fa ritenere un’ eventuale diversità di valutazioni non un ostacolo, ma un rafforzamento del mio affetto per la mia Marghe. Vengo al punto: credo che il libro in parola sollevi una giusta questione, ma arrivi a conclusioni sbagliate. Se riuscissimo a leggere con distacco le vicissitudini private e familiari, sulle quali è obiettivamente difficile non partecipare emotivamente poiché il dramma resta crudelmente tale e ingiustificabile, troveremmo delle affermazioni che non posso condividere. La pretesa, secondo cui il movimento che ha squassato gli anni settanta sia stato animato da figli di papà impazziti, autoreferenziati e autolegittimati, è falsa e secondo il grigio linguaggio marxista-frattocchiano è una mistificazione storica. L’unilateralismo del punto di vista di Calabresi è, se pur comprensibile, del tutto evidente.

Una delle sue personali ossessioni risulta quella di vedere accompagnato al nome di suo padre quello di Pinelli. Ma è così ingiustificato? Forse il commissario Calabresi non aveva proceduto personalmente al prelievo di Pinelli? Forse non si trovava nella questura di Milano quando Pinelli “cadde”? Non sto certo affermando che Calabresi sia da ritenere il diretto responsabile, diciamo pure il carnefice, di Pinelli. Probabilmente il responsabile non sarà mai noto con certezza. Ma io so che un innocente è entrato quella sera da una porta ed è uscito da una finestra del quarto piano. So che la polizia fece di tutto per confondere le indagini, dando quattro versioni diverse dell’accaduto, fra le quali la più pittoresca fu certo quella delle tre scarpe. Dunque Calabresi, quando Pinelli volò in cortile, non si trovava nella stanza dell’interrogatorio? Ma da cosa risulta? Da una verità processuale? Ma quale valore può avere una verità processuale accertata in un tale clima di depistaggi, false testimonianze, prove falsificate? Riferite a quegli anni, ho visto verità processuali da fare accapponare la pelle.

Ti stupirà, ma nonostante tutto, sono pronto comunque a credere al fatto che il commissario Calabresi non fosse in quella stanza “già piena di fumo”. Penso infatti che non sia rilevante. Lo è per un figlio, la cui necessità è capire se esiste una responsabilità diretta, ma non per me. Sulla polizia ricade una responsabilità politica e storica che nessuno può cancellare. Un questore, Guida, già cane da guardia degli antifascisti al confino, a cui Pertini rifiutò di stringere la mano, fu testimone e garante di verità falsificate. In quegli anni ci dice la storia e la cronaca di quanto fossero compromessi e schierati i corpi dello Stato… e forse questo si protrae fino ai giorni nostri, nonostante tutto.

Due anni prima dello strazio a Ostia di Pasolini, assassinio che non ha colpevoli certi ancor oggi, Pier Paolo pubblicò uno scritto che sarebbe divenuto una bandiera. Iniziava così:

IO SO.

E continuava, asserendo di conoscere i nomi dei responsabili della strage di Milano del 69, delle stragi di Brescia e Bologna del 1974, degli ideologhi dei golpe, della strategia della tensione…

E proseguiva:

IO SO, MA NON HO LE PROVE.

Ci sono verità che non è necessario provare in un processo, verità che derivano non dall’immaginazione e dalla fantasia ma, nella difficoltà o non volontà di una corte di tribunale di pervenire a una verità giuridica, di una verità storica e politica; una verità che si stabilisce collegando fatti, una verità stabilita “per logica” che non è meno solida di una verità processuale. Quanti delitti politici, nel mondo, non avranno mai una verità processuale?

E’ così importante sapere se Riina ha baciato Andreotti? O non è più importante sapere che la Dc, in Sicilia, ERA la mafia?

Ora, tornando al libro, mi ha colpito il fatto che l’autore, da figlio di un uomo assassinato, in mezzo a quelle pagine fitte, non trovasse anche un po’ di posto per parlare di un’altra vedova, di un’altra madre, che come la sua ha tenuto sempre un profilo basso e dignitosissimo: Licia Pinelli. E delle sue figlie che non hanno avuto notorietà alcuna. Questo silenzio pesante del libro, pur ben scritto e avvincente, richiede una avvertita e sorvegliata lettura. Questo silenzio è, a mio parere, rivelatore di una disperata necessità di allontanare un fantasma, propria di un figlio sconvolto dal dolore, ma non comprensibile in un giornalista del suo talento. Suona tragicamente come un “omissis”.

Venendo poi a Sofri, che gira e rigira aleggia sulla scena, penso questo:

  1. ricordo perfettamente e con grande chiarezza che negli ambienti di Lotta Continua, dopo l’omicidio di Calabresi, girava la voce che l’avessero ammazzato loro. E la voce, oltre che insistita, aveva tutta l’aria di essere uno di quei messaggi che si dovessero puntualmente “far girare”
  2. E’ altresì un fatto che Sofri sia stato condannato sull’unica base della testimonianza, per alcuni versi contraddittoria, di una persona poco attendibile, e senza alcuna prova.
  3. Adriano Sofri è stato oggetto di una campagna a favore della sua liberazione trasversale agli schieramenti politici, non è scappato all’estero, non ha mai richiesto la grazia.

Non so perché Calabresi sia da subito stato indicato come autore dell’omicidio, e forse nessuno ci dirà più se spinse lui Pinelli nel vuoto. Non lo so io e non lo può sapere neppure il giudice o il giornalista. So invece, e lo sa pure il giudice e il giornalista, che dalle bombe di piazza Fontana partì la strategia della tensione e dove ci portò, e so che Luigi Calabresi era un poliziotto che faceva tragicamente parte di quei cosiddetti corpi dello stato e istituzioni che, direttamente o indirettamente, la misero in atto o ne furono strumento. So inoltre che Pino Pinelli era un uomo per bene ed era innocente.

Entrambi furono vittime di quegli eventi, ma per me non saranno mai sullo stesso piano.

E questo intendo continuare a testimoniarlo.

Cara Marghe, in “Spingendo la notte più in là” c’è la descrizione di una terribile esperienza che figli e mogli hanno condiviso, di quelle che Mario Calabresi chiama “le vittime del terrorismo”, e ne cita molte, come la figlia di Antonino Custra, di Luigi Marangoni o il figlio di Emilio Alessandrini, e tanti altri, ma non cita i figli, le mogli, i mariti delle altre vittime del terrorismo: i morti per strage e, non da ultimi, la vedova e le figlie di Giuseppe Pinelli. Il terrorismo, nella penna dell’autore, è sempre e soltanto uno.

Ho tenuto da ultimo l’argomento che ci ha scaldato gli animi e fatto alzare la voce. Dice l’autore:

uccisi perché? Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione, si illudevano di essere spiriti eletti, anime belle votate a una nobile utopia, senza rendersi conto che i veri figli del popolo stavano da un’altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia”

Ho visto che l’hai sottolineato sul testo, ho capito che ti è piaciuta. Bella, sì.

Sai, Marghe, io ho una gran memoria. Ricordo gli anni, ma pure i mesi, i giorni, e per alcuni fatti non esagero se dico anche i minuti.

Ricordo bene anche “antropologicamente” chi erano e come vivevano i “veri figli del popolo”che chiamerò per comodità VFDP. Ne facevo parte a pieno titolo, essendo mio papà operaio tessile e mia mamma casalinga e donna di servizio. Gli anni ’60 furono anni di grandi lotte operaie, le piazze si riempirono di VFDP e fu proprio dietro la spinta di quella classe operaia che il Pci arrivò negli anni successivi al 33%, con Berlinguer e Lama. Non è una storia così lontana, a un paziente ascolto, se ne possono udire ancora le eco. Per fermare l’avanzata delle sinistre e della classe operaia, ad altissima densità di VFDP, qualcuno mise in atto la strategia della tensione, che da quel 12 dicembre 1969 arrivò agli anni successivi. Nelle piazze era normale vedere i fascisti interagire con la polizia a danno dei manifestanti. Ma dire che i VFDP fossero da una parte sola è certamente dire una cosa inesatta. C’erano un sacco di VFDP anche tra i fasci o la pula, e allora? Abbiamo altre banalità da suggerire? E’ invece un fatto dire che nella piazza c’erano forze che rappresentavano la classe operaia, ovvero operaie e operai, sindacalisti, funzionari di partito, intellettuali, e pure studenti, alcuni dei quali non erano VFDP doc.

Nelle file dei fascisti e della polizia che allora li proteggeva, c’erano anche VFDP. E allora? Essi rappresentavano gli interessi di chi andava contro le istanze operaie. La polemica di Pasolini, tirato per la giacchetta, si riferiva con precisione ai fatti di Valle Giulia, dove un nutrito gruppo di studenti universitari si scontrò con la Celere, e nella quale lo scrittore vide un luogo, un topos di una mutazione antropologica, dell’inquinamento di una cultura, proveniente dall’estero, che alterava i connotati dei VFDP. Infatti si riferiva pure ai nuovi tagli di capelli… Ma si riferiva anche all’abisso che stava dividendo i poliziotti figli della residuale, morente cultura agricola del sud, dai figli della civiltà urbana-industriale del nord, con la tanto deprecata perdita di identità, linguaggio, valori. Era questa la sua polemica, do you remember le lucciole? Ma quell’articolo l’ha letto Calabresi, lo ha contestualizzato, lo ha collocato nella coscienza e nell’opera pasoliniana?

Ma chi cazzo era questo “gruppo di esaltati”? Da chi era composto?

Forse abbiamo corso in avanti, forse non siamo più nel 69, forse stiamo parlando degli anni del terrorismo? Ma di quale terrorismo: quello di destra? Quello di sinistra? Quello di Stato?

Mi punge vaghezza che si stia parlando di quello di sinistra. Ah!…

Dunque è lì che si va a parare: è lì che si annidano “le anime belle votate a una nobile utopia”. Forse sarebbe stato meglio specificarlo. Ricordo benissimo che nelle fabbriche, nei collettivi, alle riunioni sindacali, persino nelle sedi del Manifesto, i temi della necessaria difesa dai fascisti e dalle forze dell’ordine era un tema piuttosto sentito. Tutte le organizzazioni politiche importanti avevano un servizio d’ordine. Tutte si ponevano il problema della difesa militare dei cortei, con l’obiettivo dichiarato di contrastare e allontanare le “provocazioni fasciste” e difendersi dalle cariche della polizia per permettere al corteo di disperdersi in sicurezza. Ma si dà il caso che la polizia e i fascisti menavano e sparavano. Sono innumerevoli gli episodi che si possono trovare su insospettabili giornali di quel periodo. Se ne può fare una collezione. Il terrorismo di sinistra, la lotta armata, nacque da lì, da quelle necessità. Ricordo che, non dico il vero e proprio sostegno, ma una certa aquiescenza per le prime azioni dimostrative di attacco, e non solo di difesa, nelle fabbriche e nelle organizzazione della classe operaia espressive, era decisamente presente, checchè se ne dica. E questo lo ricordo bene. Ricordo i fervidi paragoni con la Resistenza.

Fu soltanto dopo l’omicidio di Rossa che, anche nelle grosse fabbriche di Milano, Torino, e ovviamente Genova, che non si parlò più, definitivamente, di “compagni che sbagliano”.

Perdonami queste semplificazioni, certo questi argomenti meritano ben altri approfondimenti, ma tant’è. Ecco comunque svolte alcune delle ragioni che non mi trovano d’accordo con le tesi sostenute da un libro che giudico per troppi versi superficiale e fazioso. Detto questo, da buon VFDP doc quale mi pregio essere, non posso che essere come figlio, solidale emotivamente con una persona che perde il padre in modo così tragico, e neppure avanzo alcuna pretesa che capisca o possa capire: non può.

Ma carissima Marghe, in realtà questa insolita, lunga lettera, ha pure un altro scopo: dirti della mia non disponibilità a partecipare alla campagna per il Pd né a entrare nelle sue fila, né a fiancheggiarlo. Credo che il Maanchismo (la teoria di Veltroni sul “ma anche” cioè tutti dentro) stia diventando eccessivo. E non perché non ci siano tra le sue fila abbastanza VFDP, non perché non li rappresenti in esclusiva, ma semplicemente perché sembra disvelarsi per un contenitore maanchista che non sarà in grado di rappresentare efficacemente le istanze del mondo del lavoro, istanze a cui tengo molto. Credo sia sbagliato rappresentare i lavoratori maanche le imprese, penso sia sbagliato pensare di rappresentare i laici maanche il Vaticano, credo sia stato profondamente sbagliato tagliare fuori la sinistra maanche tenersi i teocom. Credo sia inapplicabile un salario minimo per decreto legge e penso soprattutto che, ammesso e non concesso che possa essere realizzato, indebolirà il sindacato. Penso che i programmi di Pd e Pdl siano pericolosamente simili. Penso che il bipolarismo ammazzi la politica. E penso pure che siamo lontanissimi dagli Stati Uniti. I riferimenti del Valter a Kennedy, Olaf Palme e Willy Brandt li trovo imbarazzanti.

Mi spiace.

Avrei voluto tanto darti una mano, come del resto ho fatto volentieri in altre occasioni, ma questa volta non posso. I care, but I CANNOT.

Ti abbraccio forte e con una amicizia rinnovata, e ti aspetto per una cena alla quale poter dar corso alle chiacchiere.

Un bacio. Mark Adin

 

Redazione
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5 commenti

  • Cosa aggiungere se non che vorrei parlare con Mark Adin e chiedergli come ha fatto a scrivere le stesse cose che scrivo io.Marco Pacifici.

  • Clap Clap Clap!!!

  • Non so chi sei Mark Adin, ma condivido tutto quello che hai scritto. Sono convinta che Calabresi è stato ucciso perchè sapeva quello che è avvenuto in quella stanza e, forse, prima o poi avrebbe parlato. La strage di piazza Fontana ha avuto tante vittime, tra le quali Pinelli e Calabresi che, come dici tu, non metterò mai sullo stesso piano. Il figlio di Calabresi, con questo libro ha avuto molti spazi in cui dire la sua. Spero che prima o poi le figlie di Pinelli scriveranno anche loro un libro sul loro padre per poter avere gli stessi spazi.
    Sofri non mi è mai stato molto simpatico, ma penso che anche lui è una delle vittime della strage.
    I veri colpevoli sono tutti fuori, impuniti e, spesso, protetti. Questa è l’Italia.
    Ciao Rosaria VFDP

  • rosanna de angelis

    E’ tutto quello che penso anche io,grazie per aver trovato le parole giuste.Ciao

  • gerardo bombonato

    Leggo questo scritto con colpevole ritardo, ma mi ritrovo pienamente nel pensiero e nelle considerazioni di mark. E ci tenevo a dargliene conto

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