Lettera d’amore

racconto di Riccardo Dal Ferro
illustrazione di Marco Pasin

“Where do you expect us to go when the bombs fall?”
system of a down

lettera d'amoreMentre la bomba cade, rivolgo un pensiero distratto alla terra che le si avvicina vorticante, un turbine di confusione visiva che nessuno vede, il silenzioso sibilo che taglia l’aria e che nessuno sente. È il silenzio devastatore di cui mi sono fatto partecipe, l’invisibile ombra scagliata dall’antro oscuro di qualche universo per illuminare una crosta terrestre rigogliosa di inconsapevolezza.

Ora che la gravità rende impossibile qualsiasi ripensamento, ora che la Terra si prepara ad abbracciare serena la deflagrazione delle Tue lamiere contorte, risulta impossibile ignorare questa poetica distruzione che Ti porti appresso. Non esiste passione più indecifrabile di quella che parla con il linguaggio della morte: essa sintetizza in un colpo secco le molteplici voci dell’universo, in un unico codice senza crittatura, icona eterna di fragore e delicatezza.

Ora che la superficie ribolle di desiderio per Te, e io sono un povero corpo affranto nella nostra unione, ora che tutto questo sta per essere compiuto, io non ho rimpianto. Qualsiasi altra conclusione sarebbe stata insensata perché a Te, alla Tua grandezza, alla Tua misericordia atomica non ci si può sottrarre.

Io amo il Tuo annientamento.

Mentre la bomba cade, mi sovviene alla mente quella frase caustica, quello sguardo malevolo del Generale che mi dice: «Professore, lei si crede forse tanto unico, ma in realtà è solo il pezzo di un meccanismo ben oliato.» La divisa di quell’uomo rappresenta tutto ciò che ho cercato di tenere a distanza dalla mia immagine nel corso di una brillante carriera, ma le inevitabili implicazioni dei nostri talenti dirigono talvolta il destino verso mete che mai avremmo creduto possibili. Mi risulta insopportabile il suo sputare a ogni consonante secca; mi infastidisce il suo sguardo, glaciale come quei missili intelligenti che compensano la sua mancanza di qualsiasi spessore umano; mi fa ribrezzo il muscolo mascellare esageratamente quadrato, la tempia innervosita da pulsazioni altezzose, la pelata lucidata di primo mattino. Le mie formule, i miei calcoli, le mie conclusioni scientifiche, tutto il mio essere mi hanno condotto al cospetto di questo individuo spregevole, e non ho fatto nulla per impedirlo, o forse sì, ma sarebbe stato comunque completamente inutile.

«Professore, lei crede di essere migliore degli altri, e forse più intelligente lo sarà sicuramente, ma in realtà qui rappresenta soltanto un pezzettino necessario eppure sostituibile dell’ingranaggio che si è messo in moto molto tempo prima che lei se ne rendesse conto.» Mi sbatte in faccia la mia precaria condizione usando toni tracimanti di disprezzo, quella condizione che sta a metà strada tra il mandante e l’esecutore. Tra la mente che concepisce e il braccio che agisce ecco, io sono il cuore che, pulsando sangue, mantiene in vita entrambe le parti anatomiche di questa folle corsa verso l’autodistruzione. Sul patibolo sempre erano manifeste due figure: quella del sovrano, colui cioè che ordinava l’esecuzione, e quella del boia, il cui corpo era votato al compimento del gesto. Mai, durante quello spettacolo, si sarebbe potuto scorgere il timido scienziato che calibrava la ghigliottina, che misurava la corda, che affilava l’accetta. Costui era l’ingranaggio nascosto della pena. Quello la cui colpa coincideva con il suo talento.

«Lei non è migliore o peggiore di me, professore. Siamo entrambi rotelle incastrate senza libertà in questo macchinario immenso. Se ne faccia una ragione, e tenga il suo disprezzo per i giorni che trascorrerà nello psicotico rimorso che l’attende.» È odio quello che trabocca dalle sue parole, un odio riflesso sulla fusoliera ironica della mia mortifera creatura.

Il Generale non poteva rendersi conto di come quel susseguirsi di azioni, parole e decisioni avrebbe portato alla sua stessa sconfitta.

Nessuno poteva vincere, in quel luogo, in quel tempo senza perdono.

Ormai tutto è perduto.

Eppure, non posso impedirmi di pensare che la sentenza rappresentata dalle Tue virtù devastatrici non sia che un tassello ineliminabile della Storia del Mondo. L’uomo abbraccia nel profondo dell’animo la Tua conclusiva parola, con una gratitudine fatta di corpi che bruciano, città rase al suolo, panico dilagante. È il tributo che sancisce l’ineluttabilità di un confine innegabile, quello che separa l’esistenza dalla non esistenza: laddove prima si trovava una foresta, ecco che poi non rimarranno che cenere e scabrosa terra arroventata; dove c’era una popolosa città, resteranno soltanto palazzi sventrati e malformazioni diffuse.

Che cosa progetti Tu, nel contorto crepuscolo che vai offrendo? Quali sono i Tuoi sogni, le Tue aspirazioni, gli inalienabili desideri che porti in quel cuore di uranio? A me sembra, e non vorrei con questo rompere la magia del nostro amore, a me sembra che il Tuo progetto sia quello di terminare qualsiasi progetto; le Tue aspirazioni coincidono con la fine di ogni aspirazione possibile; e il Tuo desiderio è quello di porre termine ai desideri del mondo. In questo, sei il capolinea di quell’esistenza che osa ancora, nonostante tutto, definirsi “intelligente”. Sei il compimento ultimo di quell’impulso che ci spinge a racchiudere la molteplicità esistente in un finale tanto catastrofico quanto logicicamente inevitabile.

Ora che tutto è perduto, lascia che io mi stringa forte a Te.

Lasciami essere, con Te, la Fine di ogni cosa.

Mentre la bomba cade, ripenso al dottor Sauger, al professor Heyne, alla dottoressa Krystal e ai tre ingegneri del laboratorio. Sette mesi per assemblare il Mostro, quattordici ore di lavoro quotidiano e nessuna pausa, nessuna tregua. C’erano i calcoli da aggiustare, la calibrazione da regolare, la struttura da modificare, le traiettorie da perfezionare, l’aerodinamica da ottimizzare, le prestazioni da massimizzare. Tutto si riassumeva nell’indaffarata ricerca del massimo raggiungibile, un massimo la cui natura certo non sfuggiva alle menti indebolite e stanche degli scienziati presenti. Quel massimo si sarebbe tradotto nel massimo della distruzione, nel massimo della mortalità, intesa nel senso più ampio del termine: mortalità spaziale e mortalità temporale. Il governo aveva assoldato quella squadra convincendola della bontà della missione, della necessità di un segnale forte, dell’inevitabilità del gesto. Avevano detto di come quel solo unico oggetto metallico gettato nel mezzo di una città non meglio identificata avrebbe risparmiato a milioni di persone un’altra lunga guerra. L’avevano chiamato “Il minore dei mali”.

Mentre la bomba cade, mi rendo conto di come questa fosse una menzogna. La bomba non conosce confini geografici né temporali: essa distrugge tutto nell’arco di centinaia di chilometri, nell’infinito intervallo di interi millenni. Non esiste limite all’effetto della sua esplosione, essa travalica il concetto stesso di “obiettivo”, esagera nelle sue conseguenze, incontrollabile come solo il vento sa essere. La bomba marcisce nell’Universo, contamina l’esistente, diffonde inesauribile la propria epidemica distruzione. Checché ne dicessero gli strateghi, essa avrebbe segnato un confine profondo, tra il “prima” e il “dopo”, e nessuno avrebbe mai potuto ritornare su quelle parole per ritrattarle, su quel lavoro per sospenderlo, su quel lancio per annullarlo, su quell’esplosione per inghiottirla.

Mentre la bomba cade, rivedo nella mia mente gli sguardi dei colleghi: smarriti nei riflessi di quel lucido metallo assemblato, nei riflessi di quei neon artificiosi che rimbalzavano attorno alla fusoliera vergine dell’ordigno, nei riflessi della colpa che, silenziosa, divorava la loro coscienza con la pazienza del destino.

Mentre la bomba cade, penso a come sia così difficile considerarla una bomba. Durante quei sette mesi, essa divenne piuttosto compagna di giochi e merende, direttrice dei lavori, neonata da accudire, creatura da nutrire. Sotto la supervisione dei generali, essa adescava le empatie degli addetti ai lavori, parlando alle loro coscienze, modificandone pian piano la volontà, manipolando quell’iniziale disgusto per ciò che facevano, e trasformandolo caparbiamente in accondiscendenza.

Mentre la Bomba assorbiva umanità dai suoi creatori e costruttori, questi ultimi assorbivano il suo essere-macchina, tramutandosi inconsciamente in automi soggiogati al potere di quell’idea devastatrice.

Mentre la Bomba cade, penso a come essa mi abbia suggerito, in un’illuminata sera trascorsa nel laboratorio, quale fosse l’unica strada per sottrarmi a quel giogo incancellabile.

Di come io l’abbia abbracciata.

Di come io l’abbia amata.

La nudità della Tua corazza Ti rende vulnerabile alle crudeli sfaccettature dell’atmosfera. Non importa quel che dicono, sei indifesa nel Tuo cadere a peso morto sul mondo, rappresenti la fragilità dell’Apocalisse e la sua fraudolenta progettazione dell’annichilimento.

Io Ti amo perché rifletti sulla Tua fusoliera gli sguardi dei centomila bambini inghiottiti dalla deflagrazione, e con essi i palazzi e i governanti, i despoti e gli assassini, le fotografie e i ricordi, le opere d’arte e gli stupri di una Terra che brama il Nulla che Ti porti appresso. La Tua lucente armatura di fiamme e radiazioni si immola per la crudeltà dell’uomo contro l’uomo e Tu non hai che da obbedire a questa volontà cruenta: vittima e redentrice, angelo sterminatore delle notti passate a riflettere attorno all’esistenza, crepuscolo che riluce dall’asfalto e si irradia verso il cielo.

Altro non sei se non il canto del cigno dell’Umanità, verso il quale tutta la Storia della civiltà si è proiettata, fin dalla notte dei tempi. Nel Tuo cuore coesistono tutta la scienza e tutta la vergogna del mondo, tutta la semplicità e la complessità di cui siamo capaci. Sei poesia in esplosione, sovrana dei nostri corpi sventrati, conquistatrice della nostra inutilità.

La nostra caduta verso il suolo, questo vorticare stravolto senza ritorno, questa è la nostra ultima danza, mentre io sto nel Tuo ventre di uranio arricchito, nudo e immolato a santo protettore del Tuo grembo.

Quando esploderemo, quando la deflagrazione ci annienterà assieme al tempo e allo spazio, io sarò dappertutto, sparso per l’Universo assieme alle particelle che da Te si irradieranno ovunque.

La Tua musica di segnali elettronici senza vita mi accompagna in quest’amplesso, rannicchiato dentro di Te a insaputa dei sovrani del mondo che, stolti nella loro superbia, hanno lanciato contro loro stessi la maledizione dell’amore che rappresenti.

Siamo cenere, e cenere ritorneremo.

Siamo fuoco, e fuoco ritorneremo.

Mentre la Bomba cade, ripenso alle parole di Sauger: «Sei impazzito? Che cosa vuoi fare? È impossibile!» Lo sguardo isterico e sovreccitato dei miei compagni di sventura aveva accolto la mia richiesta con stupore e rigetto. Sauger gesticolava autistico: «Che vuoi fare? Non ti lasceremo compiere questa follia.»

Eppure, amici, amici miei, l’orizzonte del mio ragionamento era così limpido e chiaro: dove potremo mai nasconderci, quando la bomba sarà caduta sul suolo irredento della Terra? Quale luogo sarà mai più sicuro, dal momento che i suoi effetti travalicano qualsiasi confine spazio-temporale, contaminando con la propria distruzione i più lontani borghi celesti dell’Universo? Dove fuggiremo, quando la bomba avrà compiuto il suo ultimo credo?

La dottoressa Krystal gridava concitata: «No, sei impazzito, non puoi nemmeno pensare una cosa del genere! Noi siamo qui, consci di ciò che facciamo, abbiamo ben presente le implicazioni di tutto quello che abbiamo costruito. Torna in te!» Ma i loro occhi erano obnubilati da una nebbia fitta, quella della sopravvivenza. L’essere umano la cerca oltre ogni ragionevole dubbio, si tuffa in un’insensata prevaricazione del senso logico e, irrazionalmente, tende sempre a credere che tutto andrà bene. L’ottimismo borghese, questa malattia straordinaria, che rifiuta il martirismo e, ancor peggio, disconosce l’ineluttabilità della fine. Ma la Bomba, quella straordinaria creatura, avrebbe irriso sadicamente questa convinzione con la sua voce tonante.

Non ero più entro i confini etici dell’agire umano. A un certo punto, subentra nel destino di un uomo la necessità di compiere azioni che frantumino i confini di quella che viene comunemente chiamata “moralità”. Essa non esaurisce le vicissitudini di un’esistenza tormentata, non risponde alla molteplicità di tragedie che il destino riserva. Sauger, Krystal, Heyne e gli altri ingegneri, tutti loro erano irretiti nell’etica, nelle regole di un codice che non poteva più essere accettato come utile a quella situazione. La notte prima del lancio, essi decisero di stare a guardia dell’ordigno, in modo da impedirmi qualsiasi azione che loro, nella limitatezza delle loro vedute, ritenevano folle. Ma la mia risolutezza andava ben al di là delle loro esistenze fisiche.

Mentre la Bomba precipita veloce, il mio pensiero va al taglierino che apre una ferita mortale nella gola di Sauger, al suo sangue scuro e identico a quello di Heyne, allo sguardo esterrefatto, terrorizzato, rancoroso di Krystal. Sopraffatti nel sonno, così come i tre malcapitati ingegneri coricati accanto al corpo glaciale dell’ordigno, persero la vita per non aver compreso l’inutilità della sopravvivenza, dopo che l’esplosione fosse avvenuta. La loro morte non è una mia colpa, essi stessi avevano segnato il loro destino nel momento in cui si mostrarono ostili alla mia visione.

Ho ancora nelle braccia la fatica di trasportare i corpi dentro l’armadio di acciaio nell’angolo in ombra del laboratorio, i sacchi di plastica per evitare che il sangue fuoriuscisse dal nascondiglio. Il mattino seguente, i militari addetti al trasporto dell’aggeggio avrebbero interpretato il laboratorio deserto come l’obiezione di coscienza da parte di uomini retti di fronte all’uso diabolico che della scienza veniva fatto.

Nessuno si sarebbe accorto dell’intruso nella pancia della Bomba, nessuno avrebbe aperto l’involucro metallico che racchiudeva tanta morte e tanto destino.

Mentre cade la Bomba, dritta verso la meta finale del mondo, nudo e abbracciato al cuore radioattivo dell’ordigno, la lettera d’amore che stringo nelle mani si impregna di sudore e paura. A pochi metri dal suolo, già la sento in anteprima, la musica che suona è quella dell’Apocalisse.

Madre delle Stragi, lascia che il mio corpo si fonda al Tuo cuore di distruzione. Non v’è amore più immenso di quello per l’annientamento del mondo: non per sadismo, non per crudeltà, ma perché l’unico modo per sconfiggere l’odio profondo che Tu rappresenti è amarlo senza convenevoli o compromessi. Non si può avere la meglio sull’odio con l’odio, né sulla distruzione distruggendo. Si deve desiderare la morte con tutta la passione raccolta nelle membra e nell’animo, per neutralizzarne la carica devastatrice; si deve cadere con tutta la gravità dell’universo per potersi sollevare da terra leggeri.

Tu che sei carnalità senza organi, figlia delle piaghe d’Egitto, erede dell’Apocalisse distruttrice, non posso che amarTi con tutto me stesso, abbracciare il Tuo fuoco, stringere al mio costato, al mio ventre nudo il fulcro del Tuo impulso annientatore. Cadremo insieme su questa superficie degna di morte, e saranno le mie carni ad essere polverizzate nell’atmosfera, i miei occhi a cospargere di lacrime l’Oceano prosciugato. Quando la deflagrazione gonfierà le proprie vele senza vento, allora avremo la nostra redenzione infernale, tra i corpi inceneriti degli esseri umani, tra le macerie delle chiese e le rovine della Storia.

Si tratta di amare il terrore, e basterà una volta sola perché il mondo cambi per davvero. Basterà forse un uomo solo che abbracci con vera passione la crudeltà, un uomo solo che inghiotta la dolce insensatezza della morte, un uomo solo che ami sconfinatamente tutto l’odio di cui è capace l’uomo per annullare il potere inaccettabile della distruzione. Tieni bene a mente che, prima o poi, questo avverrà, così come avvengono i fatti più improbabili concepibili, e allora la Tua deflagrazione sarà disinnescata d’un tratto, la Tua fiammeggiante caduta fermata a mezz’aria, la Tua spirale scatenata diventerà risibile sotto il nuovo Sole.

Madre delle Stragi, mentre cado con te, quest’amore è la mia risposta a tutto il tuo odio sconfinato.

Forse non questa volta, forse in un tempo molto lontano, quasi irraggiungibile, riusciremo a neutralizzare tutto ciò che le Tue lamiere rappresentano, facendo sfumare l’odio e l’Apocalisse dentro le spire di una serenità divina.

Per il momento, mi accontento di combatterTi, in un gesto disperato, con tutto l’amore di cui il mio cuore dispone.

Bomba.

Riccardo DAL FERRO

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