Messico: l’idea di una sanità pubblica…
… comincia a circolare sul serio. E altrove?
interventi di Nicoletta Dentico, Francesco Carta, Andrés Manuel López Obrador (AMLO), Mario Guerrini e Francesco Masala
Andrés Manuel López Obrador (AMLO) spiega come e perché la sanità sia in mano ai privati, a causa di ruberie, corruzione, ideologia, e sta lavorando perché ridiventi pubblica, costando meno e funzionando meglio, per tutti.
In Italia, in Messico, e in tutto il mondo, i sicari dell’economia (e del diritto) hanno creato un sistema nel quale siamo ostaggio di oligarchi, non russi, che sfasciano l’economia pubblica per farla diventare sempre più privata.
Sarebbe interessante sapere quali legislatori e amministratori pubblici hanno interessi concreti nel processo di privatizzazione, della sanità, per esempio.
E magari denunciarli per conflitto di interessi, se la giustizia ancora lo permette.
Chiedo intanto, magari mi è sfuggito, esistono gruppi politici che propongono che la sanità ritorni a essere pubblica, e che i privati esistano “senza oneri per lo Stato”, e che si impegnano concretamente per un precesso di ripubblicizzazione, per esempio per non dare soldi pubblici a ospedali del Qatar, in Sardegna?
Francesco Masala
Il valore dei corpi in ostaggio – Nicoletta Dentico
Siamo, forse, al di là dell’immaginario da film dell’orrore. Eppure, il sequestro – da due anni – del corpo senza vita della mamma di Franciska Wanjiru da parte del Nairobi Women’s Hospital, perché la famiglia non può pagare le spese ospedaliere, è la rappresentazione plastica di come il profitto riesca a farsi carne, a ucciderci, e poi a impadronirsi anche del corpo senza vita. Più necropolitica ed espropriazione della vita – e di ogni suo simulacro – ai fini dell’accumulazione di denaro di così, ci pare francamente impossibile. Sia chiaro: non si tratta affatto di un caso isolato, e nemmeno di una “specificità” africana, come spiega magistralmente Nicoletta Dentico in questo articolo, a commento dei nuovi studi di Oxfam che fotografano gli effetti perversi della finanziarizzazione della salute nel Sud del mondo. I protagonisti di queste storie, racconta, sono personaggi del calibro di Arif Naqvi, il fondatore del Gruppo Abraaj che ha convinto le istituzioni finanziarie e l’Onu a indirizzare miliardi di soldi pubblici per incentivare i finanziamenti privati. Il tutto, ma guarda un po’, per la realizzazione dell’Agenda 2030, quella che impazza nei progetti della Ue e nelle ricerche interdisciplinari dei nostri figli a scuola. Semplice il mantra di Navqi: finanziando fondi di azionariato privato come Abraaj, il capitalismo agisce da leva per arricchire gli investitori e intanto «porre fine alle sofferenze dei poveri». La favola s’è incagliata nel 2018, quando il gruppo è stato coinvolto in una delle più grandi frodi della storia, con centinaia di milioni di dollari fatti sparire dal Global Health Market Fund, finanziato anche da Bill Gates. Dice: ma a noi che ce ne frega? Si sa che la povertà di quei mondi, lontani, genera da sempre barbarie. Mica possiamo farci carico degli orrori di tutto il pianeta, abbiamo già sotto gli occhi le loro piaghe, con tutti quei barconi… Neanche per sogno, perché gli ospedali privati raccontati da Oxfam sono foraggiati dalle istituzioni finanziarie europee per la cooperazione allo sviluppo, ma anche dalla Banca Europea per gli Investimenti e la International Finance Corporation, il braccio privato della Banca Mondiale. Il 56% degli investimenti europei è destinato a ospedali privati e a una miriade di provider (privati) che operano tramite intermediari finanziari del comparto sanitario. Le operazioni, in crescita dopo la pandemia, si articolano in una invisibile trama di intermediari finanziari, perlopiù fondi di azionariato privato. Impenetrabili. Hanno sede nei paradisi fiscali – l’80% dei 140 intermediari intercettati da Oxfam sono domiciliati alle Mauritius e alle Isole Cayman. Per i suoi traffici, il capitalismo che estrae valore da ogni forma di vita (e ormai non solo), non usa mica gli scafisti, lavora a una scala diversa.
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«È terribile vederla così, il suo corpo è trasformato. Non sembra più nemmeno un corpo, ma un ammasso di pietra». Franciska Wanjiru parla della salma di sua madre, trattenuta da due anni presso il Nairobi Women’s Hospital, in Kenya, per il mancato pagamento delle spese ospedaliere. «Imploriamo l’ospedale di restituirci il corpo, almeno come regalo di Natale. Non saremo mai in grado di saldare quel conto, non ha senso che si tengano il cadavere».
Quella di Franciska è solo una delle storie che sgorgano, con rara potenza di denuncia, dalle pagine del rapporto gemellare Sick Development e First, do no Harm. Un lavoro che è frutto di una complessa e coraggiosa ricerca dell’organizzazione umanitaria Oxfam sulla finanziarizzazione della salute che comprende un volo radente sul mondo e un approfondimento specifico sull’India.
Pazienti detenuti negli ospedali come forma di intimidazione
Il debito di Franciska equivale a 43mila dollari. Aumenta ogni giorno, man mano che la detenzione in morte di sua madre continua. La notizia della detenzione dei pazienti e delle salme come forma di intimidazione e di estrazione finanziaria ha attirato l’attenzione della stampa kenyana sin dal 2016. Ma le cattive abitudini sono dure da estirpare. Nel 2017 una donna si è vista trattenere il figlio appena partorito per oltre tre mesi, per l’impossibilità di pagare i 3mila dollari richiesti.
A nulla è servito il pronunciamento di un tribunale contro l’ospedale per violazione della Costituzione. Nel marzo 2021, la Corte Suprema ha imposto al Nairobi Women’s Hospital un risarcimento di oltre 27mila dollari a favore di Emmah Muthoni Njeri, illegalmente detenuta per oltre cinque mesi. Non si contano le ritorsioni contro il personale sanitario per aver affrettato le dimissioni, le pressioni sui medici per richiedere nuove diagnosi, il consiglio di interventi chirurgici inutili. Tutto documentato nel rapporto, inclusa la paura dei familiari che temono ritorsioni sui loro cari.
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Dal Kenya all’India, il problema è sistematico
Sia chiaro. Il Nairobi Women’s Hospital non è una mela marcia. E il problema non riguarda solo il Kenya. In molti paesi del sud del mondo, gli ospedali privati sfruttano i bisogni di comunità spesso prive di strutture sanitarie pubbliche. E abusano sistematicamente dei pazienti. Imprigionandoli se non pagano il conto, negando loro il pronto soccorso se sono poveri, strattonandoli finanziariamente con tariffe improponibili anche quando spetterebbero loro cure gratuite. Sospingendoli in un abisso di dolore e impoverimento di cui vengono investiti familiari e amici, e da cui è praticamente impossibile riscattarsi.
Non guardano in faccia a nessuno. In India due ospedali convenzionati, rispettivamente negli stati di Chhattisgarh e Odisha, hanno rifiutato cure gratuite a titolari di assicurazioni governative e altre esenzioni. Costringendo le famiglie di questi pazienti a «conseguenze finanziarie catastrofiche». Oxfam racconta dettagli raccapriccianti: medicinali messi in conto al prezzo gonfiato del 50%, cateteri monouso riutilizzati e addebitati più volte, casi da medicina d’urgenza rifiutati per insufficienza finanziaria (in India vige l’obbligo di cure d’emergenza per gli incapienti).
Neppure il Covid-19 è servito per immunizzare questi avvoltoi. Quale migliore occasione della pandemia, dopo tutto? Hanno volteggiato sulla paura e sui sintomi dei pazienti senza farsi scrupoli. In Uganda, il Nakasero Hospital di Kampala faceva pagare un letto in terapia intensiva l’equivalente di 1.900 dollari al giorno. Al TMR Hospital, i familiari di un paziente poi deceduto a causa del virus si sono ritrovati l’esorbitante cifra di 116mila dollari da pagare.
Le storture della finanziarizzazione della salute
La vera patologia sta a monte: i proprietari e gestori di questi ospedali pensano alla salute solo come profitto. I protagonisti di queste storie sono personaggi del calibro di Arif Naqvi, il fondatore del Gruppo Abraaj che ha convinto le istituzioni finanziarie e le Nazioni Unite a indirizzare miliardi di soldi pubblici per incentivare i finanziamenti privati. Il tutto per la realizzazione dell’Agenda 2030. Semplice il mantra di Navqi: finanziando fondi di azionariato privato come Abraaj, il capitalismo agisce da leva per arricchire gli investitori e intanto «porre fine alle sofferenze dei poveri». Ma la favola si è incagliata nel 2018. Il gruppo è stato coinvolto in una delle più grandi frodi della storia, quando si sono volatilizzati centinaia di milioni di dollari dal Global Health Market Fund finanziato anche da Bill Gates.
Questo scandalo ci riguarda. Gli ospedali privati raccontati di Oxfam sono foraggiati dalle istituzioni finanziarie europee per la cooperazione allo sviluppo. Inseguendo le tracce di circa 400 investimenti si approda a tre distinte entità europee: la British International Investment (BII), la Proparco francese e la tedesca Deutsche Investitions und Entwicklungsgesellschaft (DEG). Ma anche alla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e alla International Finance Corporation (IFC), il braccio privato della Banca Mondiale. La ricerca individua 358 investimenti in aziende sanitarie private nel sud globale fra il 2010 e il 2022, per un totale di 3,2 miliardi di dollari. Il 56% degli investimenti europei è destinato a ospedali privati e a una miriade di provider privati che operano tramite intermediari finanziari del comparto sanitario.
Fondi per la salute che finiscono nei paradisi fiscali
La mobilitazione finanziaria verso i privati per la salute dei Paesi in via di sviluppo si aggancia oggi agli Obiettivi di sviluppo sostenibile, in particolare alla copertura sanitaria universale, nel più avvilente deficit di trasparenza e accountability. Le molteplici operazioni, in crescita dopo la pandemia, si articolano in una invisibile trama di intermediari finanziari, perlopiù fondi di azionariato privato. Impenetrabili. Hanno sede, infatti, nei paradisi fiscali – l’80% dei 140 intermediari intercettati da Oxfam sono domiciliati alle Mauritius e alle Isole Cayman.
Privatizzazione e finanziarizzazione della salute vanno allegramente a braccetto nel sud del mondo con i nostri soldi, a nostra insaputa. Ma il rapporto di Oxfam dà la sveglia anche a noi: l’alternativa alla salute pubblica, che stiamo perdendo in Italia, è una disumanizzazione sanitaria.
Questo articolo si deve alla collaborazione con Valori
Ecco come stanno distruggendo gli ospedali sardi – Francesco Carta
La crisi del Servizio Sanitario pubblico in Sardegna ha finalmente posto all’attenzione la necessità di riorganizzazione delle Cure primarie e territoriali.
Si parla giustamente di superare un servizio sanitario basato sulla centralità dell’Ospedale. Si propongono sostegno, incentivazione e creazione di Ospedali e Case di comunità, gestiti nell’ambito della medicina territoriale. Nella pratica, invece, assistiamo all’istituzione di Ospedali di comunità in sostituzione di reparti ospedalieri, gestiti da personale medico e infermieristico, già dipendente ospedaliero. Nulla di aggiuntivo.
Il PNRR, per poter concedere i finanziamenti, impone la riorganizzazione della medicina territoriale. Per ottenere tali finanziamenti è indispensabile prevedere l’istituzione di innovative strutture socio sanitarie col compito di programmare l’attività socio-sanitaria territoriale di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, con programmi di gestione, a livello di Distretto socio-sanitario, delle malattie croniche con maggior rilevanza sociale ed epidemiologica, con adozione di forme di medicina d’iniziativa e proattiva; favorire e gestire l’integrazione socio sanitaria; incentivare le varie forme di associazionismo (Unità di cure primarie e medicina in rete dei medici di base), la multidisciplinarità e multi professionalità nell’ambito delle Case e degli Ospedali di comunità.
Per una corretta informazione va ricordato che le prime Case della salute furono istituite nel 2008 (Assessore alla sanità Dirindin). Nel 2015 inoltre si approvarono le linee di indirizzo per la riorganizzazione delle Cure primarie (DGR del 12/10/2015) su proposta di un tavolo tecnico di operatori sanitari che lavorò per circa due anni.
Purtroppo, queste linee di indirizzo furono disattese e dimenticate. Esse prevedevano di incentivate le varie forme di associazionismo medico: Unità di cure primarie (UCP) e medicina in rete; una sperimentazione di integrazione tra questi modelli organizzativi e le Case della salute finalizzate all’integrazione sociosanitaria; lavoro multidisciplinare con infermieri e altre figure professionali; gestione delle malattie croniche col modello del cronical care model. Furono istituite nuove Case della salute in tutte le legislature che si sono succedute (Giunte Soru, Cappellacci, Pigliaru e Solinas). Riproporre oggi la discussione sulla costituzione di Case della salute (declinate a Case di comunità dal PNRR) è certamente positivo anche se tardivo. Le proposte sono inserite negli atti aziendali delle ASL, ma spesso sono solo teoriche o sostitutive di strutture preesistenti.
I principi di superamento della condizione ospedalocentrica sono solo enunciati nelle delibere regionali e negli atti aziendali. Far lavorare assieme le varie forme di associazionismo medico in ambito distrettuale con le Case di comunità è certamente utile e indispensabile; ciò ancor oggi è ostacolato da imposizioni burocratiche e limiti anacronistici. Bisogna passare dalle enunciazioni e dalla teoria alla pratica, dotando le Case e gli Ospedali di comunità di personale sanitario indispensabile per il loro funzionamento. Ma la realtà va in altra direzione, altro che superamento della condizione ospedalocentrica.
La mancanza di medici di medicina generale determina un grave arretramento rispetto alla situazione precedente, nella quale, tra tante criticità c’era un preciso riferimento nel medico di famiglia. In Sardegna sono state bandite 492 zone carenti. Come provvedimenti emergenziali è stato innalzato il massimale degli assistiti a 1800 e sono stati istituiti gli ASCOT (Ambulatori straordinari di comunità territoriale). Sono scelte emergenziali che non possono diventare permanenti e sostitutive della medicina territoriale. In alcuni casi si istituisce un ambulatorio che opera una volta alla settimana per 12 comuni. Il tempo a disposizione è scarso, l’ascolto è limitato e spesso impossibile, con conseguente decadimento della qualità del lavoro per il medico e l’assistito.
I LEA (Livelli essenziali di assistenza) sono disattesi in tutto il territorio regionale. Anche recenti indagini confermano, con metodi validati, che circa il 20% dei sardi rinuncia alle cure. Ancor più spesso i cittadini pagano direttamente le prestazioni. I pronto soccorso sono in grave crisi organizzativa e di personale. Il servizio di emergenza e urgenza si regge grazie alle associazioni di volontariato. Grave è la mancanza di specialisti nei pronto soccorso (PS). La maggior parte dei PS e dei reparti ospedalieri bloccano le ferie nel periodo estivo. Si fa ricorso sempre più spesso a pratiche oggettivamente corruttive e antieconomiche per il SSN, come i medici a gettone e in affitto reclutati da cooperative esterne – costosissime per le ASL – per i codici meno gravi, che in condizioni ottimali dovrebbero essere trattati nelle cure primarie, nel territorio: Distretti, associazionismo medico, continuità assistenziale, Case di comunità, servizi di prossimità.
Il ricorso alle prestazioni a pagamento è in aumento a causa delle interminabili liste di attesa nel servizio pubblico. L’abbandono delle cure e delle indagini di prevenzione oncologica collocano la Sardegna agli ultimi posti nelle classifiche nazionali. Centinaia di comuni sono senza assistenza di base, le zone carenti sono 492 (è il numero di medici mancanti al 31/12/2022, oggi sono aumentati); circa un quinto dei sardi è senza medico di base. I piccoli ospedali rischiano di chiudere. Anche gli ospedali provinciali con DEA (Dipartimento di Emergenza, urgenza e accettazione) di primo livello sono in grave crisi, compresi gli Ospedali con DEA di secondo livello che rappresentano le eccellenze nazionali della sanità sarda (Brotzu e Oncologico).
Ogni mese abbiamo in Sardegna oltre 200 decessi in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Tale numero è destinato ad aumentare a causa delle carenze dei servizi sanitari, ora anche delle condizioni climatiche, rispetto alle quali siamo impreparati. In questa grave situazione il Presidente Solinas e l’Assessore Doria propongono la realizzazione di quattro nuovi ospedali in Sardegna, depotenziando quelli esistenti. Mi sembra una proposta demagogica e avventuristica.
Dopo aver enunciato il superamento dell’ospedale – centrismo, in una situazione disastrosa della medicina territoriale, affrontata solo con risposte emergenziali, si ripropone la costruzione di nuovi ospedali. Si vorrebbero accentrare gli ospedali nelle grosse città, svuotando ulteriormente il territorio. Non basta enunciare la gestione delle malattie croniche dove vivono gli assistiti, secondo il modello del Cronical care model; bisogna praticarla. Inoltre, richiamare “capitali finanziari internazionali” per la gestione dei nuovi ospedali come indicato nella delibera di Giunta del 1/6/2023, significa privatizzare interi settori di queste strutture che dovrebbero realizzarsi con finanziamenti pubblici.
Tutto ciò con una completa esautorazione del Consiglio regionale. La Giunta regionale dovrebbe ritirare la delibera approvata frettolosamente da una parte della Giunta, aprire un’ampia discussione in Consiglio regionale e nella società sarda per individuare una seria programmazione con un Piano sanitario regionale triennale adeguato all’emergenza sanitaria con proposte a breve e lungo termine. La programmazione sanitaria non è estemporanea, deve essere decisa dai sardi nel complesso con le rappresentanze istituzionali, gli operatori sanitari, le associazioni dei malati, non da lobby economico-finanziarie internazionali che operano tra la Lombardia e la Sardegna.
La partecipazione dei cittadini non può essere enunciata nelle delibere per ottenere i finanziamenti, deve essere praticata permettendo ai tanti Comitati per il diritto alla salute, nati in questi anni, di esprimere il parere e proposte dei cittadini, amministratori e Comitati di partecipazione.
Stiamo assistendo a un apparente ritorno all’ospedale – centrismo, con posti letto ridotti, con un servizio sanitario ulteriormente indebolito in favore del sistema sanitario privato, allo smantellamento del SSN, introducendo forti elementi di privatizzazione, con una pericolosa commistione tra pubblico e privato, col risultato di socializzare i costi della sanità e privatizzare i profitti della speculazione economica, finanziaria e di edilizia sanitaria.
Secondo la proposta Solinas-Doria la salute cessa di essere un diritto e viene considerata solo una merce di scambio. La causa principale della crisi sanitaria è da attribuirsi alla forte pressione delle lobby della sanità privata che individua in essa il settore più importante e redditizio nella nostra epoca. La sanità privata non si accontenta di avere un ruolo integrativo rispetto alla sanità pubblica, vuole assumere un ruolo sostitutivo. La sanità pubblica gratuita e universalistica rappresenta un ostacolo da ridimensionare ed eliminare.
La mancanza di programmazione sanitaria favorisce oggettivamente la voracità delle lobby finanziarie. Quando tutto sarà privato, saremo privati di tutto. Questa è la sanità che ci propone questa Giunta regionale.
Le soluzioni adottate per far fronte alla emergenza sanitaria, non sono sufficienti e non possono essere scambiate per programmazione sanitaria; si deve partire innanzi tutto dalla valorizzazione e dal rafforzamento dell’esistente nella sanità pubblica (troppi ospedali sono sottoutilizzati); è improrogabile una concreta e realistica riorganizzazione delle cure primarie e territoriali con la salvaguardia di tutte le strutture esistenti.
scrive Mario Guerrini
Mi sono speso e ho speso fatica e impegno (che continuerò a spendere) in difesa della sanità pubblica. Ma spesso mi sono trovato nella scomoda posizione di chi lotta contro i mulini a vento. E sa di farlo, cioè di combattere una battaglia persa in partenza. Leggo nel contributo dell’amico Carta ciò che avviene in Sardegna. E non è molto dissimile da ciò che avviene un po’ in tutta Italia. Soprattutto l’assenza sistematicamente voluta di quella assistenza territoriale che dovrebbe farsi carico di parte dell’assistenza oggi (oggi? Da sempre…) devoluta agli ospedali. E così abbiamo dovunque reparti di Pronto Soccorso dove i pazienti in codice Verde o Azzurro vengono “ammassati” (chi non ne ha avuto una qualche esperienza?) in sale comuni o nei corridoi in attesa che si liberi un medico che possa visitarli. I parenti, gli accompagnatori, insomma chi attende di sapere cosa dovrà essere del loro congiunto (che lo sia o meno) a loro volta confinati nelle sale di aspetto a mugugnare, protestare, fare di tutto per poter almeno dare un saluto a chi – per i motivi più svariati, dal piccolo infortunio all’emergenza vera e propria – sta al di là di una parete. Tra di loro un’altra parete: quella degli operatori, siano Ip o medici, alle prese spesso con decine e decine di pazienti che devono essere non solo curati ma per i quali c’è necessità di una diagnosi da fare in fretta e furia (così come il triage iniziale) perché c’è sempre un nuovo malato in arrivo. Cosa accade, allora? Che in queste zone di frontiera del dolore (minuscolo o grande che sia: sempre dolore è. E paura) non si collabora ma ci si scontra come in un Mezzogiorno di fuoco che vede contrapposti medici e infermieri da un lato e pazienti e congiunti dall’altro.
Cosa accadrebbe se tutto questo non avvenisse? Se esistessero zone franche nelle quali il paziente, non lontano da casa sua (cosa questa assai frequente) possa essere controllato da medici e infermieri, curato se del caso o inviato in ospedale già con una diagnosi precisa? Insomma: la sanità territoriale, le “case della salute” (denominazione orrida a mio modestissimo avviso) divise per quartiere o rione e il cui numero possa variare in considerazione del numero di abitanti.
Vivo in una zona di mezza montagna (800 m. slm) in un piccolo paese con quattro frazioni dove il medico di medicina generale viene una volta a settimana (una per ogni frazione che in qualche caso non sono distanti le une dalle altre). Perché un solo medico? Perché in tutto gli abitanti censiti (al momento del voto elettorale) sono poco più di 600. E ci sono realtà anche più piccole in Italia. Realtà dove la salute dei tantissimi anziani è nelle mani di pochi professionisti. Le facoltà di Medicina si svuotano così come quelle di Farmacia e per Infermieri professionali. Da molti anni è stata profetizzata (essì, profetizzata) una carenza di medici a tutti i livelli: dagli specialisti (attirati dai compensi e dai ritmi scanditi delle strutture private) ai medici di famiglia (in città hanno il loro studio: nelle realtà come la mia, si caricano computer e attrezzi vari in macchina e vanno avanti e indietro).
Un quadro questo derivante dalla mia personalissima esperienza. Ci sarà certamente di meglio. Così come ci sarà di peggio: Regioni dalle quali i pazienti “scappano” alla ricerca di un’assistenza almeno migliore di quella che li attende nei loro nosocomi.
Intanto, nelle sale del potere, si pensa a un’ulteriore divisione del Paese: Regioni ricche da una parte, Regioni meno ricche (più povere?) dall’altra. Sistemi di assistenza diversi da una cittadina all’altra, magari distanti pochi chilometri ma una in una Regione, una in un’altra.
E i famosi Lea? Oggetto sconosciuto ai più ma facilmente traducibile in Livelli essenziali di assistenza, mai compiutamente definiti.
Potrei andare avanti a lungo con il mio cahier de doleance, vabbè, quaderno delle lamentele…potrei davvero andare avanti a lungo. Intanto il nostro Paese invecchia (il numero de sessantacinquenni ha superato quello dei quattordicenni) e con l’età aumentano le malattie. Nel frattempo molti farmaci diventano introvabili, il livello delle cure è buono – o almeno ci si avvicina – in un luogo e non buono – per non dire pessimo – in un altro. Ma a cosa si pensa? Ai cittadini? No: agli immigrati che minacciano di sostituirci, al clima che non è impazzito ma solo molto caldo, a una serie di follie (il caso Santaché, una riforma della giustizia che già sulla carta fa acqua da tutte le parti) che poco hanno a che fare con il governo della polis.
Già, con la politica che non dovrebbe trasformarsi solo e soltanto in una corsa alle poltrone, al potere, ma nel buon governo della cosa pubblica. Che, al contrario, diventa un semplice corollario per coloro, davvero fantasmi sperduti in un sogno di potenza personale, che si aggirano nei corridoi dei Palazzi. Mai così lontani da chi, incautamente, ha dato loro fiducia con il voto…