L’immagine mi circonda prima che io la catturi

Fotoreporter a Gaza

L’immagine mi circonda prima che io la catturi. Annego insieme alla telecamera negli occhi di questi bambini mentre implorano la vita di fornire loro cibo! Come può il giornalista che ha fotografato i bambini del suo Paese ballare nelle scuole e festeggiare la notte delle festività fotografarli nuovamente, piangenti per la fame e affollati davanti a un centro di distribuzione alimentare? Li guardo e vedo l’amara realtà, eppure dentro di me un cuore dice loro: La vita tornerà a voi ancora una volta, e la campagna vi dipingerà un giardino, cibo, case e nuovi sogni dopo questa sofferenza, confidando in Dio e la sua giustizia[1]

Così commenta la foto che lo ritrae mentre guarda i bambini di Gaza che sta per fotografare, in fila per un po’ di cibo, Mohammed Salem, sulla sua pagina Instagram. Ha messo la foto che qualcun altro altri gli ha fatto ad apertura del suo ennesimo reportage sui vari aspetti del genocidio portato avanti dall’esercito israeliano.

Mohammed Salem, Gaza, 5.12.2024

Salem, palestinese di Gaza continua da anni a seguire, documentare, testimoniare quanto gli succede attorno, anche in questi ultimi 15 mesi di incredibile ferocia di sterminio di massa portato avanti nella sostanziale acquiescenza delle “democrazie” occidentali. Lo fa in particolare per l’agenzia di stampa britannica Reuters.

Mohammed Salem, Gaza, 5.12.2024

Sappiamo quanto siano preziosi (e purtroppo ad alto rischio) i reporter e fotoreporter a Gaza, in particolare se palestinesi. In particolare se la loro testimonianza riesce a rompere il muro di silenzio o pietismo ipocrita.

Mohammed Salem, Gaza, 5.12.2024

Mohammed Salem questo fa, e ormai non è più uno dei, pochi, “fotoreporter presenti a Gaza”. Ha vinto per due volte il World Press Photo, il concorso di fotogiornalismo più prestigioso al mondo; nell’ultima edizione ha vinto anche il primo premio assoluto, con la foto divenuta famosa come “La Pietà di Gaza”, quella della giovane nonna che stringe al petto la nipotina uccisa dalle bombe israeliane. In Bottega ne abbiamo parlato qui a proposito della mostra World Press Photo 2024: https://www.labottegadelbarbieri.org/il-dolore-degli-altri-al-mua-di-sinnai-la-world-press-photo-2024/

Salem

 

Salem aveva già vinto il WPP 2009 con la foto dei bombardamenti al fosforo bianco, sempre su Gaza. Ed ha vinto, assieme ad altri due fotografi della Reuters, il prestigioso Premio Pulitzer per la copertura che son riusciti a dare proprio alla tragedia di Gaza https://tg24.sky.it/mondo/2024/05/07/new-york-premi-pulitzer

La riflessione contenuta nel commento di Mohammed alla foto che lo ritrae mentre guarda con espressione impotente i bambini imploranti un po’ di cibo, ci riporta all’antico dilemma che accompagna i fotoreporter di guerra, i fotoreporter testimoni di tragedie, dall’origine del fotogiornalismo di guerra, ai tempi di Timothy O’Sullivan e Mattew Brady durante la guerra di secessione americana; sul dilemma del ritrovarsi a dover scegliere se mettere al primo posto la documentazione della sofferenza, piuttosto che provare ad alleviare la sofferenza stessa.

Mohammed Salem

Da Gerda Taro a Robert Capa, da Nick Ut che fotografa la bambina vietnamita che scappa dal napalm ai fotografi delle troppe guerre degli ultimi trent’anni, oltre alla necessità di attestare la veridicità o meno delle proprie  foto, il testimone sul campo corre il rischio di sentirsi divorato dal dilemma se non fosse stato moralmente più corretto dare una mano invece di documentare. Alleviare invece di testimoniare. Questione che riguarda sempre più anche i non professionisti, i testimoni casuali di eventi più o meno drammatici in cui delle persone vittime di qualche evento avverso avrebbero bisogno di aiuto: tutti noi che davanti a un incidente, un’aggressione, una catastrofe “naturale” invece di intervenire e far qualcosa che allievi un pericolo o una sofferenza, la prima cosa cui pensiamo è “documentare”.

M. Salem 2009 bombe fosforo bianco su Gaza

Se vedendo come vanno le cose, constatando la mercificazione del dolore e la contemporanea assuefazione allo stesso, ci viene da pensare, nello sconforto e nell’impotenza, che niente serve più a niente, forse è proprio il fatto che nelle guerre i “testimoni” sono temuti e combattuti[2], a ridarci la misura di quanto siano ancora importanti (“almeno 54 uccisi quest’anno, un terzo solo a Gaza”   adnkronos: rapporto di- rsf)

“Dai tempi della guerra di secessione americana i fotografi hanno documentato la realtà dei conflitti, anzi, proprio la fotografia ha mostrato per prima la crudeltà dei campi di battaglia. Prima delle foto di Mattew Brady la guerra veniva mostrata solo nei dipinti che esaltavano condottieri e combattenti. Per molto tempo i fotografi sono riusciti a seguire le vicende belliche anche in modo indipendente, dandoci immagini splendide e terribili delle due guerre mondiali e di conflitti come la guerra di Corea o del Vietnam. In quest’ultimo conflitto i giornalisti ebbero la massima libertà di azione, ma le autorità militari iniziarono a cambiare atteggiamento. Le immagini della guerra avevano profondamente scosso l’opinione pubblica americana e si pensava che avessero fiaccato la volontà del popolo a resistere.

M. Salem, Gaza, 23.08.2024


Così nella prima guerra del Golfo (1991) si ricorse al giornalismo “embedded” ossia incorporato nelle forze armate: i giornalisti venivano tenuti sotto stretto controllo ed accompagnati al fronte solo a piccoli gruppi che poi condividevano le informazioni coi colleghi. Questo sistema da un lato offre una certa assistenza e protezione ai fotografi, ma si presta ad un controllo da parte delle forze armate che possono decidere le destinazioni ed esercitare anche una selezione del materiale prodotto.[3]

M. salem As-smoke-clears-capturing-the-israeli-palestinian-conflict

La riflessione di Mohammed Salem non avrà probabilmente mai una risposta: “Quanto tempo (ore? minuti?) sarà passato tra l’istante in cui Gerda ha scattato la foto di un mezzo incendiato e l’istante in cui in cui il mezzo su cui viaggiava è stato investito? (…) Quanta gente ha visto morire prima di morire? Un numero molto maggiore di quanti ne ha immortalati.  (…) Gerda si infilava tra i corpi martoriati, si chinava per scattare, aveva fotografato un corpo bruciato sulle mattonelle senza uno straccio per sudario, un bambino o una bambina, cinque sei anni, volto sfigurato. Io sarei scappata, o avrei pianto e vomitato anche l’anima. Lei invece scattava, scattava tre volte, poi cambiava cadavere, un morto meno osceno a vedersi, un morto che alcuni giornali hanno pubblicato. Lo chiedo a te, visto che sei meno coinvolto: la mia amica che cosa era diventata laggiù in Spagna?”[4]

M. Salem As-smoke-clears-capturing-the-israeli-palestinian-conflict

«È bello che oggi chiunque comunichi per immagini. Ma nella bulimia, la forza sono i contenuti. Quelli, vengono da due cose: dall’esserci e dal saper leggere la realtà.” La gente ha il tempo per vedere le immagini, non per acquisirle. Lì serve lo studio, l’esperienza». Afferma il fotografo milanese Gabriele Micalizzi intervistato dal Corriere della Sera nel marzo del 2020, mentre tornava a lavorare dopo un anno dal suo grave ferimento in Rojava da parte dell’Isis mentre seguiva i combattenti curdi.

«La mia visione non viene dallo scrollare uno smartphone: ho dovuto vedere mostre e film, leggere libri e coprire manifestazioni, macinare chilometri e contatti, per arrivare a quel modo di vedere. A Gaza ho fatto foto che in quello stesso momento, chi era lì col cellulare, non è riuscito a fare». Lunga vita e buone guerre, allora… «No. Mai diventare una macchietta. Mai innamorarsi della tragedia. Questo mestiere sta morendo, farselo pagare è sempre più difficile. Magari crepo prima io. Ma solo se sarò l’ultimo…».

«Oggi c’è una vera bulimia dell’immagine». Dichiara lo psicoanalista Luigi Zoja, autore del libro “Vedere il vero e il falso” sulla manipolazione delle immagini, nel settembre del 2028 a La Stampa «Il consumismo ha trasformato anche il mondo delle immagini: il pubblico sceglie l’immagine più godibile, come scriveva Susan Sontag. E facendo così c’è una costante inflazione, cerchiamo immagini sempre più shockanti. L’onnipresenza delle immagini ci abitua a chiedere sempre di più: nel campo dell’informazione, dei rapporti sociali e d’amore, e anche nella religione».

M. Salem Gaza girl survives Israeli stike

Concludo con le parole dello stesso Mohammed Salem che racconta come ha iniziato lui, a fotografare.

“Amavo la fotografia come hobby quando ero molto giovane, e i miei fratelli Ahmed e Suhaib mi incoraggiavano. Li seguivo durante il loro lavoro e ho imparato a scattare e modificare. Ho imparato anche dagli altri fotografi stranieri che visitavano la Striscia di Gaza. Erano molto professionali.

M. Salem Gaza girl survives Israeli stike

Il mio primo incarico è stato documentare un campionato di tennis a Dubai. È stata un’esperienza diversa, stare lontano da conflitti e violenza. Ho capito che la fotografia non riguarda solo la politica; riguarda tutto nella vita.

Le elezioni presidenziali in Egitto mi hanno lasciato un segno profondo. Ho assistito all’emozione della gente e ho visto quanto fossero felici, considerando che non si aspettavano di vedere elezioni eque, dato che il loro vecchio presidente aveva governato l’Egitto per decenni.

Una fotografia non dovrebbe essere scattata solo con gli occhi; dovrebbe avere un significato nel cuore.

Rispetto i sentimenti delle persone che vengono fotografate, soprattutto se si trovano in situazioni difficili.”

M. Salem Gaza struggles to accommodate the living and the dead as population grows

LINK

https://www.instagram.com/mohammedsalem85/

https://widerimage.reuters.com/photographer/mohammed-salem.html

https://www.reuters.com/authors/mohammed-salem/

https://www.worldpressphoto.org/collection/photocontest/2024/winners

https://www.worldpressphoto.org/collection/photo-contest/2010/mohammed-salem/1

https://www.worldpressphoto.org/mohammed-salem

https://www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2024/04/world-press-photo-mohammed-salem-gaza-pieta-vincitore/

M. Salem Nasser hospital in Khan Younis 5.12.2024

 

M. Salem Nasser hospital in Khan Younis 5.12.2024

NOTE

[1] “The image surrounds me before I capture it. I drown along with the camera in the eyes of these children as they plead for life to provide them with food! How can the journalist who photographed the children of his country dancing in schools and celebrating the night of the holiday photograph them again, crying from hunger and crowding in front of a food distribution center? I look at them and see the bitter reality, yet inside me, a heart tells them: Life will return to you once again, and the country will paint for you a garden, food, homes, and new dreams after this suffering, trusting in God and His justice.” https://www.instagram.com/mohammedsalem85/

[2] https://rsf.org/fr/bilan-2024-le-journalisme-paie-un-prix-humain-exorbitant-dans-les-conflits-et-les-r%C3%A9gimes

[3] Festival della fotografia etica a Lodi. https://www.semprenews.it/news/Da-Gaza-immagini-che-non-vedremo.html

[4]  La scrittrice Helena Janeczek fa parlare così Ruth Cerf, l’amica di Gerda Taro nella biografia romanzato della fotoreporter Gerda Taro (la metà del “logo”  Robert Capa): La ragazza con la Leica, Guanda 2017  

M. Salem, Gaza, 26.06.2024

Benigno Moi on EmailBenigno Moi on FacebookBenigno Moi on Instagram
Benigno Moi

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *