Migranti: di sicurezza si muore

articoli di Maite Vermeulen, Tonio Dell’Olio, Stefano Galieni, Eleonora Camilli, Salvatore Palidda

15 anni – Tonio Dell’Olio

Se qui di seguito vi parlassi di un ragazzo di 15 anni morto in Italia con segni evidenti di tortura, affaticato, deperito e soccorso con molto ritardo, sarebbero molti a indignarsi. Qualcuno legittimamente si chiederebbe come mai i TG nazionali e la carta stampata non ne abbia raccontato se non nelle pagine locali e la risposta è semplice: si tratta di un immigrato. Abou, 15 anni, proveniva dalla Costa d’Avorio e dopo tutte le traversie tra deserto, Libia e mare, dal 18 settembre era confinato in quarantena sulla nave “Allegra”. Già allora stava male ma l’unico medico a bordo non se n’è accorto perché doveva visitare 600 pazienti! Quando le sue condizioni si sono fatte ancora più gravi erano già trascorsi dieci giorni e finalmente è stato disposto il ricovero urgente all’ospedale Cervello di Palermo dove è arrivato il 1 ottobre. Constatato che il ragazzo era ormai in coma lo hanno trasferito alla rianimazione dell’Ingrassia dove è morto il 5 ottobre. Si potrebbero scrivere tante parole a commento di questa vicenda ma Papa Francesco ci ha persuasi a utilizzare il solo paradigma della fraternità. Ciascuno deve chiedersi se Abou è stato trattato come il fratello del medico, del ministro, del capitano della nave, mio.

da qui

 

Sulla revisione dei decreti sicurezza – Salvatore Palidda

Non è ancora possibile elaborare una disamina dettagliata dei cambiamenti effettivi che introduce il nuovo decreto su immigrazione e sicurezza, ossia il cosiddetto “superamento dei due decreti sicurezza voluti da Salvini”. Da quanto si legge sui media nazionali – notare come la notizia è subito slittata in coda – si eliminano solo le norme più odiose del decreto Salvini relative alle ONG e all’immigrazione, e si introduce poi la “norma Willy”.

Ma come proverò a spiegare qui di seguito la situazione del governo dell’immigrazione resta sostanzialmente immutata, così come la situazione del governo della sicurezza, dato che non c’è alcun “superamento” del decreto Minniti che non viene per nulla scalfito. Nulla trapela neanche riguardo alla concezione dell’articolazione fra prevenzione sociale e azione repressiva da parte delle polizie.

Sull’immigrazione e sulla polizia.

  1. La questione più grave riguardante l’immigrazione è la continua riproduzione della condizione irregolare come bacino della manodopera per le economie sommerse. La “sanatoria” in corso non ha risolto nulla, non solo perché non ha riguardato tutti i settori di attività ma anche perché prevede condizioni difficilmente accettate dai datori di lavoro che, come si sa, fanno pagare sempre i lavoratori. Occorrerebbe una sanatoria che permetta la regolarizzazionedi tutti gli stranieri senza permesso e che si accompagni da un vasto programma di regolarizzazione delle attività in semi-nero (metà in regola e metà in nero) e in nero, tipicamente nell’agricoltura, nell’edilizia, nella logistica, nelle cooperative di servizio. La condizione semi-irregolare o del tutto in nero riguarda anche una grande quantità di italiani. Ricordiamo che il sommerso in Italia pesa oltre il 32% del PIL e col semi-sommerso si arriva a circa otto milioni di lavoratori (italiani e stranieri).

Per quanto riguarda gli stranieri occorrerebbe un permesso di lavoro anche per i rifugiati, seguito dall’effettiva eliminazione delle baraccopoli come quelle di Rosarno e in Puglia. Ammesso che la recente sanatoria regolarizzerà circa 220 mila immigrati irregolari, ne restano fuori almeno altri 400 mila. È dagli anni ‘70 che l’Italia governa l’immigrazione innanzitutto in funzione della parte irregolare del mercato del lavoro (cioè per fornire manodopera in nero) e anche per fornire manodopera regolare ma “inferiorizzabile”, cioè alla mercé di ricatti e trattamenti degradanti attraverso pratiche di razzializzazione. I permessi di soggiorno sono precari anziché duraturi e l’accesso alla naturalizzazione (cioè alla cittadinanza italiana) è difficile se non escluso anche per i nati in Italia. Questa condizione degli immigrati si ripercuote anche su una buona parte dei lavoratori italiani, anch’essi costretti a lavorare in semi-nero o totalmente in nero. Solo attraverso un vasto programma di regolarizzazione delle attività semi-sommerse e sommerse – e solo garantendo continua e stabile protezione ai lavoratori italiani e stranieri – si potrà avere un governo dell’immigrazione che rispetti i diritti elementari di tutti.

Le forze di polizia dovrebbero per prima cosa essere impegnate alla protezione dei lavoratori italiani e immigrati che sono alla mercé del caporalato o del supersfruttamento attraverso cooperative fasulle o direttamente da privati.

  1. Occorrerebbe un nuovo vasto programma di sviluppo del lavoro socialeche diventi alternativa all’azione repressiva delle polizie. Come si sta facendo negli Stati Uniti grazie al movimento Black Lives Matter,occorre una nuova concezione della prevenzione sociale rispetto alla repressione e alla penalità. Ci sono troppe polizie, troppi operatori di polizia, troppe risorse destinate all’azione repressiva. Occorre equilibro fra prevenzione sociale e repressione. Se si aumentano gli operatori sociali e si riducono gli operatori delle polizie (in particolare nelle carceri) ci saranno meno violenze poliziesche e più possibilità di trattamento pacifico delle devianze, evitando quindi che scivolino verso la delinquenza. I casi di bullismo e di violenza estrema come quella contro Willy, e anche i casi di femminicidio, emergono laddove non c’è mai stata neanche l’ombra di operatori sociali. Le forze di polizia dovrebbero agire in coordinamento con un’altrettanta quantità di operatori sociali, rispettando ognuno la propria totale autonomia.

Purtroppo, dagli anni ‘90 i governi e i media sono stati pervasi dal discorso sulle insicurezze falsamente attribuite a minoranze e immigrati, cioè ai capri espiatori. Ne consegue che la sicurezza è diventata un’ossessione che richiede sempre più risorse e più penalità per reprimere, a discapito della prevenzione sociale. Sono aumentate così le insicurezze ignorate e le loro vittime lasciate senza alcuna protezione. Si tratta delle vittime di rischi di disastri sanitari e ambientali e delle economie sommerse (che producono anche neo-schiavitù oltre che evasione fiscale e contributiva, corruzione e collusioni con le mafie)[1].

[1] Si veda Resistenze ai disastri sanitari-ambientali ed economici nel Mediterraneo, 2018 e prossimamente con Meltemi, Polizie, sicurezza e insicurezze ignorate.

da qui

 

Nuovo decreto sicurezza – Stefano Galieni

I 9 articoli di cui si compone il decreto legge presentato in Consiglio dei Ministri dalla ministra Luciana Lamorgese, allo scopo di intervenire sui decreti Salvini, è da notare per alcuni punti interessanti che contiene ma soprattutto per quanto non tocca o ignora. Sono falsi tanto i trionfalismi in chiave PD quanto gli allarmi leghisti, entrambi fanno parte di un’opera di propaganda connessa ad eterne campagne elettorali che poco o nulla dicono sui contenuti.

Per sgomberare il campo da inutili semplificazioni, proviamo a separare gli elementi positivi di novità, contenuti in un testo che prima di essere approvato dovrà passare nei due rami del parlamento, dalle tante omissioni e incoerenze presenti, frutto di mediazioni.

Nel primo articolo si ampliano le opportunità per convertire una delle forme di protezione rimaste in vigore, in permesso per motivi di lavoro. Calamità, attività artistica o sportiva, assistenza minori ed altri casi finora rimasti esclusi permetteranno ad una parte dei presenti di garantirsi possibilità di permanenza meno precarie. E qui si notano i primi limiti quanto le aperture della riforma – guai a chiamarla cancellazione – non si ripristina la protezione umanitaria che c’era prima né si interviene sull’abuso prodotto da Minniti un anno prima che eliminava un grado di appello avverso il diniego all’asilo.

Semplicemente si fanno i conti, timidamente con la realtà.

L’intervento è conseguente al sostanziale fallimento della “regolarizzazione straordinaria” proposta quest’estate e che per i tanti vincoli frapposti ha lasciato fuori centinaia di migliaia di aventi diritto. Tra le prerogative positive di tale articolo, esplicitato al comma 2, c’è il divieto di rimpatrio e di respingimento in paesi dove si rischiano trattamenti inumani e degradanti. Sulla carta dovrebbe essere già garantito dalla Costituzione e dai trattati internazionali nonché dalle tante Convenzioni a cui si sarebbe vincolati, ma il fatto che si sia dovuto ribadire fa comprendere come si siano disattesi negli anni tali obblighi.

Nello stesso articolo si interviene ribadendo l’obbligatorietà del soccorso in mare; si riducono le pene per le ONG che salvano persone rendendole non perseguibili laddove si ravvisi che il soccorso è necessario, ma si mantengono le limitazioni per il traffico delle imbarcazioni presenti nei pressi delle acque territoriali e internazionali. Restano troppi elementi di discrezionalità – cosa che caratterizza l’intero testo – per cui se da una parte si rendono meno potenti le intimidazioni pecuniarie e si lascia intendere che si sarà capaci di distinguere fra “reali soccorritori” e interventi considerati di “pull factor”, dall’altra permangono le limitazioni alla navigazione per le ong inserite da Minniti. Se e quando diventerà normativa il New pact on migration and asylum lanciato il 23 settembre, nel Mediterraneo centrale aumenteranno gli assetti di soccorso di Frontex, della Guardia costiera e di frontiera europea, nel frattempo il rischio che permanga il deserto nei soccorsi è forte.

L’articolo 2 del testo amplia i criteri per aver diritto ad una protezione speciale che non sostituisce la protezione umanitaria eliminata da Salvini. Qui vale la pena fermarsi per un breve viaggio indietro. In Italia non esiste una normativa unica per il diritto d’asilo compatibile con l’articolo 10 della Costituzione. Si sommavano fino al pre-Salvini tre opportunità: lo status di rifugiato, la protezione internazionale o sussidiaria e la protezione umanitaria per chi, pur non avendo direttamente diritto alle garanzie precedenti, rischia, in caso di ritorno in patria, di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti o a non poter godere delle libertà garantite dalla nostra costituzione. Togliendo, come ha fatto Salvini, quest’ultima opportunità si è violata nei fatti la Costituzione. La riforma, lungi dal ripristinare quanto c’era, allarga un po’le maglie per ottenere forme di protezione “speciale” mantenendo limiti di discrezionalità che rendono spesso difficile sentirsi al sicuro.

da qui

 

Decreto Immigrazione, Msf: “Dietro l’accoglienza rimane la criminalizzazione delle ong” – Eleonora Camilli

“E’ un decreto che strombazza principi di solidarietà e accoglienza ma, nei fatti, non smantella il messaggio propagandistico sul soccorso in mare. Le multe vengono ridotte ma rimane il principio di criminalizzazione delle ong”. E’ duro il commento di Marco Bertotto, responsabile Advocacy di Medici senza Frontiere sulle modifiche ai decreti sicurezza approvate in Consiglio dei ministri.

Il nuovo decreto Immigrazione interviene, infatti, anche in materia di limitazione o divieto di transito di navi nelle acque territoriali italiane. Nei casi di “ordine e sicurezza pubblica o legati a violazioni della leggi sull’immigrazione” il ministro dell’Interno può adottare un provvedimento di limitazione di concerto con i ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei trasporti, previa informazione del presidente del Consiglio dei ministri. Tale divieto non è previsto per le operazioni di soccorso “immediatamente comunicate alle autorità italiane e alle autorità dello Stato di bandiera” e condotte nel “rispetto delle norme di diritto interrnazionale e delle indicazioni del competente centro di coordinamento dei soccorsi in mare”. Per quanto riguarda le sanzioni si passa dal piano amministrativo a quello penale nel caso di violazioni, il riferimento normativo è all’articolo 1102 del codice della navigazione. Le multe previste variano da un minimo di 10mila a un massimo di 50mila euro.

Una previsione sanzionatoria che secondo le ong lascia intatto l’impianto di “criminalizzazione del soccorso in mare”. “Dopo una stagione estiva caratterizzata da naufragi e morti in mare, ci sembra una contraddizione profonda vedere che nel testo non c’è nessun riferimento a misure da adottare per rafforzare il salvataggio nel Mediterraneo centrale – sottolinea Bertotto -. Nei fatti l’attuale Governo ha continuato a chiudere i porti, utilizzando però tecniche diverse e nuove norme per fermare navi e aerei civili. Si fa tutto con meno livore, meno propaganda e meno violenza, ma anche solo la riduzione delle multe fa capire come si mantenga la logica finta che vede nel soccorso un’attività di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare”.

Il responsabile di Medici senza frontiere ricorda che quanto previsto dal decreto (e cioè le comunicazioni tempestive all’Mrcc competente e allo Stato di bandiera) viene sempre attuato dalle navi umanitarie in caso di soccorso di naufraghi. “Abbiamo sempre rispettato le convenzioni internazionali e il diritto marittimo, sono convinto quindi che le sanzioni non saranno mai applicate – aggiunge -. Anche nel caso di indicazione del porto di Tripoli per lo sbarco, il nostro rifiuto sarebbe in linea con le convenzioni internazionali. Non è questo il problema, il problema è il messaggio che si vuole dare: si mantiene la multa per mantenere la criminalizzazione. Ancora una volta prevale una logica di propaganda, con lo stesso spirito di contraddizione, per noi rilevatore, che poi ha portato al Codice di condotta di Minniti. Si mette in piedi un meccanismo che permette di dire che sotto c’è qualcosa di irregolare. E questo è sbagliato. E’ solo un feticcio in mano alle autorità. Anche nel recente Migration Pact gli Stati sono stati invitati a non criminalizzare le ong che fanno soccorso in mare, in Italia abbiamo ancora strada da fare”.

da qui

 

Rallenta la crescita degli stranieri. Il 64% degli alunni nato in Italia ma senza cittadinanza – Eleonora Camilli

Rallenta in Italia la crescita della popolazione straniera residente: dal 2018 al 2019 si registrano appena 47 mila residenti e 2.500 titolari di permesso di soggiorno in più. A questo si aggiungono la diminuzione delle nascite (da 67.933 nel 2017 a 62.944 nel 2019) e le minori acquisizioni di cittadinanza (passate da 146 mila nel 2017 a 127 mila del 2019). In tutto, il numero dei cittadini stranieri residenti in Italia (compresi i cittadini comunitari), è pari a 5.306.548 (con un’incidenza media sulla popolazione italiana dell’8,8%), la maggior quota è rappresentata dai rumeni (1.207.919). A fotografare lo scenario è il XXIX Rapporto Immigrazione di Caritas italiana e Fondazione Migrantes, presentato oggi a Roma.

Una popolazione sempre più stabile: famiglie e lavoratori

Secondo i dati del Ministero dell’Interno, i permessi di soggiorno validi al primo gennaio 2020 sono 3.438.707. I titolari provengono da Marocco (circa 400 mila cittadini), Albania (390 mila), Cina (289 mila), Ucraina (227 mila) e India, che con poco meno di 160 mila soggiornanti ha superato una nazionalità storica come le Filippine. Tutte comunità che da anni risiedono stabilmente nel nostro paese, come dimostrano anche i motivi dei permessi di soggiorno, in prevalenza ci sono quelli familiari (pari al 48,6% del totale), seguiti da quelli lavorativi (41,6%). Seguono i permessi collegati all’asilo e alla protezione internazionale (5,7%) e quarti quelli per studio (appena l’1,5%). La maggior parte dei permessi è a lunga scadenza (62,3% del totale); mentre quelli di breve durata si attestano sul 37,7. Nell’approfondimento dedicato all’apporto economico dell’immigrazione si evidenzia che in Italia nel 2018 il contributo dei migranti al Pil è stato di 139 miliardi di euro, pari al 9 per cento del totale. I circa 2,3 milioni di contribuenti stranieri hanno dichiarato 27,4 miliardi di redditi, versando 13,9 miliardi di contributi e 3,5 miliardi di Irpef. L’Iva pagata dai cittadini stranieri è stimata in 2,5 miliardi. “Si tratta di dati che confermano il potenziale economico dell’immigrazione che, pur richiedendo notevoli sforzi nella gestione, produce senza dubbio benefici molto superiori nel medio-lungo periodo – si legge nel rapporto -. Anche i costi per la gestione delle emergenze, che sono aumentati dagli 840 milioni nel 2011 ai 4,4 miliardi nel 2017, possono essere ammortizzati nel tempo, soprattutto se sostenuti da politiche capaci di ridurre l’irregolarità, che oggi è stimata in 670 mila persone”.

L’occupazione dei cittadini stranieri continua infatti a dare segnali di crescita, ma al contempo non registra significativi avanzamenti nella qualità del lavoro.La loro concentrazione è relegata in alcuni specifici settori, in cui le qualifiche e le mansioni ricoperte sono per lo più a un basso livello professionale o contrattualizzate a tempo (o con modalità precarie); le conseguenti differenze retributive con i lavoratori italiani, la ancora scarsa partecipazione delle donne (soprattutto di alcune nazionalità) al mercato del lavoro, l’adibizione a lavori manuali, con scarsa preparazione anche rispetto ai rischi per la sicurezza e, ancora, le scarse prospettive di crescita professionale dei più giovani. In tutto in Italia sono 2.505.000 i lavoratori stranieri, che rappresentano il 10,7% degli occupati totali nel nostro Paese. Il tasso di occupazione straniera si attesta intorno al 60,1%, superiore al 58,8% degli autoctoni; parallelamente, il tasso di inattività degli stranieri extra-UE (30,2%), per quanto elevato, risulta comunque inferiore a quello italiano (34,9%). L’87% degli occupati stranieri in Italia sono lavoratori dipendenti, concentrati soprattutto in alcuni settori: servizi collettivi e personali (642 mila addetti), industria (466 mila), alberghi e ristoranti (263 mila), commercio (260 mila) e costruzioni (235 mila).

860 mila bambini “stranieri” nelle scuole: “Cambiare la legge”

A sottolineare la presenza sempre più stabile delle comunità straniere nel nostro paese c’è anche l’aumento degli alunni nelle classi: la maggior parte nati qui ma non considerati ancora cittadini italiani. In particolare, secondo il rapporto, nell’anno scolastico 2018-2019 la perdita di 100 mila studenti italiani (-1,3%) dovuta al calo della natalità è stata compensata da un aumento di studenti con cittadinanza straniera, per lo più di seconda generazione, di quasi 16 mila presenze rispetto all’anno precedente (+1,9%) raggiungendo un totale di circa 860 mila unità ossia il 10% del totale della popolazione scolastica. Di questi ormai il 64,4% è nato il Italia ma non ha la cittadinanza: un dato che, secondo Caritas e Migrantes “rafforza sempre più la necessità di intervenire a modificare una vecchia legge, superando gli ostruzionismi politici, che legano i minori ad un fenomeno a sua volta ostaggio della politica; ovvero utilizzato per provocare o, al contrario, evitare, conflitto politico. I tassi di scolarità ci consentono di misurare indirettamente i livelli di integrazione dei giovani cittadini stranieri sul territorio. Infatti, nelle fasce di età 6- 13 anni i sopracitati tassi sono vicini a quelli degli italiani, mentre nell’ultimo biennio di scuola secondaria di II grado scendono al 66,7 per cento”. Nell’anno scolastico .2017/2018 gli studenti italiani in ritardo sono risultati il 9,6%, contro il 30,7% degli studenti con cittadinanza non italiana, che sono anche quelli a più alto rischio di abbandono, pari al 33,1%, a fronte di una media nazionale del 14,0%. Guardando infine i dati sull’inserimento scolastico terziario emerge che si tratta prevalentemente di studenti già presenti sul territorio italiano. Aspetto, quest’ultimo, che mette in evidenza la scarsa attrattività del sistema universitario del nostro Paese. Infine, il raporto si sofferma sull’impatto del Covid sulla scuola. In particolare dalla rete Scuole Migranti di Roma e del Lazio segnalano che, pur dotati di tablet – il Ministero ne ha fornito un numero notevole – i bambini stranieri non ricevono aiuto dai familiari per scarsa competenza informatica e difficoltà linguistiche. Se il prossimo anno scolastico si svolgerà con un sistema misto di lezioni in presenza e a distanza, potrebbero allargarsi ancora di più le disuguaglianze tra alunni stranieri e italiani. Anche da una ricerca di Caritas Italiana, in collaborazione con l’Istituto di Ricerca per la Crescita Economica Sostenibile (IRCrES-CNR), sulle forme innovative di supporto scolastico offerte agli studenti stranieri emerge che durante l’emergenza il 74% delle Caritas intervistate ha avviato oltre 600 azioni di supporto alla didattica a distanza, che hanno interessato prevalentemente minori stranieri accompagnati, i quali rappresentano l’80% degli utenti raggiunti da suddette azioni. Sono le famiglie già presenti qui, dunque, ad avere sofferto di più questa situazione. Il 61% delle Caritas rispondenti ha fornito non solo sostegno materiale, attraverso la distribuzione di supporti tecnologici, in prevalenza tablet (40%) e computer (37%), ma ha anche messo in campo azioni di supporto alla didattica a distanza attraverso il coinvolgimento di circa 170 operatori in attività di verifica dei compiti (40%) nel monitoraggio della partecipazione alle lezioni online (27%) e in lezioni a supporto/integrazione della didattica a distanza (33%). Per la rete Scuole Migranti tra le famiglie più in difficoltà si distinguono quelle di nazionalità bengalese e pakistana.

da qui

L’immigrazione legale conviene a tutti – Maite Vermeulen

Raramente mi è capitato di vedere un’idea tanto buona essere stroncata così nettamente.

Era il 12 febbraio, un paio di settimane prima che la pandemia da coronavirus raggiungesse i Paesi Bassi, e il politico dei Democratici D66 Maarten Groothuizen presentava alla camera la sua proposta: “Gestire la migrazione dei lavoratori”. Sottotitolo: “Per una migrazione dei lavoratori sicura, organizzata e temporanea”.

La proposta non era particolarmente allettante: i Democratici chiedono di guardare più seriamente alle possibilità che la migrazione per motivi di lavoro può offrire al paese. Questo istituendo una commissione che stabilisca quali siano i mestieri di cui c’è carenza e partecipando a progetti pilota europei nell’ambito dei quali venga rilasciato un visto di lavoro a un ristretto numero di lavoratori stranieri che si candidano per questi posti. Niente di clamoroso. Ma la camera non si è mostrata d’accordo.

Ecco un piccolo esempio delle invettive che sono piovute su Groothuizen sia da destra sia da sinistra: “Poco trasparente e miope” (Partito del lavoro), “Folle e pericolosissimo” (Partito per la libertà), “Manodopera a basso prezzo dall’Africa” (Partito socialista), “Ingenuo e fuori dalla realtà” (Partito popolare per la libertà e la democrazia). Viene da chiedersi se gli altri rappresentanti della camera abbiano letto la proposta dei D66, vista la facilità con la quale è stata gettata tra la carta straccia. Neanche i GroenLinks (Sinistra verde) si sono mostrati interessati, perché “è necessario pensare prima di tutto ai profughi”. Un po’ come i cavoli a merenda, insomma.

 

La chiave giusta
La creazione di nuovi canali d’immigrazione legale è uno dei pilastri della politica del governo olandese sull’immigrazione. Ma le reazioni alla proposta dei D66, e i risultati ottenuti finora dall’esecutivo, mostrano che si tratta più di un fregio decorativo che di una colonna portante.

Eppure l’immigrazione organizzata e temporanea di lavoratori da paesi a basso reddito sarebbe la soluzione a moltissimi problemi. Ogni porta sbarrata del dibattito sulla migrazione può essere aperta con questa chiave. E sia la destra sia la sinistra potrebbero rivenderla bene ai propri elettori, perché offre vantaggi a livello umanitario ed economico. Può salvare le società europee dall’invecchiamento e rendere il sistema di asilo più accessibile per i profughi. Converrebbe ai paesi europei e a quelli di provenienza dei migranti.

Ma fermi tutti: qualcuno ha detto “più immigrati”? Questa combinazione di parole sembra essere l’unico motivo per cui nei Paesi Bassi non può esistere un normale dibattito sull’immigrazione temporanea per motivi di lavoro.

Le cose però devono cambiare. Mi occupo d’immigrazione da anni e ho cercato insieme a esperti di tutto il mondo idee costruttive per una politica dell’immigrazione migliore (vale a dire: più umana, più onesta, più intelligente, più utile dal punto di vista economico). E ogni volta arrivo allo stesso risultato: la chiave è consentire una maggiore migrazione temporanea per motivi di lavoro. E non sono l’unica a pensarlo: centri studi, commissioni d’inchiesta e studiosi si dichiarano a favore di questa soluzione ormai da anni.

Ora che stiamo entrando in una gigantesca recessione, dobbiamo prendere sul serio questa ipotesi.

 

Posti vacanti
Proviamo a elencare i vantaggi. A cominciare da quello più evidente: stiamo diventando troppo vecchi. Di conseguenza l’economia olandese e quella europea avranno presto un gran bisogno di lavoratori extraeuropei. Bastano le cifre per far venire i capelli bianchi. La Commissione europea stima che tra il 2015 e il 2035 la popolazione europea di lavoratori diminuirà di 18 milioni di unità, più del 7 per cento. Nel 2012 nei Paesi Bassi c’erano ancora quattro potenziali lavoratori per ogni persona sopra i 65 anni, nel 2040 ne rimarranno solo due.

Nei paesi dell’Unione europea ci sono milioni di posti di lavoro vacanti, soprattutto nel settore tecnologico, nell’assistenza, nell’edilizia e in mansioni meno qualificate come quelle di commessi, addetti alle pulizie e autisti. Quasi un quarto dei datori di lavoro olandesi lamenta la carenza di personale adeguato. E per risolvere questa carenza l’immigrazione dagli altri paesi europei, come la Polonia e la Bulgaria, non è sufficiente.

La recessione causata dalla pandemia di covid-19 cambia poco: invecchiamo lo stesso e i nuovi disoccupati non si ritrovano all’improvviso con un diploma da elettricista, infermiere o sviluppatore di software in mano. E riqualificarsi in un altro settore non è una cosa che tutti vogliono fare e che tutti possono permettersi.

Un recente studio del ministero degli esteri olandese ha rilevato che negli stessi ambiti lavorativi in cui i Paesi Bassi hanno carenza di personale qualificato, in paesi come la Nigeria, la Giordania e la Tunisia le persone sono invece disoccupate o fortemente sottopagate.

I nigeriani continuano a fare richiesta di asilo, per il semplice motivo che non hanno altra scelta

Eppure è praticamente impossibile che ottengano un visto di lavoro per i Paesi Bassi, che invece hanno delle norme per favorire l’arrivo dei cosiddetti “migranti altamente qualificati”, vale a dire gli espatriati che guadagnano più di 4.612 euro lordi al mese. Qualcosa di simile esiste anche a livello europeo (la Blue card, un permesso di lavoro che può ottenere solo chi guadagna almeno il 50 per cento in più rispetto al salario medio nel paese di destinazione).

Ma l’offerta e la domanda riguardano soprattutto i lavori pagati un po’ meno. Tecnici, infermieri, personale di vendita. È per questi lavoratori che dobbiamo creare visti.

Ci sono anche altri vantaggi, che non riguardano l’economia ma la lotta al traffico di esseri umani e la prevenzione dei naufragi nel Mediterraneo.

Il sistema europeo di asilo è sovraccarico. In Europa quasi mezzo milione di richiedenti asilo attendono che la loro domanda venga esaminata. Tutto questo costa un sacco di soldi (i richiedenti asilo devono essere alloggiati e sfamati) e fa perdere ai profughi anni preziosi (non possono né lavorare né studiare).

Uno dei più grandi problemi del sistema di asilo è che molti dei richiedenti non ne hanno diritto. Sono i cosiddetti “migranti economici”: persone che fuggono dalla mancanza di prospettive, non dalla guerra. Il sistema di asilo non è pensato per loro. Dei 40mila nigeriani che hanno presentato richiesta di asilo nel 2017, il 91 per cento è stato rifiutato. Praticamente non hanno possibilità. Ma i nigeriani continuano a fare richiesta di asilo, per il semplice motivo che non hanno altra scelta. Non esistono visti di lavoro che possono richiedere. Così rischiano la vita in una traversata pericolosa e tentano la fortuna, finendo per sovraccaricare il sistema. E i nigeriani non sono certo gli unici: da anni ormai più della metà delle richieste di asilo in Europa viene respinta.

 

Un esempio che un’alternativa è possibile è la regolamentazione della Germania per i Balcani occidentali. Nel 2015 il sistema tedesco ha ricevuto decine di migliaia di richieste di asilo da cittadini dei Balcani occidentali che non avevano nessuna possibilità di ottenerlo. L’anno successivo la Germania ha messo a disposizione 20mila nuovi visti di lavoro per questi paesi. Le richieste d’asilo sono calate di quasi il 90 per cento: da 120mila nel 2015 a 11mila nel 2017.

Il calo non è dovuto solo ai visti. Nello stesso periodo la Germania ha accelerato la procedura di richiesta d’asilo per i paesi della regione e intensificato i controlli ai confini. Ma tutti concordano sul fatto che i visti hanno fatto la loro parte.

Una correlazione tra le possibilità di arrivare in Europa legalmente e i tentativi di entrarci in modo illegale emerge anche dalle cifre sulla migrazione attraverso il Mediterraneo. Quando il numero di visti destinati ai paesi dell’Africa occidentale cala, aumenta il numero di migranti che tentano la traversata.

Nel 2018 la commissione olandese sull’immigrazione ha affermato che più visti per motivi di lavoro e di studio sembrano essere il “modo migliore per limitare l’immigrazione irregolare”. Vale a dire: per ridurre il numero di morti nel Mediterraneo e ostacolare i trafficanti di esseri umani.

 

Un’altra possibilità
Forse starete pensando: tutto molto bello, ma chi garantisce che questa gente un giorno tornerà a casa? Prendete i marocchini e i turchi che sono venuti a lavorare nei Paesi Bassi negli anni sessanta e settanta. Più della metà di loro è rimasta.

È vero, ma c’è una considerazione interessante. Del primo gruppo di cosiddetti lavoratori ospiti arrivati negli anni sessanta, la maggior parte è ripartita. Solo negli anni settanta, quando i Paesi Bassi hanno fermato il reclutamento di lavoratori stranieri, gli immigrati hanno smesso di tornare in patria, perché sapevano che non avrebbero avuto un’altra occasione per venire. In altre parole, migrare era diventato una partita di poker in cui ci si poteva giocare solo il tutto per tutto: rimanere o andarsene per sempre.

Proprio come succede ora a chi si vede respingere la domanda di asilo. Molti non vogliono farsi espellere e scompaiono nell’illegalità perché sanno che ripartire significa non avere altre occasioni di tornare in Europa. Chi è riuscito a entrare nella fortezza Europa ci resta. Il viaggio è stato troppo costoso e troppo pericoloso per tornare indietro. Ma questo cambierebbe se, come per i marocchini negli anni sessanta, ci fosse la possibilità di entrare di nuovo con un visto di lavoro.

Ci sono diverse soluzioni per incentivare il ritorno nei paesi d’origine: offrire bonus per il rimpatrio, istituire un sistema obbligatorio di risparmio in base al quale una parte delle entrate del lavoratore viene erogata solo alla partenza, premiare i lavoratori che sono tornati in patria dandogli la precedenza per ottenere un nuovo visto o sanzionare i paesi dei cittadini che non rientrano concedendogli meno visti.

Offrire più visti di lavoro renderebbe inoltre maggiormente semplice rimpatriare chi si è visto rifiutare la richiesta di asilo. Attualmente il problema più grande è la scarsa collaborazione dei paesi di provenienza. È un gioco politico: da anni l’Unione europea cerca di concludere con paesi come la Nigeria o l’Etiopia accordi per favorire i rimpatri. Provate a indovinare cosa vogliono questi paesi in cambio? Esatto: più canali d’immigrazione legale.

 

Un rimedio per la paura
Non ho ancora citato il vantaggio maggiore dell’immigrazione legale: è molto conveniente per i paesi di provenienza. Già oggi i migranti mandano a casa 529 miliardi di euro all’anno. Per l’economia dei paesi in via di sviluppo sono cifre importanti: in Gambia o in Liberia le rimesse corrispondono a più del 20 per cento del pil. Se vogliamo eliminare la povertà e la disuguaglianza, gli aiuti allo sviluppo sono solo una goccia nel mare rispetto ai visti di lavoro temporanei.

Nel suo libro La globalizzazione intelligente (Laterza 2015) l’economista Dani Rodrik ha scritto che se i leader mondiali volessero davvero combattere la disuguaglianza, dovrebbero concentrarsi su un solo obiettivo: riformare le norme che limitano la mobilità internazionale dei lavoratori. Nessun’altra misura avrebbe un effetto paragonabile.

Qualcuno dice che più visti di lavoro causerebbero una fuga di cervelli dai paesi poveri: le persone più capaci verrebbero tutte a lavorare in Europa invece di restare nei loro paesi, dove ce n’è tanto bisogno. Ma gli studi mostrano che questo non sarebbe un problema, perché i numeri non sono così alti. Inoltre bisogna considerare che le rimesse dei migranti possono finanziare la creazione di piccole aziende e l’istruzione dei familiari.

Se i vantaggi sono tanti, perché nessun politico sostiene questa soluzione? Dipende dal fatto che controllo e limitazione dell’immigrazione sono equiparati. “Il fattore principale nell’infuocato dibattito sulla migrazione”, scrive l’esperta Katharina Natter, “è la sensazione di perdere il controllo”. La gente ha l’impressione di essere invasa dagli immigrati, che il proprio “stile di vita” subisca la pressione di nuove culture, di non essere più padrona del proprio paese. Sono questi i sentimenti che i partiti populisti di destra cercano di sfruttare proponendo di limitare l’immigrazione. Gli altri partiti credono di essere costretti ad accodarsi per non perdere voti. Controllo dei confini, collaborazione con la guardia costiera libica o con il governo turco: sono questi i metodi usati oggi per riprendere il controllo. Ma c’è un altro modo per rispondere a queste paure: più visti di lavoro temporanei. Attraverso l’apertura di più rotte legali per i migranti possiamo controllare l’immigrazione: decidere chi può entrare e chi no, rendere le cifre prevedibili e scegliere migranti che offrano un contributo alla nostra economia. E questo può aumentare il sostegno dei cittadini all’immigrazione.

 

Lavorare integra
L’aggettivo “temporaneo” è cruciale: non stiamo parlando di profughi che non potranno tornare nel loro paese per decenni a causa della guerra, ma di persone che avranno un contratto di qualche anno. Non ho mai sentito una discussione sull’integrazione dei ricchi espatriati. E i migranti economici sono proprio questo: espatriati, ma senza stipendi astronomici. Tutti gli studi confermano che il requisito numero uno per un’integrazione riuscita è avere un lavoro. E i lavoratori immigrati un lavoro ce l’hanno per definizione.

Ci sono diversi modelli a cui ispirarsi. A marzo in Germania è entrata in vigore una legge che favorisce l’immigrazione di lavoratori specializzati dai paesi extraeuropei. In Canada esiste un sistema a punti che coinvolge circa trecentomila immigrati all’anno. Sono stati proposti dei partenariati per eliminare le discrepanze tra la domanda europea e l’offerta dei paesi in via di sviluppo ed evitare la fuga dei cervelli. L’Australia e la Germania hanno addirittura già condotto con successo i primi esperimenti in questa direzione.

Quello che è certo è che dovremmo deciderci ad agire in questo senso. Non sappiamo ancora che effetto avrà la pandemia sul mercato del lavoro, ma l’invecchiamento della popolazione è inevitabile. Una recessione globale è l’occasione giusta per varare una misura che aiuti davvero i paesi poveri, colpiti più duramente da questa crisi, e riduca le disuguaglianze su scala mondiale. Se non dovesse funzionare, mi mangio il cappello.

(Traduzione di Valentina Freschi)

da qui

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *