L’isola stuprata

 di Daniela Pia

Alla fine di questo agosto tra folate di maestrale come colpi d’accetta, il tempo si è fatto lento e il mare si è fatto scuro. Nei toni, il granito di volti ancestrali è cupo, mastruche che avanzano in ombre. Così fra passi di scarpe e giri di ruote è stato il momento propizio per inoltrarsi attraverso le strade che vanno da Crabonaxa (Villasimius) all’indentro, verso il monte che si intuisce scostante, solitario di orme, se non di capre e pastori. E invece, fra inattesa foschia un granito squadrato si è imposto, nel deserto di uomini, laddove la montagna scavata e stuprata dal cemento è divenuta villaggio di vacanze, fantasma. Nessuno, tutto taceva fra polvere bianca e vetro e mattoni. Non si intuiva differenza fra le rovine dei villaggi dei minatori, abbandonati e retaggio di un tempo recente e lontano, nel prezioso Sulcis-Iglesiente, e che ancora trasudano vita e fatica. Luoghi in cui l’ uomo ha respirato la polvere del sottosuolo non la salsedine delle spiagge dorate, mentre le donne facevano la cernita del minerale e la fame stava in fila negli spacci della Direzione. Qui, oggi, nel deserto cemento, non si intuisce alcun vissuto, solo speculazione nel territorio violentato e deturpato, fatto alveare senza api, nel nome di un vacanza fumata e sfumata aspettando Godot.

Oggi non vi è traccia di spacci aziendali per acquistare il necessario, il turista scollacciato cerca ristoro nel supermercato o nel negozio di griffe impiantato in quello che un tempo è stato villaggio di pescatori e minatori, trasformato per sempre in mattonlandia e moderno spaccio che inneggia al superfluo. Regione dal volto bipolare la nostra Sardegna: fame di lavoro e ricchezza più o meno sfrenata. Disperazione all’Alcoa e nel sottosuolo di Nuraxi Figus accanto a risate e balli Smaila’s o briatoresche feste di danari sonanti.

A cercare, nemmeno tanto, i villaggi fantasma si susseguono in un territorio che, solo qui al sud, giunge sino alla costa del Rey e oltre. In attesa di turisti e sanatorie. Non si è recuperato il patrimonio esistente, discreto e ricco di storia che, inesorabilmente, cade in rovina, mentre la ruspa è diventato coltello a fregiare illusioni sfregiando la cultura.

Gli ordinati prati all’inglese impongono la loro inopportuna presenza, quando non divengono campi da golf, a scapito della più nobile macchia mediterranea, quella che non abbisogna di acqua sottratta e rara per noi, e che è verde fatto di Elicriso gentile, Lentisco maturo di bacche rubizze e Ginepro contorto e nodoso abbarbicato su un nulla di terra e su un tutto granito, scolpito dal vento maestro. Così mentre negli occhi si custodiscono i profumi i silenzi e il colore, la mente si attarda sulle ferite inferte dalle colate di cemento che vive, quando può, per due mesi e poi muore nei dieci seguenti, in un’agonia che il mare nasconde.

E incombe in sordina la nostra atavica isolana memoria, soppressa e repressa nel nome di un bene supremo chiamato lavoro, illusione che non si è concretizzata se non nella sottospecie di stagionalità subalterne e sfruttate, due tre mesi di lavoro sottopagato in cambio della terra e della storia, e viene da chiedersi ma non ci sono bastate le cattedrali nel deserto come Ottana? Non ci è stata sufficiente la Saras e i suoi fumi e le ciminiere e la malattia, impiantati proprio nel territorio che i Savoia re d’Italia avevano scelto come residenza per le vacanze? Non siamo ancora paghi delle isole come La Maddalena, e le scorie buttate a mare in cambio di villaggi per riccastri? Ci piacciono davvero i territori colonizzati dalle sindromi di Quirra? Quando apriremo gli occhi e avremo la consapevolezza di ciò che abbiamo fatto alla nostra terra svendendola ad ogni offerente sarà troppo tardi, è già troppo tardi . Eppure, se si tendono le orecchie, nei giorni di maestrale, si può ascoltare il lamento dei i S’ard danzatori delle stelle che, in un “ attitidu” doloroso piangono per i sardi di oggi convinti a danzare la lap dance del cemento sterile, inginocchiati e sottomessi.

Ma se di questi antichi nuragici qualcosa è rimasto forse può servire ricordare le parole di Urak il giudice, la cui figura, i custodi della memoria ci hanno tramandato nel bellissimo «Passavamo sulla terra leggeri» di Sergio Atzeni quando dice «vedo le navi al largo, i romani spiano la terra dei danzatori, ma non so come vivono, cosa pensano, in cosa credono, cosa vogliono. E’ certo che la questione interessa la vita delle genti dell’isola» allora potremo scopriremo il valore del monito dei pellerossa Cree: «Quando avrete inquinato l’ultimo fiume, catturato l’ultimo pesce, tagliato l’ultimo albero, capirete, solo allora, che non potrete mangiare il vostro denaro». Così sarà per la nostra terra.

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".