Luigi – Clelia Pierangela Pieri
Era strano, Renato, un ragazzo bellissimo al quale io tante volte rivolgevo un pensiero divertito che imprecava: “Perché sei omosessuale? Ecco, un’altra perdita per noi donne, tutti i migliori ci lasciano per un’altra strada”.
Renato non era poi davvero strano, ma erano anni in cui l’omosessualità faceva paura. Qualcuno parlandone dichiarava schifo, qualcuno pena e qualcun altro incomprensione. Secondo me, in realtà, restava in tutti la paura. Ci s’intimorisce di quel che non si conosce bene o non si condivide, e in quegli anni un uomo omosessuale di paura ne faceva ancora molta.
Si teneva sottobanco, quel timore, lo si tacitava e lo si nascondeva dietro un sorriso enigmatico che non voleva dire nulla. Voleva appunto dire solo un “mi astengo, non mettetemi in mezzo, non chiedetemi giudizi”.
Renato c’era stato presentato da amici ai quali ci legava un solido affetto e probabilmente solo per questo fu subito accettato senza ma e senza se.
Avevamo la possibilità di ironizzare, con Renato, e di capire finalmente più di quello che in giro si dicesse. Potere discutere schiettamente con lui dei perché e dei percome era nuova apertura della mente. Ci dava un senso che avvertivamo fondamentale: comprendere delle scelte, dei problemi, delle avversità e delle tristezze che la sua condizione solitaria, o quasi, gli spalmava continuamente sulla pelle.
Nelle nostre serate si mangiava allegramente e si beveva di buon gusto.
Eravamo talmente uniti e in sintonia da arrivare a scherzare sulla forma del suo culo come avremmo fatto con un’amica intima, ridendo, mentre alla presa in giro, complici, l’avremmo osservata scandalizzarsi e vergognarsi di un culo troppo grosso oppure piatto e poco femminile. Renato reagiva esattamente come una compagna di giochi e, sorridendo alle nostre osservazioni, ci gridava uno “stronziii…” dolcissimo. Noi sapevamo quanto fosse importante ridere con lui ma soprattutto ridere “di lui” che diventava così uno dei nostri in un tempo in cui gli era ancora molto difficile essere di qualcuno.
A sua volta, lui, “disegnatore d’abiti cos’altro se no” (si dichiarava), cominciava a prendere in giro il nostro buon gusto ovviamente carente, se non del tutto assente. Era il momento della sua vendetta e al suo arrivo, preannunciato dalla tripla scampanellata al portone, le ragazze cominciavano a sistemarsi meglio la camicetta, qualcuno indifferentemente si levava dal tavolo e andava a controllarsi di sghimbescio allo specchio dell’entrata. I ragazzi si chiedevano l’un l’altro sghignazzando “ma che cavolo di camicia ti sei messo…” c’era chi si osservava le scarpe sotto il tavolo come se già non le conoscesse e chi inorridiva ricordando d’avere trovato puliti, quella sera, solo i calzini bianchi e di averli anche indossati!
Eravamo un vero spettacolo e Renato sapeva bene d’averci in pugno in quel momento, finalmente era lui il nostro giudice.
I tempi delle nostre riunioni serali variavano passando, a volte improvvisamente, dal gioco alla serietà.
Vi sono tanti modi d’avere paura e Renato spesso aveva paura, un timore ben diverso da quello dei perbenisti preoccupati di potere intaccare, anche solo con il pensiero, la loro figura “regolare”.
Era stato picchiato tante volte da compagni occasionali, malmenato e derubato.
Era stato pestato anche per strada da bulli che non avevano di meglio da fare che scaricare su un uomo diverso da loro la violenza che ogni giorno andavano accumulando vivendo, probabilmente, vite insensate.
Così, Renato, viveva con terrore il ritorno a casa ma noi lo sapemmo solo dopo tanti incontri e se tutti se ne scandalizzarono e dispiacquero, fu anche lampante che nessuno volesse guardare a viso aperto l’unica possibile soluzione. Non si abitava distante l’uno dall’altro e quindi nessuno veniva in auto. Tutti a piedi si andava a casa della vittima che a turno ospitava gli altri e tutti a piedi, anche a smaltire qualche bicchiere in più, si tornava a casa.
Renato neppure a volerlo sarebbe potuto venire in auto: non aveva la patente. La soluzione stava solo nel fare il proprio giro di rientro più lungo e accompagnarlo a casa a piedi. Solo così il nostro amico non avrebbe più avuto la paura del ritorno, non avrebbe più temuto ogni sguardo alla sua persona sospettando che potesse diventare pericolo. Era bello, Renato, ma era caparbio nella scelta particolare del suo abbigliamento, in lui era evidente qualcosa di diverso già alla prima occhiata.
Quello era il momento in cui, di fronte al problema reale, occorreva decidere ed era chiaro che non si decideva solo per quella volta.
Si decideva per un comportamento generale e futuro da adottare con e per Renato.
Ricordo bene quella sera, in un battibaleno fu pietosa sequela di scuse: chi aveva fretta, chi aveva sonno e chi invece sentiva freddo.
Luigi, che fino a quel momento pareva non avere nemmeno ascoltato e capito cosa stesse accadendo, si alzò dalla sedia e con un sorriso ironico, misto a un’espressione decisa, disse:
“ti accompagno io, ma se mi prendono per un frocio, poi dovrai essere tu a dare spiegazioni ai miei futuri suoceri” risata generale. Rilassamento generale, la soluzione era giunta e i sensi di colpa già scomparsi.
Luigi.
La dolcezza di un vero uomo talvolta non risiede nelle tante parole e neppure nelle teatrali espressioni.
Luigi.
La dolcezza spesso rimane nascosta: occorre scavare per trovarla, darle luce e subito, per non rovinarla, nasconderla di nuovo.
per informazioni e invio testi:
clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo – onig1@libero.it
Toh! una scrittrice…
😉
Bel post, indicativo direi!
Ripartiamo dunque dall’amicizia!!!
Su Vongole & Merluzzi ci ci chiede invece se il “mito della psicoanalisi” può condurre all’individualismo!
Spero avrai modo e voglia di ricambiare la visita 😉
http://vongolemerluzzi.wordpress.com/2011/05/21/psicofornication/