Luis Bunuel e «Los Olvidados»

di Fabio Troncarelli

Il 22 febbraio 1900 nacque Luis Buñuel Portolès, in una cittadina dell’Aragona, dominata dal culto della Vergine del Pilar. Era benestante e fu spedito a Saragozza dai Gesuiti per avere la migliore educazione cattolica del tempo. Quell’educazione religiosa lasciò il segno, plasmando cuore e mente del più grande e irriverente spirito libero della Spagna del Novecento: gli insegnò tutte le astuzie e tutte le capricciose tortuosità necessarie per sbarazzarsi della religione, con una spregiudicatezza che solo i Gesuiti conoscono fino in fondo.

Ci sarebbe tanto da dire su Buñuel e il surrealismo ma temo che chi legge potrebbe annoiarsi di fronte alle troppe pagine necessarie per esplorare questo lato arcano, demoniaco, ribelle, allucinante del secolo “breve”. Mi limiterò a parlare di un film folgorante che non richiede troppe parole e troppi fronzoli: un film che si presenta in apparenza come realistico, più di un documentario. Film che invece esprime in un modo inquietante la dimensione surreale del presunto realismo, il quale alla fine sembra una visione dell’Apocalisse che ingoia la realtà come un mostro marino ingoiò Giona. Si tratta di «Los Olvidados», che vinse il premio per la miglior regia a Cannes nel 1951 trasformando il suo autore da pericoloso adepto della setta dei surrealisti in un presunto uomo di successo, che si lecca i baffi per l’impensabile libertà raggiunta e si prepara, luciferino, a planare con le sue lunghe ali nere sul mondo che lo osanna per ridurlo a un deserto di cenere e tenebre.

«Los olvidados» è una delle opere più terribili mai realizzate sull’infanzia e l’adolescenza. I piccoli criminali protagonisti del film sono completamente al di fuori della morale. Se qualcuno di loro prova qualche sentimento è destinato a essere massacrato e abbandonato in mezzo all’immondizia. Alla fine del film lo spettatore resta annichilito. Come ha scritto il grande critico francese André Bazin: «In questo mondo nel quale tutto è miseria e tutti lottano contro tutti, con qualunque arma capiti sottomano, nessuno è veramente peggio di sé stesso. Piuttosto che al di là del bene e del male, siamo al di là della felicità e della pietà». Il film è sempre stato apprezzato dai critici per il suo“realismo”. Ma si tratta di un’opinione errata. Se è vero che il regista ha preso a modello il De Sica di «Sciuscià» è altrettanto vero che ha tenuto presente la tradizione picaresca spagnola e in particolare «Lazzarillo de Tormes». Del resto, così facendo, ha permesso alla sua opera di superare il livello della testimonianza e della cronaca. La maggioranza dei registi di oggi se affrontano il problema di “certi bambini” che popolano l’inferno delle metropoli cadono infatti nella trappola del realismo; credono che per essere efficaci sia necessario inseguire la cronaca. Buñuel invece è grandissimo perché della cronaca se ne infischia e colloca i suoi bambini in un’atmosfera fuori del tempo, quasi da Kammerspiel. I bambini di Bunuel sono mostri proprio perché non sono mostri dal punto di vista realistico ma solo ombre di un teatro di ombre. Perfino il sangue e i particolari macabri ci sono risparmiati. Che bisogno c’è di esibirli? Quel che deve restare conficcato nel cuore è lo sgomento degli occhi irrequieti, smarriti, terrorizzati dei protagonisti, che possono chiudersi per sempre, da un momento all’altro, ma prima di chiudersi vedono come in un incubo avanzare verso di loro esseri solenni, misteriosi, crudeli che svelano come la vita sia stata solo un sogno angoscioso.

Come fa Buñuel a essere così distaccato senza divenire freddo? La ragione vera della sua grandezza sta nel fatto che il regista ha una solida, anche se spietata, visione del mondo: i bambini non gli interessano in sé e per sé ma solo in quanto manifestazioni della malvagità dell’universo. Certo, i bambini gli fanno pena; suscitano in lui perfino una stanca, desolata pietà. Né più, né meno però degli altri esseri umani, tutti egualmente abietti, tutti egualmente disperati. Buñuel, che da giovane studiava con passione l’entomologia, vede gli esseri umani come insetti, replicanti del Gregory Samsa di Kafka che un sortilegio ha mutato in scarafaggio. Di simili creature si possono solo analizzare, con precisione maniacale, i comportamenti disumani. La lotta per la vita è lo sfondo delle loro imprese poco eroiche. Non è un caso se il prologo del suo capolavoro giovanile, «L’Age d’or», fosse una descrizione della vita degli scorpioni. Sotto l’insegna di questo blasone satanico va collocata l’avventura umana: anzi la disavventura umana, nella quale gli individui, come gli scorpioni, pieni di furore, si scontrano con forze più grandi di loro. È interessante osservare che il protagonista dell’«Age d’or» – simbolo dell’uomo che vorrebbe abbandonarsi ai suoi istinti sessuali repressi dalla società – aggredisce un cieco, sfogando per un attimo su un altro “oggetto” le pulsioni rifiutate dall’ordine sociale. Allo stesso modo, anche negli «Olvidados» il protagonista, il crudele Jaibo (granchio in spagnolo: quasi uno scorpione!) assale un cieco con altri ragazzi, sfogando così la sua rabbia, il suo rancore di emarginato. Il suo gesto malvagio lo affratella all’uomo che lottava per liberare la sua libido. Questo provoca uno choc allo spettatore che conosce i trascorsi giovanili del regista. Dunque il ribelle che a vent’anni credeva, come Freud e Rousseau, che l’uomo fosse vittima della società giunto a cinquant’anni è divenuto un cinico, insensibile osservatore della realtà? È solo apparenza. Il regista continua a credere che l’uomo è una bestia, anzi un insetto, che non può reprimere la sua natura. La differenza è che prima poteva solo distruggere l’ordine sociale o essere distrutto dalla società. Adesso a distruggersi ci pensa da solo. Un simile atteggiamento può rivelarci qualcosa sui bambini o sugli adolescenti dal punto di vista psicoanalitico? A essere sinceri no. Se cerchiamo una descrizione attenta, empatica, sincera della vita dei piccoli protagonisti del film non la troveremo. L’immagine terrificante dell’infanzia negli «Olvidados» dipende da una visione del mondo indipendente dall’infanzia. Una visione profondamente radicata nell’identità spagnola del regista. Buñuel, il poeta dell’abbrutimento, è feroce e dissacrante come Goya. Ha imparato da Ribera e da Vélazquez l’arte di esibire il lato ripugnante, selvaggio, indecente, indigeribile dell’esistenza, senza battere ciglio. Il suo presunto “realismo” o “neorealismo” si ferma lì. Ma non si ferma la sua mente fervida. Al di là del deserto chiamato vita c’è quella realtà superiore, quella super-realtà che può conoscere solo il surrealismo, in cui ha creduto con passione nella sua giovinezza: la verità del sogno, della visione, del mistero. È questo il lato che può offrire spunti di riflessione allo psicoanalista. La scena più bella e significativa del film è, a mio parere, la rappresentazione irreale ma lucida di un sogno: a un bambino disperato appare sua madre, nei panni di una Vergine sacrilega; un idolo beffardo e crudele, che gli si accosta con oscena brutalità per offrirgli, con un sorriso di trionfo, un pezzo di carne cruda, simbolo trasparente della propria sessualità nuda e cruda. Mettendo in scena questa mostruosa allegoria, in cui l’incesto ha la violenza del delirio, Buñuel il surrealista ha veramente svelato una parte segreta di sé, che ci permette di comprendere, per analogia e senza ideologia, anche i segreti degli esseri umani. Stavolta il suo bambino atterrito ci atterrisce davvero: non perché è un insetto ricopiato da Kafka, ma perché è veramente terrorizzato, come possono essere terrorizzati i bambini sottoposti all’abiezione degli adulti, che non conoscono più il sogno ma solo l’incubo.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

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Un commento

  • Per quanto possa valere la mia opinione, questo è un pezzo esemplare! Aggiungerei solo un frase di Buñuel: “Grazie a Dio sono ateo”.

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