«L’ultimo uomo sulla Terra» di Ubaldo Ragona

una pillola di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia

Immaginate la cara e bellissima Roma, ai giorni nostri, piena di vita e di movimento, con tutti i suoi problemi di viabilità, di abitabilità, le strade congestionate, i mezzi pubblici che non vanno, con seri problemi abitativi, con un sano scambio di maledizioni e gli sfottò ai danni di chi ha perso l’ultimo derby calcistico. Ok, non tralasciamo nemmeno il Vaticano, affollato di fedeli, oppure le grandi opere lasciate a marcire dopo la “sana” speculazione edilizia: non manca niente, nemmeno il Parlamento, che dovrebbe essere la casa del popolo.

Immaginate che tutto questo si zittisca in un attimo.

Sentite questo silenzio assordante provenire da fuori della vostra casa, dove siete rimasti soli, la tv non trasmette nulla, tutti i canali sono inondati dal pulviscolo nero.

Guardate fuori e non vedete gente.

Scendete per le strade, completamente svuotate, le sedie ai bar sono vuote, le auto parcheggiate e nessuno al volante, i giornali volano da una parte all’altra spinti da un vento sibilante che taglia il vostro udito come una mannaia.

Siete soli, ma non del tutto. Lo scoprirete di notte, dove sono finiti tutti. Lo scoprirete quando vedrete quali drastiche misure il governo ha dovuto adottare per l’epidemia sconosciuta che stava colpendo tutta la popolazione, alla quale apparentemente sembra non esserci cura.

«L’ultimo uomo sulla Terra» (1964) è uno dei capolavori della cinematografia italiana di fantascienza, una coproduzione italo-statunitense diretta dall’ottimo Ubaldo Ragona, con l’aiuto di Sidney Salkow, tratto dal celebre romanzo «Io sono leggenda» di Richard Matheson, sceneggiato con bravura da Furio Monetti e che gode dell’eccellente fotografia di Giorgio Delli Colli e delle essenziali scenografie di Giorgio Giovannini: una di quelle pellicole che rimangono negli annali per la sapiente realizzazione senza disporre di un budget stratosferico, tutto giocato sui chiaroscuri, sulla suspence e l’uso degli ambiente reali (l’Eur).

Il dottor Robert Morgan (interpretato dal grande caratterista Vincent Price) è l’ultimo essere umano sopravvissuto a una tremenda epidemia che ha trasformato gli altri umani in vampiri. Da tre anni le sue giornate scorrono uguali: di giorno, i vampiri, che temono la luce del sole, trovano riparo, mentre Morgan, armato di paletti di legno, gira per la città, individua i rifugi dei non-morti e li elimina impalandoli e bruciandone i corpi. Di notte il dottore si rifugia in casa propria, appendendo alle porte specchi e aglio, che i vampiri non possono sopportare. Di tanto in tanto Morgan cerca di comunicare con qualche eventuale sopravvissuto attraverso una radio ma sempre senza successo. Il suo riposo è accompagnato dal frastuono dei vampiri che si affollano alla porta di casa, assetati di sangue.

Morgan rievoca i tempi felici con la moglie Virge (Emma Danieli) e un flashback mostra i primi passi dell’epidemia, che dall’Europa muove verso l’America: Morgan è uno scienziato, impegnato a cercare un vaccino che sconfigga il bacillo. Le autorità proibiscono alla popolazione di seppellire i corpi e impongono a tutti di consegnarli alle forze dell’ordine, in modo che i cadaveri vengano bruciati in una enorme fossa comune. Sam Cortman (Giacomo Rossi Stuart), giovane assistente di Morgan, è convinto che le pire siano organizzate per evitare che i cadaveri tornino in vita, ma la sua teoria trova resistenza nello scetticismo di Morgan. Anche il corpo della figlia di questi viene sequestrato. Quando però anche la moglie si ammala e spira, Morgan decide di seppellirla di nascosto alle autorità. Poche ore dopo, però, Virge torna in casa, vampirizzata: la teoria di Cortman è corretta. Qui si conclude il flashback.

La monotonia dei giorni solitari di Morgan viene spezzata dal breve incontro con un cane. Ansioso di conquistare la sua compagnia, Morgan cerca di avvicinarlo, ma il cane scappa oltre una collina. Il dottore vaga per la città alla sua ricerca, senza successo, ma si imbatte in corpi impalati con lance di ferro, il che gli suggerisce che forse non è l’unico sopravvissuto. Qualche tempo dopo il cane riappare alla porta di Morgan che lo accoglie e medica, pregustando la sua compagnia dopo anni di totale solitudine. Ma l’analisi del sangue del cane gli mostra che anche la bestiola è infetta: dovrà impalarla. È in quel frangente che, a distanza, scorge una donna (Franca Bettoja): le si avvicina, ma questa fugge via, terrorizzata. Raggiuntala, Morgan la convince a seguirlo in casa.

I due si apprestano a cenare e la donna rivela di chiamarsi Ruth e di aver perso il marito. A Morgan viene in mente di testare la sua reazione all’aglio: prende una corona e l’avvicina alla donna, che la respinge soffocata. Morgan, sconsolato, le comunica che anch’essa è affetta dal morbo, ma la donna sostiene di essere sempre stata di stomaco sensibile. Ruth va in camera da letto e tira fuori una siringa. Il dottore le chiede cosa sia. Ruth gli rivela che si tratta di un vaccino in grado di contenere il morbo, pur non curandolo del tutto: se non assume la dose tornerà a essere un vampiro. Un’intera comunità di umani nelle sue stesse condizioni si mantiene in vita sotto trattamento: intendono rifondare la società umana con l’aiuto del vaccino. Il solitario dottore è per loro un’autentica leggenda, l’unico rimasto misteriosamente immune al male: immunità che Morgan ha attribuito a un morso ricevuto da un pipistrello infettato dal morbo, durante un viaggio a Panama. Ruth rivela a Morgan che il loro incontro non è casuale: ella è stata inviata dalla sua comunità per comprendere cosa tenga in vita Morgan e se egli sappia qualcosa più di loro. In ogni caso intendono liberarsi di lui, per loro è un mostro per loro: nei suoi giri di ronda ha impalato molti membri di quella comunità. Ruth tira fuori una pistola e la punta contro Morgan: il suo compito è trattenerlo in casa, in attesa che i compagni sopraggiungano per finirlo. Vinta però dalla fiacchezza e dalla umanità di Morgan, si lascia disarmare. Mentre Ruth dorme, Morgan opera una trasfusione del proprio sangue nel corpo della donna. L’effetto è immediato: Ruth guarisce. Ma i compagni di Ruth hanno già accerchiato la casa, impalando i vampiri che la attorniano. Morgan fugge, riuscendo a uccidere a pistolettate alcuni persecutori. In un commissariato si impossessa di bombe lacrimogene: usandole riesce a raggiungere una chiesa, sul sagrato della quale viene però colpito da un’arma da fuoco. Giunto sull’altare, Morgan è infine colpito al petto da una lancia di ferro. Accasciandosi al suolo, bolla i suoi nemici come mostri e dichiara di essere l’ultimo vero uomo sulla Terra.

Quando Ruth lo raggiunge, Morgan, agonizzante, le manifesta lo sconcerto procuratogli dalla paura che suscita a quella gente. Morto il dottore, Ruth si avvicina a un bimbo che piange in braccio alla madre e gli dice che non c’è ragione di piangere, perché sono tutti salvi.

«Fedele adattamento del libro di Matheson, “L’ultimo uomo sulla Terra‘” è uno di quei film a lungo dimenticati, sottovalutati e riscoperti solo di recente. Se oggi le critiche sono positive, al tempo della sua uscita il film venne ignorato o al più liquidato per una evidente povertà di mezzi (malattia endemica per il cinema italiano di genere) e per lo strabordante Vincent Price. Classificato come film dell’orrore, in bianco e nero, e per di più italiano, il film sembrò non dovere meritare attenzione da parte degli esperti di cultura cinematografica. […] Il quartiere romano dell’Eur […] diventa uno scenario freddo, irreale, proprio di una città apocalittica della quale lo stile di recitazione enfatico e teatrale di Price interpreta l’incubo in maniera appropriata […] atteggiando il volto a maschera isterica e piagnucolante e prorompendo in una ultima agghiacciante risata»: così scrivono Lattanzi e De Angelis in «Fantafilm».

I pregiudizi impediscono al film di conoscere un giusto successo già all’uscita. La mentalità non sembra cambiata: la povertà di mezzi spesso viene associata alla povertà del film, mentre assistiamo – soprattutto in tempi recenti – al contrario, con megaproduzioni extra miliardarie che risultano vuoti giocattoloni nel migliore dei casi, o videogame non interattivi nel peggiore, come per il blasonato «Avatar» di James Cameron, spettacolare ma vuoto completamente d’idee. Niente da stupirsi per un prodotto industriale.

Invece il film di Ragona, povero di mezzi ma ricco d’idee, unisce sapientemente atmosfere da fantascienza post apocalittica ad atmosfere orrorifiche di grande impatto, che spesso sfociano nel surrealismo, come nella scena in cui il dottor Morgan si aggira per Roma alla ricerca dei nuovi vampiri per ucciderli, richiamando certe atmosfere di Bunuel e Salvador Dalì, un autentico rasoio negli occhi dello spettatore.

La condizione umana viene ben espressa nel film senza bisogno di narrarla: è li, dinanzi agli occhi, la solitudine dell’uomo dinanzi all’inspiegabile che irrompe di soppiatto nell’esistenza, distruggendola con grande facilità. L’impotenza della scienza è chiara: il dottor Morgan non trova la cura e non c’è spiegazione al fatto che egli sia immune al virus Vampiris, l’essere umano può solo adattarsi a diventare una nuova specie. La vecchia umanità diventa leggenda.

Secondo Valerio Evangelisti, il film è il più fedele al romanzo di Matheson sia come trama che come sceneggiatura sebbene differisca, come gli altri due film, per l’ambientazione (in origine una piccola città della California).

Altre differenze: la cura nel romanzo originale non esiste. Robert nel romanzo afferma più volte che per la malattia prodotta dal Vampiris non riesce a trovare una cura, nonostante la sua immunità. Anche il finale di Ragona si discosta leggermente dal romanzo dove il protagonista si chiama Robert Neville e non Morgan, mentre le sue conoscenze mediche sono da autodidatta.

Le riprese iniziarono il 21 gennaio 1963, presso gli studi Titanus della Farnesina, per gli interni; gli esterni furono girati in varie località di Roma, fra i quali si riconoscono: il quartiere dell’Eur, lo stadio e il cimitero Flaminio, il Foro Italico, piazza della Balduina, Ponte Flaminio, i colli della Farnesina, la chiesa di San Pio X, il lungomare e la zona Stella Polare di Ostia Lido. La prima proiezione, secondo fonti non accreditate, avvenne nell’agosto 1964 a Roma.

 

 

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