L’Ungheria a casa nostra: sulla deportazione annunciata di 66 donne nigeriane

di Jacopo Di Giovanni ed Enrica Rigo (*)

PonteGaleria

Lo scorso 17 settembre nel pomeriggio una trentina di donne nigeriane è stata rimpatriata con un volo speciale della Meridiana da Roma-Fiumicino verso Lagos. Circa venti di loro facevano parte di un gruppo di 66 donne, sbarcate in Sicilia a fine luglio e trasferite al Cie di Roma (Ponte Galeria) sulla base di un criterio per cui, quando i centri Cara per richiedenti asilo sono troppo pieni, i migranti intercettati in mare o durante gli sbarchi vengono portati nei Cie. La potenza della legge si misura soprattutto nella sua capacità di fare cose con le parole: basta ritardare il momento in cui viene data la possibilità di inoltrare la domanda d’asilo e i profughi diventano per legge «clandestini» che hanno eluso i controlli di frontiera e passibili, come in questo caso, di essere trattenuti in un centro di identificazione e di espulsione. La scelta fra chi trasferire nei Cara e chi nei Cie segue regole tacite (tanto più indicibili quanto più osservate) che rispecchiano i Paesi di provenienza. Se si viene dalla Nigeria è molto probabile che il Cara sia pieno e il posto si trovi solo al Cie.

Durante l’estate, il caso delle 66 donne ha avuto qualche eco sulla stampa, sia per l’interessamento di alcune campagne di attiviste e attivisti, sia perché i giornali potevano parlare delle donne, tutte giovanissime, come di potenziali «vittime di tratta». Anche in questo caso, le qualificazioni del diritto dovrebbero far riflettere. Vittime sì, ma non di qualsivoglia carnefice. Solo poche tra loro hanno ottenuto in prima battuta uno status di protezione. Ancora una volta, la scelta ha seguito regole non dette: chi portava sul corpo le cicatrici delle violenze è stato preferito. Corpi del sacrificio, riconosciuti solo come tali. E quindi corpi sacrificabili, come i corpi delle donne che sono state rimpatriate.

Ognuna di queste donne è sicuramente vittima, non di uno ma di molteplici carnefici. Il patriarcato, le guerre, l’industria del sesso, gli scafisti, e non da ultimo l’apparato repressivo del regime dei confini europei. Ma la maggior parte di loro ha scelto di rappresentare la propria istanza come un’istanza politica, chiedendo asilo. È vero, la tradizione del diritto d’asilo si è sempre mossa su di un terreno ambiguo. L’identità politica che esso rivendica è, in primo luogo, quella della comunità ospitante. La prerogativa di accogliere chi si riconosce come esule politico è sopra ogni altra cosa una rivendicazione di sovranità nei confronti degli altri Stati. Basti pensare che, nel processo di secolarizzazione dell’asilo, alla costruzione giuridica del diritto d’asilo si è sovrapposta quella del divieto di estradizione. Eppure, proprio in virtù di questa rivendicazione di identità politica, le radici profonde dell’asilo non sono da ricercarsi nel rifugio concesso alle vittime bensì nell’immunità riconosciuta al reo in quanto colpevole.

Anche i corpi delle donne rimpatriate, così come quelli delle altre ancora trattenute, portano i segni di una colpa. Quella di aver scelto di salvarsi da sole, fuggendo dai molteplici carnefici incontrati sulla propria strada. Non può essere detto, ma si tratta di una colpa inaccettabile. Potremmo attribuirle nomi diversi: hubrys, tracotanza, sfacciataggine o più semplicemente indolenza, indifferenza verso un ordine. Probabilmente, nessuna offesa è più insopportabile di questa.

Se il diritto la riconosca come una colpa degna di protezione, non è dato saperlo. Mentre le donne venivano rimpatriate il Tribunale disponeva per alcune di loro l’ordine di sospensione dell’esecutività del rimpatrio, in attesa della decisione definitiva sulla protezione internazionale. Ma, in alcuni casi, la decisione è arrivata troppo tardi; tecnicamente, una volta che l’aereo è in fase di decollo, l’ordine di sospensione è improcedibile. Non si tratta dello stato di eccezione (una volta tanto sarebbe forse il caso di chiarirlo) ma del funzionamento normale della giustizia. Non di quella corrotta e inefficiente, ma di quella ordinaria, legittima e legittimata attraverso un meccanismo decisionale. A ogni violazione corrisponde un rimedio, un’altra possibilità di decisione.

Anche in questo caso, anche per le donne rimpatriate, esiste una possibilità di rimedio (per esempio di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che si rivelerà tanto più efficace quanto più rapida sarà la proposizione dell’istanza per una nuova decisione (innanzitutto sulla procedibilità del ricorso). Può sembrare uno scioglilingua per giuristi ma, tradotta nel linguaggio profano della vita, la questione di merito non significa altro che, ogni giorno che passa, il «pericolo imminente» corso dalle donne a causa del rimpatrio perderà di credibilità come motivo fondante del ricorso. In altre parole, la loro capacità di resistenza, di nascondersi e sfuggire all’incarcerazione, alla violenza alla morte, non è per il diritto che la prova di una colpa indegna.

E allora, di fronte all’inutilità del rimedio, non resta che augurare a ognuna di loro di resistere il più a lungo possibile. Di fuggire ancora, e di tornare.

La vicenda delle donne rimpatriate in questi giorni da Ponte Galeria è passata quasi del tutto sotto silenzio. Chi l’ha raccontata, ne ha riferito, certo con dovizia di particolari, aspetti diversi. La decisione di raccontarla svestendo i panni dei giuristi o degli studiosi è una scelta di militanza, che è ormai una necessità che non può essere più rinviata. A Ponte Galeria così come a ogni confine d’Europa.

(*) Ripreso da “Connessioni precarie”

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