M come Marcellopolitana

di Lucia Pepe

Grande, su uno sfondo rosso, posta ben in alto, non può proprio sfuggirti quella M che trovi ad intervalli irregolari in giro per la città. Le prime volte ti sembrano tutte uguali queste bandierine, tanto che non sai se sei tornato al punto di partenza o se hai camminato tanto da arrivare alla «prossima stazione».

«Apertura porte a destra» . «Permettere la chiusura delle porte». Le frasi che continuano ad uscire dagli altoparlanti della metro sono ormai una voce familiare per me, quasi amichevole; anche se a volte la notte quando ho bisogno di dormire un po’ vorrei distruggere tutti i ripetitori e impreco contro quegli stupidi che hanno bisogno di una voce che spieghi loro da che parte scendere, perché non possono distogliere nemmeno un attimo lo sguardo dal loro i-phone!

Quando sono arrivato in questa città, non avevo mai visto una metropolitana: da noi non ci sono, a noi piace stare allo scoperto…(o forse ci viene troppo difficile realizzare qualcosa di utile) e ora questo posto è diventato il mio luogo di lavoro nonché la mia casa.

Sì, credo proprio che quella tanto anonima, quanto vistosa M sparsa in giro per la città, stia ad indicare proprio me: Marcello, come una sorta di nome scritto sulle targhette del citofono. Marcello, grande imperatore, se la merita proprio una tanto estesa casa sotterranea con annesso irrefrenabile brulicare di gente.

Quante volte mi sono fermato a osservare volti, passi, gesti, parole della gente all’apertura delle porte: tante formichine che vanno tutte nella stessa direzione, ma tutte diverse. E comincio a raccontare a Mimì le storie che mi immagino per alcuni di loro: sono davvero bravo! Immagino la loro famiglia, che tipo di lavoro fanno, dove stanno andando e, a volte, mi avvicino abbastanza da sentire se ho indovinato che musica esce dalle cuffie che hanno alle orecchie, e spesso ho pure indovinato. Sarebbe bello se bastasse avvicinarmi un po’ di più per sapere anche se le vite che ho immaginato per loro somigliano alla realtà. Credo che anche a Mimì piaccia questo gioco, ma per lui è tutto più semplice, gli basta un’annusata per capire molto di più.

Tanti nel vedermi gettano uno sguardo impietoso verso di me e compassionevole verso Mimì. «Perché se già fa fatica a procurarsi un tozzo di pane per sé, ha preso pure un povero cane?!» sicuramente si chiedono. In realtà credo sia stato lui a scegliermi e a continuare a prendersi cura di me; dividere il mio pasto con lui è davvero una misera ricompensa per tutta la sua pazienza nell’ascoltare le mie storie, sopportare le mie sbronze. Sì, una misera ricompensa per la sua fedeltà nei momenti in cui tutti vanno via.

Ho sempre immaginato che la prima volta sia rimasto accanto a me perché incuriosito da una delle mie storie sui passanti.

Mi piace davvero la gente in metro: per il tempo del tragitto è come se diventassero tutti uguali, stanno seduti fianco a fianco l’imprenditore e il venditore ambulante, la cinese e la peruviana, il ragazzo alternativo e la signora con pelliccia; a volte c’è un po’ di stizza fra gli uni e gli altri, ma sino alla «prossima fermata» non possono far a meno di osservarsi l’un l’altro, almeno un po’ , e lo sguardo è il primo spiraglio verso il mondo di chi ti sta di fronte.

Poi ci sono anche quelli tutti uguali o meglio che lo sembrano: giacca, cravatta, valigetta e i-phone. I-phone dal quale un momento prima vengono inviate normali e formalissime mail di lavoro, e che un momento dopo squilla insistentemente, e il tizio, costretto a rispondere, intavola improbabili conversazioni con la mamma in inconfondibile accento siciliano o campano, distruggendo teneramente l’ingombrante maschera dell’uomo d’affari milanese.

Io non ho un cellulare, ma se lo avessi vorrei usarlo solo in metro; che poi chissà perché nelle gallerie del «mondo di su» non c’è mai ricezione, mentre negli antri degli «appartamenti di Marcello» i cellulari funzionano sempre benissimo.

A volte le telefonate rovinano le storie fantastiche che sto inventando, ma è comunque interessante sentire ( senza bisogno di origliare: tutti parlano come se fossero da soli nel deserto) svariate, policrome telefonate: dai racconti di appassionati tradimenti a litigi da separazione; o semplici, composte e gentili telefonate di lavoro o con amici poco graditi con seguente commento tutt’altro che amichevole a fine chiamata.

Una notte cercando qua e là trovai una giacca blu: era proprio come quelle degli omini tutti uguali che brulicano di giorno: mi venne subito in mente un’idea. Mi misi a frugare immediatamente nel mio carrello di “Marcello Poppins” e venne fuori quello che cercavo: una camicia, che avevo trovato qualche giorno prima, le mancavano le maniche e aveva una terribile bruciatura sulla schiena ma con la giacca che avevo appena trovato sarebbe stata perfetta. Provai subito il mio nuovo look e Mimì cominciò a saltellarmi intorno scodinzolante: sentiva il mio entusiasmo. Così vestito, il mattino seguente potei entrare in un bar e lavarmi un po’, qualche spruzzo di profumo dai tester di una profumeria e il gioco era fatto.

No, non volevo provare come ci si sente ad andare in giro vestiti in tal modo (ho sempre preferito le strambe vecchiette con abiti colorati ai tipi in giacca e cravatta) era solo, per così dire, un travestimento per raggiungere il mio obiettivo.

Per un giorno sarei stato l’inviato di Radio Mimì Milanomigliore, inviato sul campo per un’inchiesta dal titolo «Le vite sottoterra» o qualcosa del genere. Avrei realizzato il mio sogno: fingendomi giornalista (tanto ormai anche la domanda più stramba non suscita scalpore) avrei svolto un’inchiesta sulle vite della gente della metro e scoperto se la realtà corrispondeva alle storie che immaginavo.

Inizialmente mi scoraggiai un po’: tutti di fretta, con impegni impellenti; nessuno era disposto a prestarmi attenzione, allora capii che mi serviva un’esca. «Dalla metro di Milano alla metro di New York. Partecipa alla nostra inchiesta e vinci un viaggio nella grande mela!». Ero riuscito a catturare l’attenzione delle formichine frettolose, vai con le domande.

Salve signora, Radio Mimì milanomigliore sta svolgendo un’inchiesta sulle vite della gente che usa la metro. Ha un minuto per qualche domanda? Dove sta andando adesso: casa, lavoro, fidanzato, shopping? Cosa fa nella vita? Una cosa positiva o una negativa che le è successa oggi”.

Ciao ragazzi. Qualche domanda per la nostra inchiesta: siete amici? Fratelli? Andate a scuola? Una cosa positiva o negativa che vi è successa oggi?”.

Scusi, scusiii… sì parlo con lei. Può partecipare anche lei alla nostra inchiesta certo. Vuole raccontarci come mai va in giro per la metro con un microfono e un amplificatore? Una cosa positiva o negativa che le è successa oggi?”.

Le risposte? Non saprei, non le ricordo bene… pensavo fossero quelle il punto importante, invece no. Non volevo sapere davvero della vita di tutta quella gente. Volevo solo provare ad andare oltre i loro sfuggenti sguardi.

Alla fine della mia appassionante giornata non potei dire né che le apparenze ingannano né che il mio intuito era quasi infallibile, ma preferii tornare al mio vecchio punto d’osservazione e carpire nell’attimo di uno sguardo cosa può esserci dietro uno sbadiglio, un sorriso, un certo vestito, un determinato andamento. Perché fino alla prossima stazione, finché non si risalgono le scale d’uscita per tornare alla vita in superficie, seduti fianco a fianco, dentro l’anonimo vagone è molto più labile ogni confine e ogni sentimento di appartenenza.

Io resto qui giù. Se mi incontrerete con il mio Mimì e vi osserverò sappiate che in quel preciso momento sto già inventando una storia per voi.

 

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